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La settimana europea di riduzione dei rifiuti dal 19 al 27 novembre 2011

 

La settimana europea di riduzione dei rifiuti  dal 19 al 27 novembre 2011.


CARLO LUCA COPPINI*
 
 
 
L’Unione europea prosegue nel proprio tentativo di sensibilizzare tutti gli operatori direttamente coinvolti nel problema della gestione dei rifiuti a ridurne la produzione e lo fa mediante la proposizione della terza edizione della settimana europea della riduzione dei rifiuti. L’intento deriva dalla volontà di perseguire efficacemente gli obiettivi di prevenzione dei rifiuti enunciati nella Direttiva quadro sui rifiuti 2008/98/CE che, definendo le priorità nella gerarchia dei rifiuti, pone proprio la “prevenzione” al primo posto rispetto a b) preparazione per il riutilizzo, c) riciclaggio, d) recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia; e infine allo smaltimento (art. 4 della Direttiva 2008/98/CE). Principi, questi, introdotti dal legislatore italiano nella panoramica normativa ambientale con gli articoli 180 e 180 bis del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 156, così come modificato dal D.Lgs. 3 dicembre 2010, n. 205.
La complessità che sicuramente ha sino ad ora posto e che porrà il problema della prevenzione della produzione di rifiuti non può comportare risposte immediate ma processi che lo stesso art. 28 della suddetta Direttiva impone di cercare attraverso lo studio e la realizzazione di veri e propri programmi di prevenzione con il principale scopo di dissociare la crescita economica dagli impatti ambientali connessi alla produzione dei rifiuti.
La partecipazione alla settimana europea per la riduzione dei rifiuti, dal 19 al 27 novembre, è patrocinata principalmente dal Ministero dell’Ambiente ed è estesa a tutti gli enti, istituzioni – sia pubbliche che private – associazioni, scuole, Università ed operatori del settore (cc.dd.: Project Developer). L’iscrizione potrà essere effettuata sino al prossimo 2 novembre attraverso la compilazione di un apposito modulo disponibile sui siti: http://www.ecodallecitta.it/menorifiuti/documenti.php oppure www.ewwr.eu/.
Lo scopo dell’iniziativa, quindi, è quello di raccogliere e di mettere in risalto azioni e/o esperienze che possano migliorare la riduzione dei rifiuti domestici urbani, quelli da imballaggi ed in ogni caso tutto il materiale che, con particolari trattamenti, potrebbe essere recuperato anche quale sottoprodotto con la prioritaria funzione di mostrare il conseguimento concreto degli obiettivi prefissati nell’ambito dei programmi europei divenendo, in questo modo, dei punti di riferimento utili per chi decide di avviare nuovi progetti. 
L’elemento che oggettivamente contraddistingue la realtà italiana in materia di produzione dei rifiuti urbani, tuttavia, è che questa sia ritornata ad essere direttamente proporzionale all’aumento dei consumi. Dal 2010, infatti, la produzione dei rifiuti è aumentata visto che, come accertato dagli indicatori ambientali urbani dell’Istat nel 2010, nei Comuni capoluogo di Provincia la quantità pro capite di rifiuti è tornata a crescere in media dell’0,9% rispetto al 2009 (pari a 609,5 kg abitante). Il dato è in controtendenza: dopo tre anni di andamento decrescente nel 2010 i valori pro capite sono tornati ad aumentare.
A tre anni di distanza dalla succitata Direttiva quadro, quindi, molto è stato fatto ma molto rimane ancora da fare soprattutto al fine di far convivere i due diversi momenti di concreta partecipazione dei produttori dei rifiuti – di qualsiasi tipologia e/o provenienza – con quelli di adeguamento alle possibili incognite derivanti dal consumo e dai diversi periodi economici al fine di diminuirne gradualmente l’impatto e l’incidenza, sino ad eliminarla totalmente.
 
 
* Avvocato in Milano
 

Degrado ambientale e cambiamento climatico: tre risoluzioni dello U.N. Human Rights Council.

 

Degrado ambientale e cambiamento climatico: tre risoluzioni dello U.N. Human Rights Council.


