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Seminario nazionale: L’onda grigia del cemento tra malaffare e consumo del suolo – Calalzo di Cadore, 13 settembre 2012

Seminario nazionale

L’onda grigia del cemento tra malaffare e consumo del suolo

Calalzo di Cadore, 13 settembre 2012

L’URBANISTICA E LE REGOLE

MATTEO CERUTI*

1.- Introduzione.
Secondo il recente rapporto dell’ISTAT presentato a luglio di quest’anno dal Ministero per le politiche agricole e forestali dal titolo “Costruire il futuro: difendere l’agricoltura dalla cementificazione” che fa il punto sulla drammatica situazione del territorio italiano, dagli anni ’70 del secolo scorso al 2010 l’Italia ha perso ben il 28% della sua superficie agricola (Superficie Agricola Utilizzata – SAU), qualcosa come 5 milioni di ettari, pari a Liguria, Lombardia ed Emilia Romagna messe insieme.
Tale processo ha ovviamente delle cause strutturali, economiche e giuridiche.
Sul piano economico-finanziario non v’è dubbio che abbia inciso, soprattutto nell’ultimo decennio, la cronica sofferenza delle finanze pubbliche dei Comuni, aggravata dall’attuale crisi economica, che pone le amministrazioni locali in una situazione di estrema fragilità.
Di qui la tentazione degli enti locali a dilatare il rilascio dei permessi di costruire quale occasione di preziosi introiti per le casse comunali.
Si aggiunga che il vincolo di destinazione (alle opere di urbanizzazione primaria e secondaria) che originariamente avevano le somme riscosse dai Comuni per il rilascio dei permessi di costruire è venuto meno un decennio fa, in occasione dell’approvazione del TU dell’edilizia con il DPR 380/2001 (che ha abrogato l’articolo 12 della legge n. 10/1977)1.
Di qui l’utilizzo da parte comunale dei vecchi “oneri di urbanizzazione” anche per le spese correnti.

2.- L’elusione urbanistico – edilizia.
L’illegalità nel settore edilizio, soprattutto quando assume rilevanti dimensioni, tra queste le cd. “lottizzazioni abusive” (art. 30 del TU dell’edilizia)2, è spesso il frutto di operazioni amministrative complesse che, per essere scoperte, spesso necessitano di approfondimenti giuridico – amministrativi ed urbanistici specialistici.
Sempre più si tratta di “illeciti ambientali e urbanistici in bianco”, come qualcuno li ha chiamati3, ossia di interventi che vengono realizzati con permessi di costruire rilasciati, talvolta con piani di lottizzazione o piani urbanistici attuativi approvati, magari anche avallati da previsioni urbanistiche inserite nella pianificazione comunale generale.
Non per questo però si tratta di operazioni lecite.
La casistica è assai varia, ma diciamo che le problematiche più ricorrenti riguardano il rilascio di titoli edilizi ed anche l’approvazione di strumenti urbanistici locali in contrasto con situazioni di vincolo paesistico od ambientale, ovvero non conformi alle previsioni della pianificazione territoriale e paesistica sovraordinata.
Questi fenomeni di “elusione” urbanistico – edilizia sono sindacati solo occasionalmente da parte del Giudice amministrativo, cioè soltanto laddove venga  proposto un ricorso al Tar competente da parte di un soggetto “legittimato” (e spesso il G.A. ritiene che le associazioni di protezione ambientale non siano legittimate a proporre ricorsi in materia urbanistica laddove non vi siano interessi ambientali particolari da tutelare).
Mentre il Giudice penale risulta tradizionalmente restio ad operare controlli sugli atti amministrativi, se non nei casi di illegittimità amministrativa più eclatanti (anche se una parte della giurisprudenza a partire da sentenza della Cass. S.U. del 2002 conferma l’esistenza di un ampio sindacato del Giudice penale sugli atti amministrativi per verificare la legalità urbanistico – edilizia degli intereventi)4.

3.- Regole buone applicate male: il caso della SAU nella Regione Veneto.

