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Sì all’accesso all’informazione ambientale del concessionario demaniale: illegittima ogni limitazione soggettiva ed oggettiva.

Sì all’accesso all’informazione ambientale del concessionario demaniale: illegittima ogni limitazione soggettiva ed oggettiva

PAOLA BRAMBILLA*

La vicenda è singolare: un concessionario di una porzione del demanio marino, su cui sbocca un rio utilizzato come fognatura e cielo aperto, chiede anche ai sensi del d.lgs. 195/2005, al Comune di Genova e alla concessionaria del servizio di fognatura tutta la documentazione relativa alla costruzione e approvazione dei progetti, alla manutenzione degli impianti realizzati, ai controlli esercitati sugli impianti e sui reflui, ai formulari di trasporto dei fanghi del depuratore, e infine i dati della qualità delle acque del Rio e del tratto marino prospiciente la foce.

La domanda è originata dalla volontà di ottenere la cessazione di uno scarico dannoso per la propria attività, sia per i miasmi e la pessima qualità delle acque scaricate nel tratto di mare concesso, sia per comprendere le cause dell’interramento progressivo dello specchio d’acqua in concessione, causato dai sedimenti trasportati dal corso d’acqua divenuto fognatura.

I vari enti coinvolti rispondono parzialmente e in modo sommario: alcuni riferiscono di non avere documentazione o di non poterla reperire – la domanda era diretta ad ottenere chiedeva dieci anni di documentazione – altri consegnano solo deliberazioni senza elaborati progettuali, altri infine – la concessionaria del servizio di fognatura – si limitano a rispondere che il servizio funziona correttamente.

Il ricorso viene respinto in primo grado, con condanna della società alle spese. La sentenza del T.A.R. Liguria viene però ribaltata dal Consiglio di Stato, sez. VI, con sentenza 3329 del 6 giugno 2012.

Il collegio si sofferma preliminarmente su taluni principi cardine della normativa in tema, ricordando come il diritto di accesso all’informazione ambientale abbia ad oggetto un campo di applicazione vastissimo, come il richiedente non debba fornire alcuna giustificazione o motivazione della propria richiesta, per poi scendere agli specifici aspetti della vicenda statuendo l’illegittimità della risposta che si limiti ad affermare stentorea il funzionamento del servizio, evadendo una domanda diretta invece all’ottenimento di documentazione e dati. Conclude infine bollando di illegittimità anche l’affermazione dell’ente di inesistenza della documentazione richiesta, qualora contenuta in una semplice nota a firma dell’impiegato di turno.

Rispetto ai principi già noti in tema di accesso all’informazione ambientale, la particolarità della pronuncia consiste nell’affermazione del principio per cui, in caso di inesistenza della documentazione, tale circostanza deve essere attestata dal legale rappresentante dell’ente richiesto, con un’apposita dichiarazione a sua firma.

La valenza di responsabilizzazione della P.A. sino ai vertici istituzionali è chiarissima.

Rilevante infine anche la statuizione per cui la domanda di accesso ad atti e documenti che sia priva dell’indicazione della data esatta e del numero di protocollo non è generica, né esplorativa, in quanto l’ente a cui la domanda è rivolta è tenuto a conoscere la propria documentazione e a ricercarla.

L’evoluzione giurisprudenziale dunque conduce a restringere sempre di più il campo di operatività delle limitazioni ed eccezioni al diritto di accesso all’informazione ambientale, che oramai sono riconducibili alle sole ipotesi in cui l’autorità richiesta non sia una pubblica amministrazione o un incaricato di pubblico servizio (cfr. T.A.R. Lazio, 30 gennaio 2012, n. 966, nel caso di un gestore privato di una discarica), ai casi di procedimenti legislativi e di riservatezza codificata normativamente (Corte di Giustizia UE, 14 febbraio 2012, causa C-204-09) salvo quelli in cui il procedimento sia concluso e non vi siano norme sulla segretezza opponibili, e in quelle tassative fattispecie previste dalla direttiva 2003/04 sull’accesso del pubblico alle informazioni ambientali; casi in cui, tra l’altro, il giudice comunitario ha di recente ricordato che anche se una singola limitazione non può essere prevalente sull’interesse del pubblico alla divulgazione dell’informazione ambientale, quando concorrono più eccezioni allora esse devono essere valutate cumulativamente, perchè se ne apprezzi il peso congiunto, al fine della risoluzione del bilanciamento tra i contrapposti interessi (Corte di Giustizia UE, 28 luglio 2011, causa 71-10).