STEFANO NESPOR*
 
 
In questo mese di ottobre si è tenuta a Ginevra la 18esima sessione del Comitato per i diritti umani (Human Rights Council), un’Agenzia istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel marzo del 2006 con il compito di sorvegliare la situazione dei diritti umani, denunciarne le violazioni e formulare raccomandazioni per assicurarne una sempre più effettiva tutela (si veda il sito http://www2.ohchr.org/english/bodies/hrcouncil/). Tra le più importanti iniziative poste in essere dal Comitato è la procedura di verifica periodica globale del rispetto dei diritti umani in tutti i 192 Stati aderenti alle Nazioni Unite tenutasi a Ginevra. Nel corso della 18esima sessione sono state adottate tre risoluzioni, con un tema comune: l’impatto del degrado ambientale sui diritti umani.
La prima risoluzione riguarda il diritto umano all’acqua potabile e ai servizi igienici e contiene un invito a tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite ad adottare un piano per affrontare questi problemi. L’indicazione è quella di adottare una strategia che integri tutti gli aspetti del rifornimento dell’acqua potabile e individui tutte le varie responsabilità, degli enti o delle agenzie pubbliche e dei soggetti privati. L’obiettivo è incrementare la partecipazione di tutti coloro che possono contribuire ad offrire l’acqua potabile a tutti coloro che ne sono privi, garantire la trasparenza delle scelte e delle decisioni, assicurare il rispetto del principio di non discriminazione e di uguaglianza.
La seconda risoluzione si occupa degli effetti del cambiamento climatico sui diritti umani.
A questo proposito, vale la pena di ricordare che vi è stata una prima azione giudiziaria a livello internazionale. L’ha proposta non, come molti si aspettavano, una delle piccole isole dell’Oceano Pacifico che rischia di essere sommersa dall’innalzamento del livello delle acque provocato dallo scioglimento dei ghiacci polari: tra queste, Tuvalu, una piccola isola-Stato di circa 11.000 abitanti che, secondo le previsioni, sarà tra i primi a scomparire, ha ripetutamente manifestato l’intenzione di proporre un ricorso contro Stati Uniti e Australia davanti alla Corte internazionale di giustizia all’Aja per violazione dei diritti umani dei propri abitanti, ma, ad oggi non ha intrapreso iniziative in questo senso. L’azione è stata invece proposta da un’organizzazione “quasi-statale”, la Inuit Circumpolar Conference (ICC) che coordina le popolazioni Inuit (circa 155.000 persone) residenti nelle zone artiche di Canada, Russia, Groenlandia e Stati Uniti. Il rappresentante della ICC ha annunciato alla Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico svoltasi nel dicembre del 2005 a Montreal la proposizione di un ricorso alla Inter-American Commission on Human Rights (IACHR), organo della Organizzazione degli Stati americani (OAS), preposto alla tutela dei diritti umani dei cittadini degli Stati membri. Il ricorso è rivolto contro gli Stati Uniti quali maggiori responsabili del cambiamento climatico che sta sconvolgendo l’ambiente ove gli Inuit vivono e intende ottenere una decisione che imponga l’adozione di politiche di riduzione delle emissioni di gas serra. Secondo gli studi realizzati da oltre trecento scienziati e raccolti nel Arctic Climate Impact Assessment il surriscaldamento prodotto dal cambiamento climatico (a seguito delle emissioni di gas serra provocati essenzialmente dall’utilizzazione di combustibili fossili per ragioni di trasporto e produzione) mette in pericolo la stessa sopravvivenza degli Inuit.
Secondo il Comitato delle Nazioni Unite, l’aumento della popolazione nelle aree più povere, unitamente agli effetti del cambiamento climatico e del ridursi della disponibilità di acqua potabile potrebbero provocare movimenti migratori che, secondo una NGO che si occupa di questi problemi, Refugees International, raggiungeranno i 200 milioni di persone nel 2050.
La terza risoluzione si occupa del trattamento e dello smaltimento delle sostanze pericolose e dei rifiuti. Un rapporto delle Nazioni Unite del 2011 pone in evidenza i pericoli dell’omesso o carente smaltimento dei rifiuti pericolosi per la salute umana e quindi le lesioni che in questo settore possono essere provocate ai diritti umani.
 
* Avvocato in Milano
 

Il servizio idrico integrato dopo i referendum e la riforma dei servizi pubblici locali.

 

 Il servizio idrico integrato dopo i referendum e la riforma dei servizi pubblici locali.

PAOLA BRAMBILLA*

 
 
1) La prima fase normativa.
Tra il 2010 e il 2011 il servizio idrico integrato è stato oggetto di profondi mutamenti normativi relativi alla sua gestione, tanto a livello nazionale, quanto a livello regionale, e ciò per effetto sia di interventi legislativi che a seguito del referendum del maggio di quest’anno: democrazia indiretta e diretta si sono scontrate, non casualmente, su un campo di battaglia cruciale, quello dei servizi pubblici locali che toccano le tematiche dei diritti fondamentali, dell’ambiente, della salute.
Non per nulla il diritto comunitario ha coniato la nozione di servizi di interesse economico generale, che combina in sé i due volti della concorrenza, ritenuta cardine per una sana competizione degli operatori a favore anche dell’utenza, e dell’accessibilità ed universalità del servizio, da garantire anche mediante deroghe ai rigidi principi concorrenziali, deroghe che legittimano anche l’eventuale concessione di aiuti di stato per realizzare gli obiettivi peculiari di interesse pubblico propri del singolo servizio.
La premessa è doverosa per affrontare, sia pure sinteticamente, il quadro dell’attuale configurazione del servizio idrico integrato.
Dobbiamo al riguardo prendere le mosse dalla legge 36/94, c.d. legge Galli, che delinea per prima il concetto di servizio idrico integrato – anni luce prima della direttiva quadro 2000/60 in materia di acque – come unione dei segmenti dell’acquedotto, della fognatura e della distribuzione, da gestire unitariamente, secondo criteri di efficienza ed efficacia ed apertura al privato, in una logica industriale, contemperata dall’adozione standard di servizio e da principi tariffari omogenei e regolati.
Alla normativa nazionale seguono gli innesti comunitari, legati al susseguirsi della disciplina europea in tema di tutela delle acque dall’inquinamento, poi della direttiva quadro in materia di acque; quest’ultima, in particolare, da un lato introduce aspetti economici di indiscusso rilevo, come il principio del full recovery cost (ovvero la copertura integrale del costo del ciclo dell’acqua, inteso però anche come captazione, protezione dell’acquifero, rinaturazione, tutela quali-quantitativa della risorsa), dall’altro impone la gestione della risorsa idrica per bacini idrografici e non per confini amministrativi; precetti ancora in gran parte inattuati sia a livello nazionale che regionale; come rimane inattuata la partecipazione alla pianificazione in materia di acque, ancora sconosciuta persino al pubblico dei tecnici, tanto che la relativa Guida è stata tradotta in italiano per la prima volta solo grazie al WWF Italia. 
Il d.lgs. 152/06, c.d. codice dell’ambiente, che si occupa anche di acque, infine – pur non riuscendo nell’intento unificatore preteso dal titolo della normativa – regolamenta ex novo anche il servizio idrico integrato, con la previsione di una gestione per ambiti e di un’autorità d’ambito cui viene conferita personalità giuridica, deputata ad organizzare il servizio, a scegliere il modello di gestione, e ad affidare la gestione stessa a terzi.
 