Le leggi urbanistiche regionali di ultima generazione recano disposizioni volte al massimo contenimento del consumo di suolo, al termine di analisi articolate che confermano gli elevati e non più perseguibili livelli di cementificazione del territorio.
Così l’art. 2 della legge regionale urbanistica del Veneto n. 11/2004 reca il principio per cui il consumo di suolo dovrebbe costituire una sorta di extrema ratio statuendo che il piano urbanistico strategico di durata decennale, denominato “piano di assetto del territorio” (in acronimo: PAT) deve essere redatto nel rispetto della regola generale per cui l’utilizzo di nuove risorse territoriali può essere prevista “solo quando non esistano alternative”.
In asserita attuazione di questo ragionevole principio la stessa LR Veneto 11/2004, nel prevedere i contenuti del PAT (all’art. 13), stabilisce che quest’ultimo deve determinare “il limite quantitativo massimo della zona agricola trasformabile in zone con destinazione diversa da quella agricola” da fissare avendo riguardo al rapporto tra superficie agricola utilizzata (SAU) e la superficie territoriale comunale (STC). Per cui, in sostanza più un Comune è stato virtuoso più gli è data la possibilità di consumare il proprio territorio agricolo nel prossimo decennio; il tutto secondo le modalità indicate in un provvedimento di indirizzo della Giunta regionale.
Già una disposizione di questo tipo che stabilisce una potenziale trasformazione delle aree agricole a prescindere dal reale fabbisogno di edificabilità suscita non lievi perplessità.
Ma soprattutto è l’attuazione amministrativa di questi principi lascia molto a desiderare.
Senza entrare in dettagli tecnici -che meriterebbero altri tempi di approfondimento- basti dire che le modalità di determinazione del limite massimo di superficie agricola trasformabile (a partire dal sistema di calcolo della SAU), stabilite dalla Giunta regionale5, sono tali da dar luogo ad un fenomeno di “eterogenesi dei fini”.
Per cui, in applicazioni di tali disposizioni, uno dei Comuni veneti urbanisticamente più martoriati e fragili per la presenza di un numero di attività estrattive paragonabile in Italia solo alla Provincia di Caserta (sto parlando del Comune di Paese di Treviso) viene premiato come un Comune “virtuoso” con la fissazione di un limite di zona agricola trasformabile altissimo.

4.- Le regole derogate.
E’ noto che il nostro è un Paese di grandi legislatori, ma è anche delle proroghe e delle deroghe alle leggi. 
Uno dei settori di elezione delle deroghe alle regole è proprio quello urbanistico edilizio.
I tempi di questa comunicazione consentono solo una rapida elencazione dell’ampio armamentario derogatorio della legalità urbanistica che è stato concepito ed utilizzato in Italia.
V’è ovviamente la triste vicenda dei periodici e ricorrenti condoni edilizi a partire dal 1985, in occasione di ogni -grande o piccola- riforma urbanistica.
C’è poi il capitolo, altrettanto triste, dell’applicazione della normativa di protezione civile con le dichiarazioni di stato di emergenza o di “grande evento” che ha consentito di derogare a tutta la normativa vigente, ivi compresa quella urbanistico – edilizia: il tutto con un’applicazione “fantasiosa” (per usare un eufemismo) di leggi emergenziali concepite a tutt’altri fini, a lungo tollerata a tutti i livelli politici, amministrativi e giudiziari (anche da parte di soggetti che ora gridano alla scandalo), salvo qualche lodevole eccezione, e che ora è stata finalmente ridimensionata (con opportuni ancorché tardivi) interventi normativi, dopo le note vicende.
In un quadro emergenziale connesso alla congiuntura economica, si inquadra anche la vicenda dei “piani casa” che, come è stato espressamente riconosciuto (nello stesso volume di commentario della LR 14/2009 a cura del dirigente dell’Urbanistica della Regione Veneto), costituisce “l’antitesi della pianificazione”.
C’è poi il grande tema delle cd. “varianti automatiche” ai piani regolatori conseguenti all’approvazione di opere pubbliche. Anche questa sarebbe una tematica da rivedere se non si vuole che si continuino a progettare e ad approvare nuove infrastrutture stradali e ferroviarie in funzione dei cambi dei destinazione urbanistica delle aree contermini, più che dell’effettiva funzionalità del sistema trasportistico.
Infine v’è da ricordare che nell’ultimo quinquennio sono stati approvati strumenti derogatori della pianificazione urbanistica generale che, magari concepiti con nobili propositi, come il recupero delle aree urbane degradate, hanno trovato un’applicazione pratica assolutamente criticabile.
Così ad esempio è avvenuto nel Veneto con i cd. “PIRUEA”-i programmi di riqualificazione urbanistica e ambientale di cui alla LR 23/1999 che (fino alla sua abrogazione) che hanno ricevuto un’ampia applicazione6, anche a fattispecie in cui non v’erano proprio aree degradate da riqualificare, con la chiara finalità di pervenire ad un rapido cambio di destinazione urbanistica attribuendo edificabilità ad aree non edificate e non edificabili.