Altro caso in cui l’accesso può essere negato è quello in cui esso si traduca in un mero sindacato ispettivo sull’attività amministrativa. Anche in materia di “accesso ambientale”, infatti, è stato deciso che la domanda di accesso alle informazioni ambientali può consistere anche in una generica richiesta di informazioni sulle condizioni di un determinato contesto ambientale, purché questo contesto sia specificato e la richiesta appunto non sia mirata ad un mero sindacato ispettivo sull’attività dell’amministrazione (Consiglio Stato, sez. VI, 16 febbraio 2007, n. 668, e n. 555 del 10 febbraio 2006, nonché sez. VI – 11 gennaio 2010, n. 24).

Sono pronunce che, lette quali epigoni dell’attuale, confermano a contrario come l’accesso possa fungere a strumento di controllo mirato delle attività cui amministrazioni pubbliche e incaricati di pubblico servizio sono tenute, comprese quelle di monitoraggio, analisi e apprestamento degli interventi necessari per fronteggiare situazioni di inquinamento o compromissione ambientale da cui si originino danni anche in capo a soggetti diversi dalla classiche associazioni ambientaliste non profit.

* Avvocato in Bergamo

Note:

1 DONATA BORGONOVO RE, Informazione ambientale e diritto di accesso, in Codice dell’ambiente, (a cura di) Stefano Nespor e Ada Lucia De Cesaris, Giuffrè Ed., Milano, 2009; ENZO PELOSI, Rafforzamento dell’accesso all’informazione ambientale alla luce della direttiva 2003/4/CE, in Rivista giuridica dell’ambiente, 2004, 1, p. 23; AA.VV, Informazione ambientale e diritto di accesso, (a cura di) Giorgio Recchia, Cedam 2007.

 

La Corte di Cassazione si pronuncia sulla nozione di sottoprodotto, trattamento e normale pratica industriale

 

La Corte di Cassazione si pronuncia sulla nozione di sottoprodotto, trattamento e normale pratica industriale

RUGGERO TUMBIOLO*

Tra gli argomenti di più acceso dibattito giurisprudenziale e dottrinale in materia ambientale rientra a pieno titolo quello attinente all’individuazione del concetto di rifiuto e di sottoprodotto.

Senza voler ripercorrere in questa sede l’ampia discussione, tuttora aperta, sulle caratteristiche che deve avere un residuo di produzione per essere qualificato sottoprodotto, ci limiteremo a delle brevi osservazioni, rinviando per gli ulteriori approfondimenti ai numerosi contributi in argomento1.

Lo spunto ci viene dalla recente sentenza della III Sezione penale della Corte di Cassazione n. 17353/12 pronunciata il 17 aprile 2012 e depositata il 10 maggio 20122.

La decisione esamina la nozione di sottoprodotto contenuta nell’art. 184 bis del decreto legislativo n. 152 del 2006, cercando di fare chiarezza su alcuni punti più controversi della suddetta nozione.

Giova rammentare che, a mente della richiamata disposizione normativa, perché un residuo di produzione possa essere qualificato sottoprodotto occorre che vengano rispettate le seguenti condizioni:
a) il residuo in questione deve essere originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
b) deve essere certo che il residuo verrà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
c) l’utilizzo del residuo deve avvenire direttamente, senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
d) l’ulteriore utilizzo deve essere legale, ossia il residuo deve soddisfare, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non deve procurare impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana.

Il punto che genera maggiori difficoltà interpretative è la condizione secondo cui la sostanza o l’oggetto deve essere utilizzato “direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale”.

Dall’esegesi testuale della disposizione emerge che l’unico trattamento consentito è quello conforme alla “normale pratica industriale”.

Sul significato dell’inciso “normale pratica industriale” si è interrogata a lungo la dottrina.