2) La stretta neoliberista.
In questo scenario irrompe la normativa sui servizi pubblici locali di ispirazione più che liberista, centralista; falcidia infatti la rosa dei possibili modelli di gestione dei servizi pubblici delineata dagli articoli 113 e 113 bis del T.U.E.L. con il famigerato art. 23-bis del D.L. 112/2008, convertito in L. 133/08 e poi modificato dal D.L. 135/09, c.d. decreto Ronchi, convertito in L. 166/09 e seguito dal regolamento di attuazione di cui al D.P.R. 168/2010. 
La riforma lascia spazio solo per la gara, o per l’affidamento a miste con socio privato scelto con gara (a doppio oggetto, ovvero anche per la concessione del servizio) e detentore di una quota almeno del 40% del capitale sociale, annichilendo ogni possibile aspirazione ad uno degli altri modelli legittimati dal diritto comunitario della concorrenza, e bandendo dunque – se non per casi eccezionali – l’affidamento in house e la possibilità per gli enti locali, diretti interessati alla gestione dell’acqua per le loro popolazioni, di governare questo servizio essenziale.
La riforma prevede inoltre, per evitare proroghe nel passaggio al regime della gestione pienamente concorrenziale dell’acqua, scadenze automatiche ope legis, a scaglioni, per gli affidamenti non conformi, di cui viene stabilita la cessazione di diritto a decorrere dal 31 dicembre 2010.
Questo sistema viene legittimato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 325 del 2010, che afferma il potere dello Stato di restringere i modelli gestionali dei servizi pubblici rispetto al paradigma comunitario. La pronuncia esclude che possa spettare agli enti locali la decisione di stabilire se classificare i servizi pubblici come dotati di rilevanza economica o meno, e riafferma trattarsi di servizi di interesse generale, riallacciandosi alla nozione datane dalla Commissione europea nel Libro verde sui servizi di interesse generale del 21 maggio 2003. 
In particolare, secondo le indicazioni fornite dalla giurisprudenza comunitaria e dalla Commissione europea, per «interesse economico generale» si intende un interesse che attiene a prestazioni dirette a soddisfare i bisogni di una indifferenziata generalità di utenti e, al tempo stesso, si riferisce a prestazioni da rendere nell’esercizio di un’attività economica, cioè di una «qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato», anche potenziale (sentenza Corte di giustizia UE, 18 giugno 1998, causa C-35/96, Commissione c. Italia, e Libro verde sui servizi di interesse generale del 21 maggio 2003, 2.3, punto 44) e, quindi, secondo un metodo economico, finalizzato a raggiungere, entro un determinato lasso di tempo, quantomeno la copertura dei costi. Si tratta dunque, per la Corte, di una nozione oggettiva di interesse economico, riferita alla possibilità di immettere una specifica attività nel mercato corrispondente, reale o potenziale.
Così chiarito l’ambito concorrenziale della disciplina, e la competenza esclusiva dello Stato al riguardo, la Corte Costituzionale afferma l’adeguatezza della disciplina, anche sotto il profilo della tempistica delle scadenze imposte alle gestioni esistenti, in quanto: a) si innesta in un sistema normativo interno in cui già vige il divieto della gestione diretta mediante azienda speciale o in economia, e in cui l’affidamento in house ha natura eccezionale; b) l’ordinamento comunitario, in tema di affidamento della gestione dei servizi pubblici, costituisce solo un minimo inderogabile per i legislatori degli Stati membri e, pertanto, non osta a che la legislazione interna disciplini più rigorosamente, nel senso di favorire l’assetto concorrenziale di un mercato, le modalità di tale affidamento; c) quando non ricorrano le condizioni per l’affidamento diretto, l’ente pubblico ha comunque la facoltà di partecipare alle gare ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione del servizio.
La sentenza chiude dunque ogni spazio ad una configurazione del servizio idrico integrato, a livello regionale, diversa da quella concorrenziale e liberista varata dal legislatore nazionale.
Legislatore che, nel frattempo, ha anche provveduto ad abrogare le Autorità d’ambito di cui all’art. 148 del codice dell’ambiente, prima con la finanziaria del 2008 e poi con la L. 42 del 2010 che inserisce un art. 2, comma 186-bis, nella L. 191 del 2009. 
Anche tale previsione viene giudicata corretta a livello costituzionale dalla Consulta con la sentenza n. 128 del 2011, in cui si riconduce la scelta alle materie della tutela della concorrenza e della tutela dell’ambiente e quindi all’esclusiva competenza statale. Viene inoltre sottolineato in questa sede come la norma preveda comunque che la riattribuzione delle competenze avvenga in base a criteri di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, proprio per tener conto dei diversi enti coinvolti dalla gestione della risorsa idrica.
 