5.- Le regole sostituite dagli accordi.
Il tema della cd. “urbanistica contrattata” è forse quello che va più di moda nelle riviste giuridiche.
Il tema degli accordi tra soggetti pubblici, in primis Comuni, e soggetti privati finalizzati a concordare i contenuti discrezionali degli strumenti di pianificazione urbanistica è tuttavia una tematica delicatissima che va maneggiata con estrema cautela.
Vi sono Regioni che hanno disciplinato la materia: così in particolare le Regione Veneto (art. 6 della LR 11/2004), Emilia Romagna (art. 18 della LR 20/2000) e Umbria (art. 12 LR 11/2005).
Non è certo il caso di demonizzare lo strumento degli accordi urbanistici tra il Comune e i privati.
E tuttavia bisogna alzare la guardia per scongiurare applicazioni disinvolte di questi delicati strumenti che sono e debbono rimanere eccezionali, il cui utilizzo deve essere sempre giustificato dal perseguimento di rilevanti interessi pubblici della comunità locale non raggiungibili con gli strumenti di pianificazione ordinari7.
Certamente gli accordi urbanistici non possono esser utilizzati con una finalità economico-finanziaria, come purtroppo si ha talvolta occasione di sperimentare: ricordo un caso recente (relativo ad un Comune emiliano) in cui un accordo urbanistico è stato utilizzato per consentire ad una società privata di ottenere una variazione di destinazione urbanistica di un’area del territorio comunale da agricola a produttiva in cambio di danaro incamerato dal Comune per ripianare il bilancio onde scongiurare le nefande conseguenze del superamento del  famigerato “patto di stabilità”8.
Il rischio che si affaccia all’orizzonte in questi casi è quello che in termini amministrativistici si chiama “sviamento dalla causa tipica”.

6.- Cenni conclusivi.
Quello della trasformabilità delle aree agricole in zona edificabile, ovvero del consumo di suolo agricolo, costituisce uno dei parametri fondamentali, per non dire il principale, che dovrebbero essere oggetto di esame e valutazione nella procedura di V.A.S. – valutazione ambientale strategica , cui sono assoggettati i piani urbanistici comunali9. Procedura quest’ultima che –come è noto- è disciplinata dagli artt. 11 ss. del d.lgs. 152/2006, in recepimento della direttiva comunitaria 2001/42/CE.
Ora costituisce un eufemismo affermare che sinora nel nostro Paese la procedura di VAS sui piani urbanistici viene applicata in modo burocratico.
Inoltre si consideri che in più di una delle Regioni italiane la legislazione non garantisce effettive garanzie di indipendenza funzionale ed organizzativa dell’autorità competente ad esprimersi sulla VAS dall’autorità che elabora e approva i piani (problemi vi sono nel Veneto, in Friuli Venezia Giulia e Lombardia), come ormai chiarito dalla Corte di Giustizia10.
Infine una nota di speranza.
A luglio di quest’anno il Ministro delle politiche agricole e forestali ha presentato una bozza di “Disegno di legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo di suolo” che lascia più di qualche speranza in quanto contiene disposizioni assolutamente condivisibili negli obiettivi, ancorché talvolta bisognevoli di un restyling nella loro formulazione testuale.
Il disegno di legge prevede, tra l’altro: la determinazione dell’estensione massima di superficie agricola edificabile sul territorio nazionale (art. 2), il congelamento della destinazione d’uso per 10 anni per tutti i terreni agricoli in favore dei quali sono stati erogati aiuti di Stato o aiuti comunitari (art. 3) misure di incentivazione economica ad enti locali e Comuni per la conservazione del territorio ed il recupero di edifici nei nuclei abitati rurali (art. 4), ed infine l’abrogazione della norma che aveva eliminato il vincolo di destinazione agli oneri di urbanizzazione rendendoli utilizzabili anche per la spesa corrente (art. 6).
Attendiamo ora che questo DDL venga rapidamente licenziato dal Consiglio dei ministri (come il Ministro delle politiche agricole ha anche recentemente promesso) e quindi portato alle Camere per una rapida approvazione.
Altrettanto auspicabile a livello europeo è che venga finalmente riavviata la procedura relativa all’approvazione della proposta di “Direttiva quadro per la protezione del suolo”, tutt’oggi bloccata in Consiglio dell’UE per la mancanza di una maggioranza qualificata nonostante il sostegno di 22 Stati membri.