In estrema sintesi e senza pretesa di completezza si possono registrare le seguenti opinioni:
– rientrano nella normale pratica industriale tutte quelle attività industriali che possono essere indifferentemente condotte con un sottoprodotto piuttosto che con una materia prima, un intermedio od un prodotto, senza che ciò comporti aggravi sotto il profilo dell’impatto ambientale3;
– la normale pratica industriale è quella ordinariamente in uso nello stabilimento nel quale il sottoprodotto verrà utilizzato; le operazioni consentite su di esso non possono che identificarsi in quelle stesse che l’impresa normalmente attua sulla materia prima sostituita4;
– i trattamenti della normale pratica industriale possono definirsi come il complesso di operazioni o fasi produttive che, secondo una prassi consolidata nel settore specifico di riferimento, caratterizza un dato ciclo di produzioni di beni e che sono sostanzialmente assimilabili a quelli a cui l’impresa sottopone anche il prodotto industriale ricavato dalla materia prima lavorata, prima di immetterlo sul mercato, al fine di meglio adeguarlo/integrarlo alle singole e specifiche esigenze di produzione, di utilizzo o di commercializzazione5;
– il possibile ulteriore trattamento consentito non deve mai comportare una trasformazione della sostanza o dell’oggetto (con mutamento della struttura e costituzione fisico-chimica), ma può consistere, al massimo, in minimi interventi, che non mutino in alcun modo la struttura, la sostanza e la qualità del sottoprodotto stesso e, comunque, siano normali rispetto al processo di produzione industriale ove avviene il riutilizzo, soprattutto nel senso che non devono consistere in un trattamento tipico di un rifiuto, tanto meno se effettuato al fine di consentirne il recupero6.
La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, fissa i seguenti principi:
– deve escludersi che il concetto di “normale pratica industriale” possa ricomprendere attività comportanti trasformazioni radicali del materiale trattato che ne stravolgano l’originaria natura;
– anche operazioni di minor impatto sul residuo, individuabili in operazioni quali la cernita, la vagliatura, la frantumazione o la macinazione, determinano una modificazione dell’originaria consistenza del residuo e, pertanto, rientrano nel concetto di trattamento, rispetto al quale occorre verificare quando possa ritenersi rientrante nella normale pratica industriale;
– deve propendersi per un’interpretazione della disposizione in esame tale da escludere dal novero della “normale pratica industriale” tutti gli interventi manipolativi del residuo diversi da quelli ordinariamente effettuati nel processo produttivo nel quale esso viene utilizzato;
– sembra maggiormente rispondente ai criteri generali di tutela dell’ambiente, cui si ispira la disciplina in tema di rifiuti, una lettura della norma che consideri conforme alla normale pratica industriale quelle operazioni che l’impresa normalmente effettua sulla materia prima che il sottoprodotto va a sostituire.

Nel concreto, tuttavia, la riconducibilità di determinati trattamenti alla “normale pratica industriale” può creare notevoli difficoltà, specie in relazione a processi industriali sempre più evoluti da un punto di vista tecnologico.

Saranno, tuttavia, da escludere dal novero dei trattamenti consentiti tutte quelle operazioni che vengono compiute esclusivamente sui residui di produzione e che appaiono finalizzate a manipolare detti residui per renderli compatibili con lo specifico ciclo produttivo di riutilizzo.

In altri termini, il trattamento deve rientrare tra quelli comunemente eseguiti nel contesto produttivo nel quale il residuo viene utilizzato e non deve concernere esclusivamente il sottoprodotto, ma deve trattarsi di una lavorazione tipica che subisce anche il prodotto o la materia prima che il sottoprodotto sostituisce.

* Avvocato in Como

1 Tra i più recenti contributi sulla nozione di rifiuto e sottoprodotto cfr.: G. AMENDOLA, Sottoprodotti: le prime sentenze e le prime elaborazioni della dottrina, in www. industrieambiente.it; P. GIAMPIETRO, Quando un residuo produttivo va qualificato sottoprodotto (e non rifiuto) secondo l’art. 5 della direttiva 2008/98/CE (per una corretta attuazione della disciplina comunitaria), in lexambiente.it; V. PAONE, I sottoprodotti e la normale pratica industriale: una questione spinosa, in Ambiente e Sviluppo, 2011, n. 11; L. PRATI, I sottoprodotti dopo il recepimento della direttiva 2008/98/CE, in Rivista Giuridica dell’Ambiente, 2011, 549.
2 Per un primo commento alla sentenza si rinvia a: G. AMENDOLA, Sottoprodotto e normale pratica industriale: finalmente interviene la Cassazione, in lexambiente.it. e V. VATTANI, Il concetto di normale pratica industriale riferito al sottoprodotto: la Cassazione ne delimita i confini, in dirittoambiente.net.
3 L. PRATI, I sottoprodotti dopo il recepimento della direttiva 2008/98/CE, cit.
4 V. PAONE, I sottoprodotti e la normale pratica industriale: una questione spinosa, cit.
5 P. GIAMPIETRO, Quando un residuo produttivo va qualificato sottoprodotto (e non rifiuto) secondo l’art. 5 della direttiva 2008/98/CE (per una corretta attuazione della disciplina comunitaria), cit.
6 G. AMENDOLA, Sottoprodotti: le prime sentenze e le prime elaborazioni della dottrina, cit.

 

La nuova disciplina sui materiali di riporto

 
La nuova disciplina sui materiali di riporto.

GIULIA GAVAGNIN*

Un importante passo in avanti nella ancora dibattuta questione della definizione di rifiuto è stato fatto a seguito dell’entrata in vigore della L. n. 28/2012 (legge di conversione del D.L. n. 2 del 25 gennaio 2012 recante misure straordinarie e urgenti in materia ambientale).