3) I referendum e la recente riforma. 
La democrazia diretta risponde però a questo quadro normativo, non condiviso, in modo assolutamente univoco e corale, con la conseguente abrogazione dell’art. 23-bis e del regolamento attuativo, sancita dal D.P.R. n. 113 del 2011.
Che cosa rimane dunque a regolare l’affidamento della gestione del S.I.I.? 
La prima risposta viene dritta dritta da una delle pronunce con cui la Corte ha dichiarato l’ammissibilità dei quesiti referendari, e precisamente dalla n. 24 del 2001: vi si legge che all’abrogazione dell’art. 23-bis, da un lato non conseguirebbe alcuna reviviscenza delle norme abrogate da tale articolo (cfr. sentenze n. 31 del 2000 e n. 40 del 1997); dall’altro, che conseguirebbe l’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria (meno restrittiva rispetto a quella oggetto di referendum) relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici di rilevanza economica. 
In esito alla consultazione referendaria, pertanto, si applica la disciplina comunitaria in materia di servizi di interesse economico generale e rivive per gli enti locali la facoltà di utilizzare proprie strutture per la gestione dei servizi pubblici locali, fermo restando il rispetto delle condizioni poste dalla giurisprudenza comunitaria in tema.
E ancora, non rivive la normativa precedente all’art. 23-bis.
Infine, restano ferme le scadenze già verificatesi degli affidamenti non conformi al previgente quadro normativo.
Non si salvano, in definitiva, gli affidamenti in house non conformi in essere alla data del 31 dicembre 2010 (su 63 affidamenti in house erano 24, in base ai dati dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici quelli non conformi al 24 marzo 2010), le società miste non conformi a quella data, gli affidamenti disposti in base a contratti scaduti, e le proroghe illegittime di contratti scaduti, conformemente all’art. 57 del codice degli appalti, come ricorda da ultimo Consiglio di Stato, con sentenza n. 2151 del 2011.
Quali gestioni preesistenti si salvano? Quelle affidate in house conformemente ai criteri delineati dalla giurisprudenza comunitaria – su cui si tornerà dopo – e gli affidamenti corretti a società miste, per le quali cade l’obbligo per le quotate di ridurre la quota pubblica entro il 31 dicembre 2015 al 30 %; cade altresì l’obbligo per le non quotate di cedere entro il 31 dicembre 2011 almeno il 40 % ai privati.
 
4) Le nuove competenze. 
Nel nuovo quadro post referendario, in cui oltretutto l’Autorità d’ambito è stata sostituita da un ente responsabile, generalmente la Provincia, a quest’ultimo spetta l’affidamento del S.I.I. al gestore, beninteso con il coinvolgimento dei Comuni dell’ambito, che rimangono corresponsabili e contitolari della risorsa, come si dirà anche in seguito.
Ai Comuni continua inoltre a spettare l’affidamento transitorio della gestione dei segmenti del S.I.I., in tutti quei casi in cui il Piano d’ambito non sia stato ancora approvato o affidato.
I modelli che i Comuni hanno a disposizione, ancora una volta, sono quelli conformi all’ordinamento comunitario, funzionali per gestire la manutenzione e il controllo dei segmenti del S.I.I. ove lo stesso non è stato ancora unitariamente affidato, come conferma Consiglio di Stato, n. 552 del 2011. 
Nelle more dell’individuazione del gestore unico del servizio idrico integrato, permane pertanto la gestione preesistente alla costituzione dell’ente d’ambito, i singoli comuni continuano ad espletare il servizio attraverso le forme di gestione preesistenti e possono appaltare all’esterno servizi già svolti da ditte esterne, come pure appaltare lavori di straordinaria manutenzione di cui le reti idrica e fognaria necessitino (Consiglio di Stato, n. 299 del 2010).
La ratio di questa perdurante, anche se interinale, competenza discende dal fatto che la previsione delle competenze in materia di servizio idrico all’ATO non spoglia i Comuni dei propri poteri di controllo sulle matrici ambientali di interesse diretto della propria popolazione, perché gli ATO sono funzionali ad una delega di esercizio del potere, la cui titolarità viene sempre mantenuta in capo ai Comuni (legittimati alla tutela e quindi alla relativa azione in giudizio, dei diritti e degli interessi che attengono all’uso delle risorse idriche). 
Infatti, l’art. 148 del D.Lgs. 152/06 che ha istituito l’Autorità d’ambito, ha attribuito a tale organismo il solo “esercizio” del servizio idrico integrato, mantenendone i costi di funzionamento integralmente, in capo ai Comuni che sono chiamati a farne parte, in quanto titolari della responsabilità sull’uso delle risorse (TAR Sicilia, n. 2241 del 2008).
Neppure l’abrogazione dell’Autorità d’ambito, va ribadito, spoglia i Comuni di detti poteri, in quanto all’ente responsabile dell’ATO è trasferito ancora l’esercizio del S.I.I. e non la sua titolarità, ciò che si evince anche dal fatto che esso è sempre vincolato dalla regola della collegialità e della sussidiarietà, come emerge anche dai primi modelli regionali (così, ad esempio, i riformati articoli 2, 48 e 49 della L.R. Lombardia n. 26 del 2003) con cui si è configurata la nuova figura dell’ente responsabile dell’ambito. 
Naturalmente il potere gestionale dei Comuni sui segmenti del S.I.I., in attesa del suo affidamento a livello d’ambito, va esercitato avendo cura di fare salve le successive determinazioni dell’ente responsabile dell’ambito, alla cui assunzione ogni diversa gestione frammentaria cade, con consegna in uso di reti e quant’altro al gestore.
Ciò è stato del resto chiarito in due distinte sedi, tanto al TAR (Lombardia, Brescia, n. 2238 del 2009) quanto al TSAP (n. 153 del 2010, questa a nostro avviso sede elettiva della materia) con pronunce che affermano come le determinazioni dell’Autorità d’ambito, secondo le regole della collegialità elaborate dalla Regione, assumano portata vincolante sull’intero territorio, talchè la singola amministrazione locale non può intraprendere percorsi autonomi e scegliere modalità di gestione diverse da quelle individuate dall’autorità.
Torniamo però per un attimo alle competenze dei Comuni ante affidamento d’ambito, ed esaminiamo quali scelte possono in concreto essere le più frequenti: la prima è senz’altro quella della proroga, che però, per essere legittima, non cozzare contro il divieto di proroghe e rinnovi, e non precludere all’affidataria la partecipazione ad altre gare, deve essere disposta con ordinanza extra ordinem, che motivi sulla necessità di non causare interruzioni ad un servizio pubblico essenziale nelle more dell’affidamento d’ambito. 
Tale soluzione ha ricevuto l’avallo della giurisprudenza, che però ha chiarito come si debba prevedere quanto meno l’adeguamento delle tariffe all’inflazione, a pena del possibile ricorso della concessionaria (cfr. TAR Veneto, n. 2906 del 2010, TAR Napoli, n. 2232 del 2011, TAR Sicilia, n. 859 del 2011).
Ed ancora, come si diceva, sarà possibile una gara dall’oggetto limitato temporalmente sino all’affidamento del S.I.I. disposto dall’ATO.
Infine si discute se sia ancora possibile ipotizzare una gestione in economia o con altre forme; per la prima, parrebbe di sì, per le altre, ad esempio l’azienda speciale, vi sono invece dubbi legati alla consolidata modifica del 113 e del 133-bis del T.U.E.L.
 