* Avvocato in Rovigo

1  Sul tema vds. tra gli altri S. SETTIS, Paesaggio, costituzione, cemento, Milano 2010, 16 ss.
2  Sull’argomento vds. ad es. L. RAMACCI, I reati edilizi, Milano 2010, 171 ss.
3  M. SANTOLOCI, V. STEFUTTI, Guida pratica contro gli illeciti ambientali in bianco, Piacenza 2008.
4  Si tratta della sentenza della Cass. S.U., 8 febbraio 2001, n. 5115 che, discostandosi da un precedente orientamento, ha riconosciuto il reato di lottizzazione abusiva anche in presenza di un’autorizzazione a lottizzare illegittima.
5 Si tratta della delibera Giunta regionale veneta (DGR) n. 3178/2004, modificata dalla successiva DGR 3650/2008.
6  La piccola città di Rovigo (dove abito ed opero) ha approvato ben 17 PIRUEA.
7  Vds. sul tema ad es. G. PAGLIARI, La contractualisation dans le droit de l’urbanisme. La situation italienne, in Riv. giur. edilizia n. 1/2012, , II, 33 ss.
8  Come  chiaramente ed esplicitamente esposto  a verbale della seduta consiliare dagli stessi esponenti della Giunta comunale e della maggioranza consiliare che hanno sostenuto ed approvato la delibera di approvazione dell’accordo, intervenuti nella discussione con toni gravemente preoccupati in ordine alle conseguenze per l’ente e la comunità locale del mancato rispetto del patto di stabilità finanziaria, scongiurate dell’entrata di bilancio conseguente alla conclusione dell’accordo.
9  Vds. in dottrina ad es. E. BOSCOLO, La VAS nel piano e la VAS del piano: modelli alternativi di fronte al giudice amministrativo, Urbanistica e appalti n. 9/2010, spec. 1114.
10  Si tratta della  Corte di Giustizia sentenza 20 ottobre 2011 emessa nel procedimento C 474/10, in Riv. giur. ambiente n. 2/2012, con nota di M. CERUTI, La fase della consultazione nella valutazione ambientale strategica di piani e programmi: la Corte di Giustizia detta agli Stati membri le regole per la designazione dell’autorità competente (interna o esterna all’ente pianificatore?) e dei termini congrui per l’espressione del parere.

 

La “normale pratica industriale” nell’interpretazione della Cassazione: chiarezza non ancora fatta.

 

Corte di Cassazione, sez. III penale, sentenza n. 17435 depositata il 10 maggio 2012.

Rifiuti – Sottoprodotti – Art.184 bis del D.Lgs. 152/2006 – Trattamenti rientranti nella normale pratica industriale – Interventi manipolativi del residuo – Esclusione.

L’art. 184 bis del D Lgs. n. 152/06 non consente di ricomprendere tra i trattamenti che rientrano nella normale pratica industriale gli interventi manipolativi del residuo diversi da quelli ordinariamente effettuati nel processo produttivo nel quale esso viene utilizzato.

 

LA “NORMALE PRATICA INDUSTRIALE” NELL’INTERPRETAZIONE DELLA CASSAZIONE: CHIAREZZA NON ANCORA FATTA.


Giulia Gavagnin*

E’ stata accolta tiepidamente1  la sentenza n. 17435 depositata il 10 maggio 2012 con la quale la terza sezione della Cassazione Penale ha delineato i confini della nozione di “sottoprodotto” di cui all’art. 184 bis del T.U. ambientale come introdotta dal D.Lgs. n. 205/10 (c.d. “quarto correttivo”) e in particolare della controversa espressione di “trattamento diverso dalla normale pratica industriale” che è stata sinora oggetto di acceso dibattito dottrinale in attesa di pronunce giurisprudenziali che prendessero posizione sull’argomento.