Troppo spesso, infatti, le pubbliche amministrazioni hanno applicato indiscriminatamente le norme in materia di rifiuti (con emanazione di ordinanze ex art. 191 e 192 T.U. e sistematica caratterizzazione del rifiuto ai sensi del D. Lgs. n. 186/06) anche a siti contaminati  molto estesi, in base all’assunto che il terreno frammisto a rifiuti non pericolosi (anche inerti, secondo le definizione contenuta nella L. 36/03) fosse da considerare una discarica, con inutili aggravi di spesa sull’operatore senza una maggiore tutela ambientale.
A parere di chi scrive, infatti, non è ancora stata pienamente metabolizzata dai pubblici amministratori l’importanza della sostanziale riforma in materia di bonifiche avvenuta con l’introduzione degli artt. 239 e ss. del D. Lgs. n. 152/06 che ha reso obbligatoria la caratterizzazione del sito e, soprattutto, l’analisi del rischio sito-specifica a seguito dell’avvenuta scoperta del superamento  delle CSC. In particolare, lo strumento di cui all’art. 240, comma 1, lett. s) del T.U. è l’unico a garantire la salute del recettore umano e, in particolare, dei bambini che fruiscono quotidianamente del sito potenzialmente contaminato, poiché il suo scopo è l’individuazione degli “ effetti sulla salute umana derivante dall’esposizione prolungata all’azione delle sostanze presenti nelle matrici ambientali contaminate”.  In caso di superamento delle CSR, infatti, il sito nella sua interezza sarà assoggettato a procedimento di bonifica e i suoi valori di concentrazione delle sostanze inquinanti saranno ricondotti a livelli accettabili per gli usi cui il sito è stato dichiarato, con tranquillità per la salute umana, che è il valore primario da perseguire.

Paradossalmente, la caratterizzazione indiscriminata del rifiuto non pericoloso frammisto al terreno (facente, quindi, ‘corpo unico’ con il terreno stesso), oltre che onerosa sotto il profilo economico, è anche poco conveniente sotto il profilo della tutela della salute umana, poiché non comporta alcuna analisi sanitaria.

Un  primo chiarimento si era avuto, invero, con la revisione della lettera b) dell’art. 185 T.U.  introdotta dal D. Lgs. n. 205 del 3 dicembre 2010 che aveva escluso dall’ambito di applicazione della parte quarta del D. Lgs. n. 152/06 “il terreno (in situ), inclusi il suolo contaminato non scavato e gli edifici collegati permanentemente al terreno, fermo restando quanto previsto dagli artt. 239 e ss. relativamente alla bonifica dei siti contaminati”.

Così facendo, il legislatore ha coerentemente recepito l’orientamento dottrinale che riteneva il rifiuto – nella definizione di cui all’art. 183 comma 1, lett. a) T.U. e prima, art. 6, comma 1, lett. a) D. Lgs. n. 22/97 – essenzialmente un “bene mobile” e, quindi, qualificava come rifiuto soltanto  il terreno contaminato già escavato1. Ma non è tutto. Questa importante precisazione aggiunge unitarietà alla definizione di “sito”, qualificato dall’art. 240, comma 1, lett. a) T.U. come “l’area o porzione di territorio, geograficamente definita e determinata, intesa nelle diverse matrici ambientali (suolo, sottosuolo ed acque sotterranee) e comprensiva delle eventuali strutture edilizie ed impiantistiche presenti”. In particolare, il “terreno in situ” diviene parte integrante della matrice “suolo” assoggettabile alla procedura ex art. 242 T.U.

La recentissima L. n. 28/2012 costituisce un ulteriore passo in avanti in questo senso.

L’art. 1, nella parte in cui sostituisce l’art. 3 del previgente Decreto Legge n. 2/2012 fornisce una qualificazione ulteriore alla definizione di “terreno in situ”, facendo così ulteriore chiarezza anche per l’ipotesi specifica di interesse in questo procedimento.  La norma così recita:
 “ 1. Ferma restando la disciplina in materia di bonifica dei suoli contaminati, i riferimenti al “suolo” contenuti all’articolo 185, commi 1, lettere b) e c), e 4, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, si interpretano come riferiti anche alle matrici materiali di riporto di cui all’allegato 2 alla parte IV del medesimo decreto legislativo.
2. Ai fini dell’applicazione del presente articolo, per matrici materiali di riporto si intendono i materiali eterogenei, come disciplinati dal decreto di cui all’articolo 49 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, utilizzati per la realizzazione di riempimenti e rilevati, non assimilabili per caratteristiche geologiche e stratigrafiche al terreno in situ, all’interno dei quali possono trovarsi materiali estranei.
3. Fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui al comma 2 del presente articolo, le matrici materiali di riporto, eventualmente presenti nel suolo di cui all’articolo 185, commi 1, lettere b) e c), e 4, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni, sono considerate sottoprodotti solo se ricorrono le condizioni di cui all’articolo 184-bis del citato decreto legislativo n. 152 del 2006.