5) I criteri attuali per l’affidamento in house.
Per gli ATO che debbano ancora affidare il S.I.I., a questo punto ritornano attuali i criteri stabiliti per l’affidamento in house da quegli orientamenti giurisprudenziali comunitari e nazionali oramai consolidati, che pare opportuno ripercorrere nei tratti fondamentali.
Il primo criterio è quello della partecipazione pubblica totalitaria della stazione appaltante al capitale della società affidataria (C-26/03, Stadt Halle; C-295/05, Transformación Agraria SA (Tragsa); Cons. St., Sez. V, n. 7345/2005); condizione necessaria, ma non sufficiente (cfr., ex multis, Causa C-340/04, Carbotermo; Cons. St., Ad. Plen., n. 1/2008; Cons. St., Sez. VI, nn. 2932/2007 e 1514/2007).
Il secondo criterio è quello del c.d. controllo analogo: la società aggiudicataria deve essere soggetta ad un controllo analogo a quello che quest’ultima esercita sui propri servizi, per influenzare in modo determinante le decisioni concernenti sia gli obiettivi strategici sia le decisioni importanti della stessa società affidataria (cfr. Causa C-458/03, Parking Brixen e Causa C-371/05; Cons. St., Sez. V, n. 5/2007; Deliberazioni AVCP n. 12/2011 e nn. 46 e 54 del 2010; Corte Conti Lazio n. 327/11). 
Il terzo criterio è quello dell’esclusione di vocazione commerciale: l’impresa non deve aver “acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo” da parte dell’ente pubblico, come invece si avrebbe nei casi, di ampliamento dell’oggetto sociale, o di espansione territoriale dell’attività della società (cfr. ex multis: C-458/03, Parking Brixen GmbH e C-29/04, Mödling o Commissione c/ Austria). A tal riguardo devono essere considerati, in particolare, l’ambito di riferimento materiale e geografico delle attività della società in house e le sue opportunità di stabilire relazioni con imprese private (AVCP 6/7/11).
E ancora, altro criterio è quello della prevalenza dell’attività con l’ente o con gli enti pubblici che controllano l’affidataria; quest’ultima infatti è istituzionalmente destinata in modo assorbente a operazioni a favore dell’ente concedente (TAR Campania, Sez. I, 30/3/2005, n. 2784; C-26/03, Stadt Halle). Per stabilire quando si realizzi tale prevalenza, si può fare ricorso analogico alle disposizioni comunitarie (art. 23 della direttiva 2004/17/CE) e di diritto interno derivato (art. 8, D.Lgs. n. 158/1995, di recepimento dell’art. 13 della precedente direttiva 93/38/CEE), che nei settori c.d. esclusi o speciali consentono alle amministrazioni aggiudicatrici di affidare direttamente appalti a imprese collegate a condizione che almeno l’80% del fatturato di dette imprese provenga da servizi, prodotti o forniture alle amministrazioni a cui sono collegate.
Infine vengono i criteri quali-quantitativi: quello del fatturato determinante, rappresentato da quello che l’impresa in questione realizza in virtù di decisioni di affidamento adottate dall’ente locale controllante. Non sono peraltro ammesse rigide predeterminazioni connesse all’indicazione della misura percentuale di fatturato rilevante; e ancora, a detti criteri appartengono tanto la valutazione delle risorse economiche impiegate, quanto quegli aspetti di natura qualitativa idonei a fare desumere, ad esempio, la propensione dell’impresa ad effettuare determinati investimenti di risorse economiche in altri mercati – anche non contigui – in vista di una eventuale espansione in settori diversi da quelli rilevanti per l’ente pubblico conferente (C. Cost. n. 439/08).
Da ultimo, ruolo cruciale assume la struttura organizzativa dell’affidataria, che deve consentire all’ente pubblico di esercitare la più totale ingerenza e controllo sulla sua gestione nonché sull’andamento economico-finanziario e gestionale, in considerazione della composizione e nomina degli organi sociali.
Ciò si realizza, ad esempio, nei casi in cui sia prevista un’assemblea – cui spetta il potere di approvare il bilancio e la nota integrativa, di decidere sulla destinazione degli utili sociali nonché sullo scioglimento e sulla liquidazione della società – costituita dalla universalità dei soci, in modo che l’ente può controllare interamente la gestione societaria; un consiglio di amministrazione in cui spetta all’ente la nomina del Presidente (che ha la rappresentanza della società ed il potere di presiedere l’assemblea dei soci) nonché di uno o due componenti (qualora l’organo sia costituito da tre o cinque membri), garantendogli così la maggioranza; un collegio sindacale in cui lo statuto riserva al Comune la nomina di due componenti effettivi su tre, oltre di un membro supplente.
 