In generale, le sentenze di legittimità succedutesi sull’argomento si sono limitate perlopiù a ribadire il carattere di disciplina di favore delle disposizioni riguardanti l’utilizzo del sottoprodotto con la conseguenza che l’onere della prova sulla legittimità dell’utilizzo incombe sull’utilizzatore2; le (poche) pronunce succedutesi dopo l’entrata in vigore del quarto correttivo si sono limitate a qualificare apoditticamente un determinato materiale o residuo di produzione come rifiuto o sottoprodotto a seconda della rispondenza effettiva ai requisiti concomitanti richiesti dalla norma3.  In un solo caso4  la Suprema Corte ha tentato un approfondimento (invero più tecnico che giuridico): quando ha rinviato al giudice a quo al fine di accertare se la disidratazione dei fanghi esitati da un impianto di aspirazione delle polveri provocate della smaltitura di piastrelle sia un trattamento “diverso dalla normale pratica industriale”, posto che la consulenza tecnica agli atti aveva evidenziato la compatibilità del composto finale con i limiti di piombo autorizzati nel processo produttivo e, quindi, l’astratta rispondenza alla lettera d) di cui all’art. 184 bis T.U. che concerne la compatibilità ambientale e sanitaria dell’utilizzo della sostanza. Tuttavia, anche in questo caso, non sono stati scomodati i principi cardine della materia, esaminati in sede dottrinale sin dall’entrata in vigore della Direttiva 2008/98/Ce di cui il citato Quarto Correttivo costituisce (una volta tanto) tempestivo recepimento.

Infatti, l’art. 184 bis costituisce riproduzione non pedissequa dell’art. 5 “Sottoprodotti” della Direttiva n. 2008/98/Ce che ha per la prima volta codificato a livello europeo le condizioni da soddisfare perché una sostanza od oggetto derivante da un processo di produzione il cui scopo primario non è la produzione di tale articolo possa non essere considerato rifiuto ma, appunto, sottoprodotto5.

La necessità di definire a livello europeo i contorni della definizione di “sottoprodotto” si era fatta pressante a livello europeo già nel 2007, quando la Commissione delle Comunità Europee ha pubblicato la Comunicazione n. 59 relativa all’interpretazione in materia di rifiuti e sottoprodotti6. Questo testo, da alcuni considerato “superato” proprio dall’art. 5 della Direttiva7, contiene tuttavia indicazioni ancora utili per comprendere la portata da dare alla controversa definizione di “normale pratica industriale”.

La ratio sottesa alla Direttiva 98/2008/ce è la creazione di una “gerarchia dei rifiuti” che mira alla prevenzione dei rifiuti, nel senso che deve essere considerata come una violazione della Direttiva la qualificazione di una sostanza od oggetto come rifiuto, laddove questa, invece, rifiuto non è8.  E’ evidente che la direzione intrapresa dalla Comunità Europea da tempo é nel senso della massima “conservazione” e del “recupero” dei beni e delle sostanze, intesi anche come ‘ricircolo’ interno delle risorse materiali e finanziarie: l’inutile appesantimento burocratico della gestione di un asserito rifiuto che non sia tale determina un aggravio nella filiera di utilizzo del bene o sostanza sotto il profilo economico, temporale, amministrativo, con ripercussioni negative sull’economia globale.

La definizione di rifiuto, secondo la prospettiva europea, si potrebbe (provocatoriamente) definire ‘residuale’ (più che ‘complementare’) rispetto ai concetti di “residui di produzione” (sottoprodotti) e “residui di consumo” (ex materia prima secondaria – end of waste) che costituiscono il vero ambito di applicazione e di indagine nelle filiere di produzione e utilizzo dei beni e delle sostanze nella moderna società dei commerci.

L’art. 5, comma 1 della Direttiva elenca le condizioni (cumulative) per cui una sostanza o un oggetto possono essere definiti “sottoprodotto”:
1.    la sostanza o l’oggetto deriva da un processo di produzione non principalmente destinato a produrla/o
2.    vi è certezza che la sostanza o l’oggetto sarà ulteriormente utilizzata/o
3.    la sostanza o l’oggetto può essere utilizzata/o senza alcun trattamento diverso dalla normale pratica industriale
4.    la sostanza o l’oggetto è prodotta/o come parte integrante di un processo di produzione
5.    un ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico,  tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente e sulla salute umana.