4. All’articolo 240, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, dopo la parola: “suolo” sono inserite le seguenti: “, materiali di riporto”.

La recente previsione normativa, pertanto, accanto al terreno in situ, ha  inserito i materiali di riporto tra gli elementi costituenti il “suolo”. Ne consegue che laddove il sito presenti quantità consistenti di materiali di riporto, questo dovrà essere assoggettato alle norme di cui agli art. 239 e ss. e quindi ad un procedimento di bonifica, con presentazione di piano di indagine, piano di caratterizzazione ed analisi del rischio sito specifica nell’ipotesi di superamento delle CSC. Gli eventuali rifiuti, intesi come materiali estranei riconducibili alle ipotesi di cui agli art. 183 e ss. T.U., andranno caratterizzati ed allontanati o recuperati secondo protocollo specifico.

Facendo chiarezza sul punto, il legislatore ha anche opportunamente ampliato l’utilizzo dell’analisi del rischio sito specifica, che si sta rivelando il più efficace strumento di tutela della salute dell’uomo e, quindi, presidio ambientale di primaria importanza.
   

* Avvocato in Venezia

Vd. David Roettgen: “sito contaminato come rifiuto?” in http://www.giuristiambientali.it/documenti/20041118_RI.pdf

 

Pubblicato su Osservatorio AmbienteDiritto.it – Greenlex il 30 maggio 2012

Colombia, la riserva Giles-Fuertesi raddoppia.

Colombia, la riserva Giles-Fuertesi raddoppia.

SIMONETTA SANDRI*

Grazie al supporto ed all’impegno della Fundacion Pro-Aves, del Worldwide Land Trust (WLT), dell’American Bird Association (ABC) e della Loro Parquet Fundacion, la riserva naturale colombiana Giles-Fuertesi ha visto recentemente il raddoppio della sua estensione. La riserva, gestita da ProAves, partner colombiano dell’ABC, ospita la specie protetta e a minaccia di estinzione del pappagallo alindaco, oltre ad undici altre specie di uccelli, mammiferi ed anfibi a rischio estinzione.

Con meno di 250 esemplari rimasti, la specie colorata dei pappagalli alindaco della famiglia dei Psittacidi, è una specie rarissima, endemica delle pendici di un vulcano sulle Ande colombiane. Avvistato l’ultima volta nel 1911 dal personale dell’American Museum of National History, tale pappagallo non fu mai fotografato fino al 28 luglio 2002. Fino a quel momento era stato considerato estinto. Dopo la sua riscoperta, ABC, ProAves e WLT hanno lavorato insieme per proteggerlo nel suo raggio di diffusione.

Nel 2004, ProAves aveva condotto un esperimento pilota di nidificazione che aveva avuto successo grazie all’intervento delle Loro Parquet Fundacion. Dal 2005, infatti, 23 coppie di pappagalli avevano nidificato nei nidi pilota e il 2009 aveva visto la creazione della riserva Giles-Fuertes, che oggi protegge un quinto della popolazione globale dei pappagalli alindaco. ProAves ed altri gruppi di conservazione hanno creato una serie di riserve conosciute come “il corridoio dei pappagalli a minaccia di estinzione”, che include una riserva municipale e tre private, tutte da essa direttamente gestite.

Con la nuova recente estensione, tali riserve comprendono e conservano più di 18.000 acri di habitat e proteggono circa il 70% della popolazione dei pappagalli alindaco, oltre che gli esemplari di altre quattro specie di pappagalli a rischio estinzione: il pappagallo facciaruggine, il piumedorate, il guancegialle ed il fronterossiccia.

La minaccia principale a tali specie proviene dal fatto che i luoghi di nidificazione nelle foreste vengono distrutti dagli uomini per dedicarle ad attività di coltivazione o di estrazione o comunque di utilizzo ai fini più svariati. La riserva attuale, che si trova nello stesso luogo della citata riscoperta degli esemplari di pappagalli alindaco avvenuta nel 2002, è sponsorizzata anche dai Paesi Bassi ed è gestita da un piano dedicato che fornisce una ben organizzata e precisa guida alla conservazione del pappagallo e che, sviluppato specificamente per l’area, contiene altresì un programma educativo di rilievo per le comunità locali. Dal 2005, il “Parrot Bus” ha percorso le zone coinvolte portando il messaggio della conservazione alle comunità locali, rappresentando così un mezzo pratico efficace per raggiungere la popolazione. Dal suo primo viaggio, il bus ha raggiunto oltre 70.000 bambini ed adulti che hanno assistito a dimostrazioni e workshop e ricevuto informazioni sulla conservazione degli uccelli e del loro habitat specifico. La creazione di tale classe mobile volta a diffondere una specifica educazione ambientale è diventata realtà grazie al supporto del Disney Wildlife Conservation Fund. Un esempio concreto di come anche il privato possa utilmente contribuire alla conservazione e alla protezione di specie a rischio.