6) I limiti posti dalla nuova riforma anche al S.I.I.
L’effetto abrogativo del referendum sull’art. 23-bis ha avuto un impatto però non solo sul S.I.I.; ma su tutti i servizi pubblici locali, ragion per cui si è reso necessario procedere all’introduzione di una nuova disciplina sostitutiva delle disposizioni caducate; naturalmente eccezion fatta per il S.I.I. 
A ciò ha provveduto il D.L. 138/11, convertito in L. 148 del 2011, all’art. 4, che in una molteplicità di commi configura nuovamente il sistema di gestione dei servizi pubblici locali, aprendo un limitatissimo spazio all’affidamento in house, pur mantenendo un favor generale per la gara.
Tali disposizioni non si applicano al S.I.I., nel rispetto del contenuto dei quesiti referendari, ad eccezione dei commi da 19 a 27, che dettano – anche per il settore in esame – una serie di rigide incompatibilità per amministratori, dirigenti, responsabili degli uffici o dei servizi, consulenti dell’ente locale, e loro parenti, estesa al triennio, come pure incompatibilità ed esclusioni per i componenti della commissione di gara per l’affidamento della gestione di servizi pubblici locali. Sono disposizioni quanto mai opportune poiché volte ad evitare opportunamente, specie nel caso di affidamento in house, commistioni e prese di interesse che non rispondano ad esigenze statutarie.
Occorre infine tenere presente che dovrà essere fatta particolare attenzione, nella costituzione di società pubbliche destinatarie dell’affidamento in house del S.I.I., ovvero nell’utilizzo di altri soggetti pubblici già esistenti, ai limiti previsti dal c.d. decreto Bersani che è stato stabilito, dalla recente Adunanza Plenaria n. 17 del 2011, applicarsi anche alle società di terzo grado, controllate da società strumentali e costituite con capitale di queste ultime per la partecipazione a gare ad evidenza pubblica altrimenti precluse alla controllata in quanto dotata di una posizione di vantaggio sul mercato.
 
* Avvocato in Bergamo
 

D.i.a., s.c.i.a. e tutela del terzo: dopo l’Adunanza Plenaria interviene nel dibattito il legislatore con il decreto legge 13 agosto 2011, n. 138.

 

D.i.a., s.c.i.a. e tutela del terzo: dopo l’Adunanza Plenaria interviene nel dibattito il legislatore con il decreto legge 13 agosto 2011, n. 138.

 

RUGGERO TUMBIOLO*

 

Il 29 luglio 2011 l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la decisione n. 15 (in questa Rivista, nella Sezione Giurisprudenza), ha risolto finalmente il dibattito giurisprudenziale sulla natura della d.i.a. (oggi s.c.i.a.) e sulle conseguenti tecniche di tutela azionabili dal terzo leso.

L’Adunanza Plenaria ha qualificato il silenzio serbato dalla pubblica amministrazione nel termine perentorio previsto dalla legge per l’esercizio del potere inibitorio alla stregua di un atto tacito di diniego del provvedimento restrittivo; trattasi quindi, secondo la ricostruzione operata dai giudici di Palazzo Spada, di un provvedimento per silentium con cui la p.a., esercitando in senso negativo il potere inibitorio, riscontra che l’attività è stata dichiarata in presenza dei presupposti di legge e, di conseguenza, decide di non impedirne l’inizio o la protrazione.

Detto silenzio significativo si distingue dal silenzio-rifiuto (o inadempimento) in quanto quest’ultimo integra una mera inerzia improduttiva di effetti costitutivi e non conclude il procedimento.

La configurazione del silenzio in esame alla stregua di silenzio significativo onera, di conseguenza, il terzo portatore dell’interesse leso ad impugnare il provvedimento per silentium nell’ordinario termine decadenziale, nel rispetto dei principi di certezza dei rapporti giuridici e di tutela dell’affidamento; a completamento ed integrazione dell’azione di annullamento del silenzio significativo negativo è consentita anche l’azione di condanna pubblicistica (c.d. azione di adempimento) tesa ad ottenere una pronuncia che imponga all’amministrazione, sulla scorta dell’accertamento dell’esistenza dei presupposti per l’esercizio del doveroso potere inibitorio, l’adozione del negato provvedimento restrittivo, ove tuttavia non vi siano spazi per la regolarizzazione della denuncia, ai sensi del comma 3 dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990.
 

Rimane, poi, salva la possibilità per il terzo di agire in giudizio nell’arco di tempo anteriore al decorso del termine perentorio per l’esercizio del potere inibitorio, mediante un’azione di accertamento tesa ad ottenere una pronuncia che verifichi l’insussistenza dei presupposti di legge per l’esercizio dell’attività oggetto della denuncia; in questo caso, in pendenza del termine di conclusione del procedimento amministrativo potranno adottarsi misure cautelari, ma non una pronuncia di merito, che potrà intervenire solo dopo la scadenza del termine predetto, in ossequio al disposto dell’art. 34, comma 2, del codice, che fa divieto al giudice amministrativo di pronunciare su poteri ancora non ancora esercitati.
 

La lucida e coerente ricostruzione dell’istituto della d.i.a. (oggi s.c.i.a.) operata dal massimo Organo della giustizia amministrativa corre, tuttavia, il rischio di avere vita breve.

Il recente decreto legge n. 138 emanato il 13 agosto 2011 e convertito dalla legge 14 settembre 2011, n. 148 reca, tra le numerose disposizioni finalizzate alla stabilizzazione finanziaria, al contenimento della spesa pubblica, a favorire lo sviluppo e la competitività del Paese ed il sostegno dell’occupazione, anche una modifica all’art. 19 della legge n. 241 del 1990.
 

L’art. 6 di detto decreto legge n. 138 del 2011, nel testo modificato dalla legge di conversione, introduce, infatti, il comma 6 ter all’art. 19 della legge 241 del 1990, avente il seguente tenore letterale: «6-ter. La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104».
 