Fin dal suo apparire nella disciplina comunitaria, l’espressione “trattamento diverso dalla normale pratica industriale” ha suscitato forti interrogativi per la sua indeterminatezza e l’auspicio di un pronto intervento della giurisprudenza9. Il legislatore europeo ha inteso chiaramente evitare di restringere l’utilizzo della sostanza od oggetto al “tal quale”, ma non ha specificato quali tipologie di trattamento siano ammissibili nell’ambito della disciplina del sottoprodotto.  Si è subito ventilata l’ipotesi che tra queste operazioni vi fossero quelle individuate in modo non esaustivo dalla Commissione nella citata Comunicazione 59/2007 (“la catena del valore di un sottoprodotto prevede spesso una serie di operazioni necessarie per poter rendere il materiale riutilizzabile: dopo la produzione, esso può essere lavato, seccato, raffinato o omogeneizzato, lo si può dotare di caratteristiche particolari o aggiungervi altre sostanze necessarie al riutilizzo, può essere oggetto di controlli di qualità ecc.”) e si è anche sostenuto che, comunque, queste operazioni dovessero essere individuate volta per volta, a seconda del settore industriale coinvolto. Di conseguenza, operazioni non meramente conservative, come frantumazione e vagliatura, rientrerebbero comunque nell’ambito di applicazione del sottoprodotto se la sostanza o il prodotto possiedono già le caratteristiche merceologiche che ne rendono certo l’utilizzo all’esito del processo di produzione10.   In uno dei primi commenti alla direttiva si è così sostenuto che per normale pratica industriale si debba intendere “quei trattamenti cui è sottoposta anche la materia prima in funzione del processo produttivo seguito per la realizzazione di un determinato prodotto11.  Si dovrebbero perciò escludere tutti i trattamenti finalizzati all’eliminazione di una sostanza pericolosa dalla materia principale qualificandosi come operazioni di recupero in senso stretto, ma non è detto che un intervento di recupero sia a priori da essere escluso dalla “normale pratica industriale”.

Questi problemi si sono ripresentati dopo il recepimento dell’art. 5 della Direttiva nella normativa nazionale ad opera del D.Lgs. n. 205/1012, dal momento che questo, con l’introduzione dell’art. 184 bis13,  ha riproposto il problema oggetto di questo commento più o meno negli stessi termini di cui alla Direttiva: ”la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale” (art. 184 bis, comma 1, lett. b). La ‘patata bollente’ è stata, di fatto, rimessa alla buona volontà del Ministero dell’Ambiente che con specifici decreti avrebbe dovuto (e consta che non abbia ancora provveduto) “adottare misure per stabilire criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare affinché specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano considerate sottoprodotti e non rifiuti” (art. 184 bis, comma 2).
Nonostante l’inerzia del Ministero, i primi commenti sulla norma non si sono fatti attendere e hanno dato luogo  a due orientamenti: l’uno restrittivo, l’altro estensivo.

Un autore14, fautore del primo orientamento, presuppone che l’espressione “utilizzato direttamente” significhi “utilizzato tal quale” e, conseguentemente, ritiene che il trattamento consentito debba essere meno ampio di un “recupero” che per sua natura può riguardare soltanto un rifiuto e che, una volta effettuato, fa perdere al rifiuto tale qualità. Si tratta di una interpretazione all’insegna della cautela, ma non rispondente alle linee guida adottate dalla Comunità Europea dalla metà degli anni 2000 ad oggi. E’ ben vero che l’autore ritiene di dover adottare detta interpretazione restrittiva “in attesa di lumi” (e su questo si fa fatica a dargli torto), ma è anche vero che ritenere che il prodotto indesiderato debba essere utilizzato “tal quale” vanifica l’introduzione della nuova norma e riporta direttamente alla formulazione precedente, introdotta dal D. Lgs. n. 4/08, che escludeva “trattamenti preventivi” e “trasformazioni preliminari” cui sottoporre i materiali o le sostanze per raggiungere le qualità merceologiche richieste.