* Environment manager presso Eni exploration & production – SEQ – AMTE.

 

Pubblicato sull’Osservatorio AmbienteDiritto.it – Greenlex il 24/05/2012
 

Fratturazione idraulica in Italia: sì o no?

 

Fratturazione idraulica in Italia: sì o no?

CARLO LUCA COPPINI* e FILIPPO PILERI**
 

1. Introduzione. – 2. I giacimenti di gas, convenzionali e non convenzionali: due differenti tecniche estrattive. – 3. I vantaggi e il lato oscuro del fraking. – 4. Conclusioni.

1.     Introduzione.

    Questi tempi di avversa congiuntura economica sono senza dubbio caratterizzati da una particolare preoccupazione per l’onerosità e la scarsità delle risorse energetiche di cui, sempre più affannosamente, si sostentano le nostre società industrializzate. La faticosa ricerca di nuove fonti energetiche sta divenendo sempre più la vera sfida di questo secolo, soprattutto sotto la spinta produttiva e inquinante dei così detti “Paesi emergenti”.
Dopo l’11 marzo 2011, data dell’incidente di Fukushima, tutte le nazioni hanno avuto modo di interrogarsi su quale sia la strada da intraprendere alla ricerca di quella che potrebbe essere definita la “pietra filosofale” dei nostri tempi, ossia di un’accessibile fonte energetica duratura e a basso costo, in sostituzione dei sempre più cari ed ormai “razionati” combustibili fossili, della pericolosa energia nucleare e delle ancor insufficienti energie rinnovabili.
In un siffatto scenario, è oggetto d’indagine e di molteplici speculazioni una materia destinata ad essere, senza dubbio, il centro delle prossime ricerche scientifiche in tema di nuove risorse energetiche: la fratturazione idraulica (meglio nota come fraking). Questo è un processo estrattivo di gas combustibile ideato negli Stati Uniti ad inizio Novecento e solo recentemente, per grazia del miracoloso sviluppo tecnologico contemporaneo, posto in pratica con buoni risultati che potrebbero letteralmente configurare un nuovo assetto geopolitico per la detenzione e distribuzione mondiale delle materie prime energetiche.
È opportuno, dunque, approfondire la tematica concernente questo nuovo procedimento estrattivo del gas metano, focalizzando l’analisi sui suoi aspetti positivi dello stesso e sui dubbi e timori che tale tecnica sta sollevando.

2.     I giacimenti di gas, “convenzionali” e “non convenzionali”: due differenti tecniche estrattive.

Il gas metano, che ovunque si usa quale combustibile fossile, è il risultato di un processo millenario di sedimentazione e decomposizione di materiale organico il quale, depositatosi sugli antichi fondali  marini fra 145-90 milioni di anni fa, venne ricoperto, nel corso dei millenni, da sedimenti e ulteriori strati rocciosi in seguito ai movimenti tellurici della crosta terrestre che hanno dato l’aspetto attuale ai continenti.
Dalla decomposizione di questa materia organica si sono generati gli idrocarburi (nel caso in esame, il metano) inclini a spostarsi verso la superficie, se nulla impedisce la loro risalita. Nel loro percorso verso l’alto dalle profondità della terra, gli idrocarburi possono, in una prima ipotesi, incorrere in quello che viene definito in gergo una “trappola”, vale a dire uno strato di rocce impermeabili che ne blocca la migrazione e ne favorisce l’accumulo massivo nella stessa, venendo così a costituire un giacimento di tipo “convenzionale”.
In tale ipotesi, il procedimento estrattivo tradizionale degli idrocarburi consiste nell’intercettare la “trappola” impermeabile e, attraverso un processo di trivellazione, bucare lo strato che imprigiona il gas andando a permetterne la naturale risalita dello stesso. Questo è il procedimento estrattivo del gas metano definito “convenzionale”.
Per converso, in una seconda ipotesi, è possibile che, nel loro processo di risalita, gli idrocarburi siano incappati non in una “trappola” impermeabile, ma in uno strato roccioso sedimentario, poroso e permeabile (le c.d. rocce di scisto) venendo assorbiti da esse: si forma così un giacimento gassoso “intrinseco” alle rocce di scisto definito di tipo “non convenzionale”.
La tecnica della fratturazione idraulica è stata studiata al fine di ricavare il gas da questo secondo tipo di giacimenti “non convenzionali”.
Il procedimento estrattivo del gas “non convenzionale” si serve, in principio, di una tecnica ormai collaudata in campo di perforazioni in mare aperto, ossia quella della trivellazione orizzontale: una trivella discende fino al giacimento di rocce di scisto, le perfora e comincia a trivellare lo strato roccioso da esse costituito attraversandolo in senso orizzontale. In questo condotto orizzontale vengono calate e fatte saltare delle cariche per aprire delle fenditure nello strato roccioso. A questo punto entra in gioco il secondo passaggio, innovativo, che consiste nel pompare nel pozzo, ad una pressione di centinaia di atmosfere, una soluzione (rectius flusso) composta da acqua, sabbia e sostanze chimiche (meglio specificate a seguire). Gli additivi chimici hanno la funzione di blandire le rocce di scisto e mantenere basso il coefficiente di viscosità del fluido; la pressione di iniezione esercitata da suddetto fluido causa delle macro fratture nello strato roccioso, mentre la sabbia svolge il compito di impedire che le fratture si richiudano di modo da permettere il rilascio di quelle preziose micro particelle di gas imprigionate all’interno delle rocce di scisto.