Mentre sulla non equiparabilità della d.i.a. e della s.c.i.a. ad atti amministrativi impliciti si può convenire, il rinvio (addirittura «esclusivamente») all’azione sul silenzio inadempimento di cui all’art. 31 c.p.a. rischia di portare nuove nubi (appena dissipate dall’Adunanza Plenaria) sulla natura sostanziale dell’istituto ed alle conseguenti azioni esperibili dal terzo controinteressato all’esercizio dell’attività denunciata/segnalata; specie ora che lo stesso legislatore, con l’art. 5, comma 2, lettere c) e b), del decreto legge 13 maggio 2011, n. 70, convertito dalla legge 12 luglio 2011, n. 106, ha chiarito che le disposizioni di cui all’art. 19 della legge n. 241 del 1990 si interpretano nel senso che le stesse si applicano anche alle denunce di inizio attività in materia edilizia disciplinate dal d.P.R. n. 380 del 2001, con esclusione dei casi in cui le denunce stesse siano alternative o sostitutive del permesso di costruire, ed ha contestualmente ridotto a trenta giorni il termine di cui al primo periodo del comma 3 dello stesso art. 19 per l’esercizio del potere inibitorio nei casi di s.c.i.a. in materia edilizia (introducendo all’uopo il comma 6 bis).
 

In disparte la circostanza che l’imposizione dell’onere, prima di agire in giudizio, di presentare apposita istanza sollecitatoria alla p.a. comporta una ingiustificata procrastinazione del momento dell’accesso alla tutela giurisdizionale, va messo in risalto che l’azione di accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere prevista dall’art. 31 c.p.a. postula, da una parte, il decorso del termine per la conclusione del procedimento e, dall’altra, la sopravvivenza del potere al decorso del suddetto termine.
 

Ora, se prima del decorso del termine fissato dalla legge non appare ipotizzabile alcuna inerzia rispetto alla quale esperire l’azione di cui all’art. 31 c.p.a., nella architettura normativa del rinnovato art. 19 della legge n. 241 del 1990 lo spirare del termine perentorio di legge concesso alla p.a. dalla legge per adottare i provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività implica la consumazione del potere inibitorio di carattere generale.
 

Trascorso il suddetto termine – fatta salva l’ipotesi di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà (che concernono stati, qualità personali e fatti) false o mendaci, in presenza delle quali il summenzionato limite temporale non opera (ultimo periodo del terzo comma dell’art. 19) – all’amministrazione è consentito intervenire solo in presenza del pericolo di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo motivato accertamento dell’impossibilità di tutelare comunque tali interessi mediante conformazione dell’attività dei privati alla normativa vigente (comma 4 dell’art. 19).
 

Non è chiaro se tale potere configuri o meno una specificazione dei limiti del potere generale di autotutela richiamato nel secondo comma della stessa norma, là dove viene fatto comunque salvo il potere dell’amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21 quinquies e 21 nonies della legge n. 241 del 1990.

In ogni caso, il potere inibitorio di carattere generale, avente natura vincolata e rivolto ad accertare la sussistenza dei requisiti e dei presupposti di legge per l’avvio dell’attività segnalata, con il decorso del termine lascia il posto ad un diverso potere di intervento, il cui esercizio è condizionato dalla presenza di un possibile pregiudizio al patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale o comunque assoggettato ai limiti propri del potere di autotutela.
 

A complicare il quadro normativo, già di per sé poco chiaro, vi è il secondo comma dell’art. 21 della stessa legge n. 241 del 1990, a mente del quale le sanzioni attualmente previste in caso di svolgimento dell’attività in carenza dell’atto di assenso dell’amministrazione o in difformità di esso si applicano anche nei riguardi di coloro i quali diano inizio all’attività ai sensi degli articoli 19 e 20 in mancanza dei requisiti richiesti o, comunque, in contrasto con la normativa vigente.

Tuttavia, quest’ultima disposizione, che probabilmente necessitava di un coordinamento con la novella che ha interessato l’art. 19, sembra richiamare il potere di natura sanzionatoria previsto dalla legislazione di settore, che non necessariamente prevede sanzioni di carattere inibitorio/ripristinatorio (si pensi, ad esempio, all’art. 37 del d.P.R. n. 380 del 2001 per gli interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla d.i.a. ed oggi applicabile alla s.c.i.a., come si desume anche dal comma 6 bis dello stesso art. 19).
 

Si deve, quindi, concludere che l’azione avverso il silenzio-rifiuto maturato dopo il decorso del termine fissato dai commi 3 e 6 bis dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990 abbia ad oggetto l’esercizio di un potere diverso da quello inibitorio previsto in via generale dalla legge, il cui esercizio risulta condizionato dalla presenza di particolari interessi pubblici ovvero è assoggettato ai limiti propri del potere di autotutela ovvero ancora non assicura l’adozione di misure ripristinatorie, il che implica una evidente ed incisiva limitazione dell’effettività della tutela giurisdizionale, intesa come idoneità del processo ad assicurare il soddisfacimento dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio, affermata dagli articoli 24, 103 e 113 della Carta Costituzionale e richiamata nell’art. 1 del codice del processo amministrativo1 .

* Avvocato in Como

1 Per un approfondimento dell’istituto della d.i.a. e della s.c.i.a. si rinvia, da ultimo, a M. A. Sandulli, Dalla d.i.a. alla s.c.i.a.: una liberalizzazione «a rischio», in Rivista Giuridica dell’Edilizia, 6, 2010, 465, anche per ulteriori richiami bibliografici.

La VAS italiana: storia in itinere di un istituto maltrattato (con auspicio di lieto fine)

La VAS italiana: storia in itinere di un istituto maltrattato (con auspicio di lieto fine).
 
ELENA TANZARELLA*

Il legislatore italiano, si sa, ha introdotto nell’ordinamento interno una versione depotenziata dell’istituto della valutazione ambientale strategica.

Concepito come strumento idoneo ad informare la pianificazione ai principi dello sviluppo sostenibile (ed in ciò segnatamente distinguendosi dalla valutazione di impatto ambientale), la sua potenzialità innovativa è frustrata da alcune scelte legislative di non amplissimo respiro e da interventi giurisprudenziali che solo recentemente paiono recuperare l’impostazione comunitaria.