I fautori dell’indirizzo meno restrittivo (e più allineato al pensiero del legislatore europeo)15, invece, ravvisano la necessità di non circoscrivere eccessivamente la portata dell’espressione “normale pratica industriale” e, al tempo stesso, di non abbracciare qualsiasi operazione comunemente inserita in un ciclo produttivo per evitare di equiparare ogni operazioni di recupero R1-R 13 in un trattamento preliminare all’utilizzo di un sottoprodotto. Anche questa tesi, così espressa, non appare decisiva, ma fa leva sull’autorevole sentenza Niselli16, dove si è sostenuto che l’operazione cui viene sottoposto un materiale, che si tratti o meno di un’operazione di trattamento dei rifiuti di cui agli allegati della direttiva quadro sui rifiuti, non consente di pronunciarsi sulla natura dello stesso, in quanto molti dei metodi di trattamento indicati negli allegati possono applicarsi perfettamente anche a un prodotto. Perciò, ritiene il principale esponente di questo indirizzo: “..dovrebbe potersi affermare che certamente rientrano nella “normale pratica industriale” tutte quelle attività industriali che possono essere indifferentemente condotte con un sottoprodotto piuttosto che con una materia prima, un intermedio od un prodotto senza che ciò comporti aggravi sotto  il profilo dell’impatto ambientale. Volendo esemplificare, un processo di distillazione o raffinazione di una sostanza, così come la rifusione di uno scarto di produzione metallico, rientrano certamente nella normale pratica industriale finalizzato alla produzione di un diverso  bene primario. Si tratta, quindi, di trattamenti identici o comunque assimilabili a quelli cui l’impresa sottopone prodotti, intermedi o materie prime che certamente non costituiscono rifiuti in forza della loro origine. Al contrario, operazioni che nella pratica vengono di regola effettuate esclusivamente su residui e dirette a rendere compatibili sotto il profilo ambientale e merceologico detti scarti con i processi produttivi propri dell’impresa utilizzatrice tenderanno con maggiori probabilità a rimanere nell’alveo delle operazioni di recupero elencate dall’allegato II della direttiva e recepite nel D. Lgs. n. 152/0617.

Si tratta di un’impostazione teleologica, che non focalizza esclusivamente l’attenzione sull’operazione di trattamento in senso quantitativo e qualitativo, ma si collega direttamente alla condizione di cui alla lettera d) dell’art. 184 bis che richiede la compatibilità dell’utilizzo con la protezione della salute e dell’ambiente.

Ovviamente, questa lettura normativa ha trovato molti oppositori, non solo per l’asserita genericità dell’argomentazione18  ma anche perché non terrebbe in debito conto la distinzione fra trattamenti effettuabili usualmente o no sulle materie prime. Infatti, la distillazione o la raffinazione19  costituirebbero attività riguardanti tanto le materie prime c.d. vergini quanto le sostanze residuali, mentre la rifusione di una sostanza di scarto è attività che troverebbe riscontro solo in una pratica industriale avente ad oggetto una sostanza di scarto. Si tratterebbe, pertanto, di un trattamento diretto a rendere compatibili gli scarti con i processi produttivi in cui devono essere utilizzati, coincidente con il “trattamento preventivo” o la “trasformazione preliminare” di cui alla precedente formulazione20. Coloro i quali ritengono che il trattamento diverso dalla normale pratica industriale coincida con il trattamento preventivo o la trasformazione preliminare ritengono che il trattamento tout court (nella lettura applicabile a questa fattispecie) sia “il processo che realizza un mutamento della struttura e della costituzione fisico-chimica della sostanza21, con ciò, non ritenendo plausibile la tesi di chi, invece, distingue all’interno di una più ampia nozione di trattamento, tra gli interventi di trattamento “minimale” (es. cernita, selezione, vagliatura, essicazione, raffinazione) che non fanno perdere al materiale le sue caratteristiche merceologiche22  e trattamenti che importano un mutamento delle caratteristiche chimico-fisiche della sostanza23.

L’intervento della Terza Sezione della Cassazione, pur non aiutando a fare chiarezza su questa controversa e complessa questione, fornisce alcuni spunti di riflessione che ci permettono di dire quale sia la strada da non seguire per addivenire alla soluzione del problema.