3.     I vantaggi ed il lato oscuro del fraking.

L’innovativa tecnica estrattiva del fraking, fantascientifica fino a pochi anni or sono, è stata recentemente applicata con successo in Nord America, su un grande giacimento di rocce di scisto detto “Marcellus Shale”, fra gli stati dell’Ohio, West Virginia, Virginia, Pennsylvanya e New York. L’attività estrattiva sulle “Marcellus” sta ottenendo concreti risultati da parte di alcune compagnie pioniere del settore (Quicksilver Resources, Chevron, Halliburton e altre…) capaci oggi di estrarre gas “non convenzionale” a costi competitivi.
Il buon esito dello sfruttamento dalle rocce di scisto (da sempre considerato proibitivo per gli elevati costi di attuazione) ha generato gran entusiasmo in vari paesi del mondo, sull’onda del fervore che negli USA ha consacrato il gas “non convenzionale” quale antibiotico “per ogni male” in termini di sviluppo, occupazione e indipendenza energetica.
In quegli Stati nordamericani nel cui sottosuolo si nascondono le rocce di scisto, tradizionalmente i meno industrializzati e dalle economie più depresse, si sta assistendo in questi ultimi anni a una rapida evoluzione infrastrutturale e dei servizi che gravitano intorno alle grandi industrie estrattive del gas di scisto, non trascurando neppure l’incremento di forza lavoro che questi grandi impianti estrattivi richiedono: una nuova rivoluzione industriale, dunque, in territori di forte e radicata tradizione agricola.
Ad un primo sguardo, la fonte energetica “riscoperta” attraverso lo sfruttamento dei giacimenti di gas “non convenzionale” promette sicuri vantaggi che possono riassumersi in tre punti essenziali:
1) offre una risorsa energetica nazionale e a basso costo (fino al 50% in meno, rispetto al gas convenzionale d’importazione);
2) favorisce l’indipendenza energetica da altri paesi produttori di gas convenzionale.
3) sviluppa zone periferiche economicamente depresse;
4) crea nuovi posti di lavoro.
Tutti i validi motivi sopra citati, e in particolare il primo due fra quelli annoverati, stanno suscitando un fortissimo interesse europeo nei confronti delle nuove opportunità riconducibili all’estrazione e la raffinazione del gas di scisto.
Ed invero, soprattutto i paesi dell’est, come Polonia, Romania e Bulgaria, il cui sottosuolo è ricco di giacimenti di rocce di scisto, stanno considerando con particolare interesse la concreta possibilità di “importare” la nuova tecnica estrattiva, divenendo produttori di energia a basso costo. Ed è presente in queste giuste ambizioni produttive un più che legittimo entusiasmo ad investire in una tecnologia innovativa ma anche un desiderio di emancipazione dalla travagliata dipendenza energetica dalla Russia (ed in particolare, dagli umori di Mosca, le cui vertenze con questo o quel paese non di rado hanno reso altalenante la fornitura di gas verso alcune delle ex repubbliche sovietiche).
In tale contesto, anche l’Italia sta guardando ad una simile prospettiva con gran entusiasmo: Eni ha acquisito il 27% della Quicksilver e la Sorgenia ha sottoscritto con il governo polacco accordi per sfruttamento delle notevoli risorse minerarie di cui è dotato il sottosuolo di quel Paese.
Questo acceleramento degli eventi deve, a ogni buon conto, essere colto come occasione preziosa per una seria e oculata riflessione su ciò che sta attualmente accadendo proprio nel paese in cui, in tema di fratturazione idraulica, tutto ha avuto inizio: gli USA.
Nel 2000 è stato girato un documentario inchiesta sulla crescita vertiginosa degli impianti estrattivi del gas di scisto in Nord America, che ha sollevato grande scalpore nell’opinione pubblica americana. In questo reportage del regista Josh Fox, “Gasland” (2010), è stato posto l’accento sul problema degli effetti indesiderati prodotti dall’attività estrattiva di gas “non convenzionale”.
Il Professor Anthony R. Ingraffea, docente di Ingegneria Civile presso la Cornell University di New York e pioniere nello studio del procedimento estrattivo del gas di scisto, riassume in cinque punti i pericoli che comporta il procedimento estrattivo da un giacimento non convenzionale, problemi scientificamente certi, già riscontrati e attualmente oggetto di ulteriori studi:
1) la fratturazione delle rocce di scisto è un processo che per essere portato a compimento necessita di enormi quantitativi d’acqua, sottraendo la stessa all’agricoltura, all’allevamento e, più in generale, ai bisogni delle popolazioni;
2) le sostanze chimiche, in aggiunta all’acqua, che vanno a comporre il flusso iniettato nel pozzo orizzontale sono, solo per citarne alcune, metanolo, acido cloridrico, acido glicolico, glicole etilenico, formaldeide, tutte sostanze chimiche altamente tossiche. Le stesse filtrano attraverso lo strato roccioso (che si ricorda, non è impermeabile) inquinando le falde acquifere;
3) i giacimenti di rocce scisto contengono radio 226. Il fluido chimico che le attraversa per causarne la fratturazione, quando risale verso la superficie per essere stoccato e, nel migliore dei casi, smaltito, porta con sé materiale radioattivo e cancerogeno. La fratturazione idraulica non produce, quindi, solo rifiuti liquidi tossici, ma anche radioattivi.
4) il continuo viavai di automezzi pesanti, autocisterne, autopompe  e quant’altro, viola e stravolgendo la conformazione paesaggistica e biologica di quei luoghi (prima incontaminati) che hanno la sfortuna di ospitare i pozzi di gas, incrementando il traffico e il caos nei centri urbani.
In definitiva, per molte organizzazioni ambientaliste gli impianti estrattivi di gas “non convenzionale” sarebbero delle autentiche bombe ecologiche in grado di fare “terra bruciata” intorno a loro, a discapito di risorse idriche potabili, agricoltura, allevamento e paesaggio.