È innanzitutto il modello procedimentale eletto dal legislatore a creare più un aggravio procedimentale che un beneficio per le Amministrazioni ed i soggetti a vario titolo coinvolti, nonché, ovviamente, per il territorio destinatario della pianificazione.

A fronte della possibilità lasciata aperta dalla direttiva comunitaria di optare per una VAS parte del procedimento pianificatorio e una VAS quale procedimento a latere, il nostro sistema ha optato per un modello misto, a più voci criticato in dottrina e che non pochi problemi ha già destato sul piano applicativo, in cui la VAS costituisce una fase endoprocedimentale, ma nel quale autorità procedente (alla pianificazione) e autorità competente (all’effettuazione della valutazione ambientale) sono distinte, ciò in ragione, come ad avviso di chi scrive correttamente ritenuto da altra Autrice, “di un sistema legislativo caratterizzato da diffidenza verso la capacità della P.A. di curare essa stessa il perseguimento dell’interesse pubblico, e in specie quello della tutela ambientale, all’interno dei vari percorsi di pianificazione, quasi che un’Amministrazione fosse il nume tutelare degli interessi privati sottesi alle varie pianificazioni (cavatori, cacciatori, costruttori) e non un soggetto pubblico guidato dalla legge” (P. Brambilla, Valutazione ambientale strategica, in www.greenlex.it, ottobre 2010).

A tutti è nota la vicenda che ne è conseguita in Lombardia, ove il TAR ebbe ad annullare le linee guida regionali, emanate in applicazione della legge urbanistica lombarda (LR 12/05) perché non in linea con la legislazione interna laddove riunivano in capo ad un’unica autorità la competenza alla VAS ed all’approvazione del piano urbanistico, ancorché, è da dirsi, non in contrasto con la normativa comunitaria che, come sopra richiamato, non impone questa divisione interna.
 

È tuttavia da evidenziarsi che in quest’ottica di maggior aderenza al principio comunitario e di riconoscimento della possibilità di coincidenza dell’amministrazione procedente con quella competente si sta muovendo la più recente giurisprudenza: Cons. Stato, Sez. IV, 12 gennaio 2011, n. 133 e TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, 5 settembre 2011, n. 35 nella cui parte motiva è rigettata la censura di illegittimità della procedura di VAS con riferimento alla violazione di legge nella parte in cui prevede la separazione di competenze, con la seguente motivazione: “deve rivelarsi che il principio di sussidiarietà (tra Stato e livelli inferiori) opera anche nei rapporti tra Regioni ed Enti locali e che nella specie <l’autorità procedente> e <l’autorità competente> andavano perfettamente a coincidere nello stesso Ente, cioè nel Comune di Lanciano, in quanto la LR Abruzzo n. 11 del 1999, snellendo le procedure di approvazione dei piani comunali, ha conferito ai Comuni, con rinvio di indubbia natura dinamica, attribuzioni riferite anche alla procedura di Valutazione Ambientale Strategica secondo quanto previsto dall’art. 11 del d.lgs. 152/06; con la conseguenza che il trasferimento delle competenze in ordine al procedimento di approvazione del piano implica necessariamente il trasferimento delle competenze della procedura VAS”.

Altro profilo di criticità della legislazione vigente è certamente quello della partecipazione, giacché il legislatore si è ancorato a schemi tradizionali (segnatamente le osservazioni) non cogliendo spunti, anche dalle legislazioni di altri Stati membri, per introdurre meccanismi partecipativi più affini allo scopo di pianificazione sostenibile cui la valutazione ambientale mira. Tra essi, ad esempio, i sondaggi o i dibattiti pubblici che è erroneo vedere come inutili meccanismi di aggravio procedimentale, essendo essi invece e piuttosto indispensabili strumenti di vera conoscenza del territorio, tanto più necessari ove si abbia a mente che la VAS, a differenza della VIA, riferita ad un’opera puntuale ed all’impatto di questa sull’ambiente, ha una funzione, come è nel suo nome, strategica, e ne è previsto il monitoraggio, vale a dire la verifica di ritorno, nel lungo periodo, della correttezza delle soluzioni approvate.
 

Tanto più accurata la partecipazione, tanto maggiori le possibilità di definizione di una strategia pianificatoria coerente con le esigenze locali.

Si innesta qui, infine, la questione della definizione di pianificazione ai fini della applicazione della VIA.
 

Nella pratica, avvallata dalla giurisprudenza, si sono invero verificati diversi casi di pianificazione di dettaglio in assenza di VAS.
 

Complice il terzo correttivo, tuttavia, la giurisprudenza sta man mano procedendo verso il riconoscimento della necessità di espletamento della procedura, anche solo nella forma della verifica di assoggettabilità, per le pianificazioni nei loro vari moduli di ampiezza; si richiamano sul punto, in particolare e tra le più recenti, TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 1° settembre 2011, n. 2152 e Cons. Stato, Sez. VI, 20 maggio 2011, n. 2755.

* Avvocato in Milano

Riferimenti e bibliografia.

Relazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni sull’applicazione e l’efficacia della direttiva sulla valutazione ambientale strategica (direttiva 2001/42/CE), in http://eur-lex.europa.eu/

L. Tabellini, La direttiva 2001/42/CE (direttiva VAS) Opportunità e problemi aperti nell’applicazione a livello comunitario, in Riv. Giur. Amb., 2005, 684.

E. Boscolo, La valutazione ambientale strategica di piani e programmi, in Riv. Giur. Ed., 2008, 3.

P. Brambilla, VAS e competenze, in www.greenlex.it, agosto 2010, e Nota a Consiglio di Stato 2755/2011, in www.greenlex.it, giugno 2011.
 

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