4.     Conclusioni

Le tematiche proposte hanno voluto offrire una breve visione d’insieme sul fenomeno della fratturazione idraulica. Si sono trattati gli argomenti di quanti sostengono l’importanza di fare ricerca e investire per lo sviluppo delle economie nazionali nell’insegna di un processo estrattivo del gas di scisto sicuro e sostenibile, e si sono riportate anche le ragioni dei detrattori del fraking che lo vorrebbero invece bandito tout court.
In ultima analisi e per dovere di cronaca, è d’uopo richiamare la recente presa di posizione di alcuni Governi europei a riguardo dell’estrazione del gas di scisto nei propri confini nazionali.
A partire dal Paese ove tutto ha avuto inizio, gli USA, lo stato di New York e ha proibito il fraking nel proprio territorio. Allo stesso modo, lo scorso 18 gennaio, ha statuito il legislatore bulgaro, revocando alla compagnia statunitense Chevron l’autorizzazione che la stessa aveva ottenuto nel 2011 per compiere ricerche di giacimenti di gas “non convenzionale” nella parte nordorientale del Paese. Stesso orientamento ha assunto anche il parlamento francese, legislatore tradizionalmente attento alle politiche ambientali. Anche in Spagna, nella comunità autonoma della Cantabria, è attualmente in corso un assai vivace dibattito fra associazioni ambientaliste, Comuni e Governo autonomo, per la moratoria del fraking nel territorio di questa piccola regione settentrionale della Penisola Iberica.
Queste considerazioni devono far riflettere quanti si auspicano l’introduzione del fraking anche in Italia, in Toscana, in Sicilia o magari in Sardegna, terre il cui sottosuolo ospita formazioni di scisto. Ad abundantiam, coloro che ciecamente si contentano di estrarre il gas di scisto fuori “dal giardino di casa” per importare, poi, solo il prodotto finito, tengano a mente che alla lunga, chi inquina il “giardino del vicino” finisce inevitabilmente col ritrovarsi i rifiuti anche sull’uscio di casa propria.

*Avvocato in Milano
** Dottore in giurisprudenza
 

Pubblicato sull’Osservatorio AmbienteDiritto.it – Greenlex il 24/05/2012

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