La questione portata all’attenzione della Suprema Corte concerne la qualificazione da attribuire a materiali qualificati come fumi di fonderia contenenti ottone che la società ricorrente assume collocarsi nell’ambito dei sottoprodotti. In particolare, detta società aveva acquistato da diverse acciaierie quantitativi di materiali descritti come “rifiuti solidi prodotti dal trattamento a secco dei fumi – cod. CER 100606 (contenuto in zinco 60% min. ) – caratteristiche pericolo H5-H10” dai quali intendeva ottenere un ricavo economico attraverso la separazione delle singole componenti chimiche dei fumi di ottone attraverso una metodologia ancora in fase di sperimentazione (tanto da aver determinato danno ai forni e condizioni di pericolo per gli operai).

La Corte ha ritenuto che il materiale in esame non potesse qualificarsi come sottoprodotto per carenza di due delle quattro condizioni richieste dalla legge. Il ragionamento sotteso alla decisione è però contorto e non convince, soprattutto per i richiami normativi in esso contenuti. Secondo la Corte, il trattamento cui venivano sottoposti i materiali consisteva in una “specifica procedura finalizzata alla separazione delle singole componenti” e, perciò, non poteva ritenersi compreso nel concetto di “normale pratica industriale” dal quale devono escludersi “attività comportanti trasformazioni radicali del materiale trattato che ne stravolgano l’originaria natura”. La nozione di trattamento si ricaverebbe dall’art. 2, comma primo, lett. h) del D. Lgs. n. 36/2003 “Attuazione della direttiva 1999/31/Ce relativa alle discariche di rifiuti” che si riferisce ai “processi fisici, termici, chimici o biologici, incluse le operazioni di cernita, che modificano le caratteristiche dei rifiuti, allo scopo di ridurne il volume o la natura pericolosa, di facilitarne il trasporto di agevolare il recupero o di favorirne lo smaltimento in condizioni di sicurezza”. Da ciò, ne discende che devono essere esclusi dal concetto di normale pratica industriale “tutti gli interventi manipolativi del residuo diversi da quelli ordinariamente effettuati nel processo produttivo nel quale esso viene utilizzato”.
Sorvolando sulla conclusione, che significa tutto e niente e si riduce a mera tautologia, non si può che prendere atto che la Cassazione ha abbracciato integralmente la tesi più restrittiva che riconduce l’utilizzo diretto della sostanza o del bene senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale alla pregressa normativa che escludeva trattamenti preventivi e/o trasformazioni radicali.

Tuttavia, a destare perplessità non è la soluzione finale scelta dalla Corte, ma il percorso cui si è addivenuti per giustificarla, che appare in contrasto non solo con l’orientamento comunitario, ma anche con la stessa espressione “normale pratica industriale”.

Riferirsi alla nozione di “trattamento” contenuta nel D. Lgs. n. 36/2003 che ha ad oggetto il conferimento dei rifiuti in discarica appare del tutto inopportuno24, perché il riferimento è ad una normativa specifica, concepita per una (potremmo dire) “particolarissima pratica industriale” (rectius, di servizi) che è appunto la gestione dell’intero ciclo di vita di una discarica con tutte le garanzie sanitarie ed ambientali ad essa connesse.

Inoltre la stessa sezione della Corte non riesce a confermare se stessa, laddove soltanto qualche mese prima, in termini generali, nella già citata sentenza n. 34753/11 aveva affermato: “..nell’art. 184 bis attualmente vigente, relativo al sottoprodotto, il legislatore italiano ha recepito la nozione comunitaria di cui all’art. 5 della Direttiva quadro sui rifiuti n. 2008/98/Ce, in cui il legislatore comunitario mostra un evidente favore per la soluzione di recupero dei rifiuti, come si desume dalla previsione contenuta nell’art. 4 della medesima direttiva recante la gerarchia dei rifiuti, che vede al primo posto la prevenzione e la preparazione per il riutilizzo. Fermo restando il principio dell’interpretazione estensiva della nozione di rifiuto, la direttiva quadro ha tracciato il confine tra ciò che deve considerarsi rifiuto e ciò che ha assunto il valore di autentico prodotto. Inoltre la disciplina comunitaria tra i requisiti indicati nella nozione di sottoprodotto, ha incluso i trattamenti che rientrano nella normale pratica industriale con l’effetto pratico di ampliamento della categoria”.

Non sono certamente criticabili le conclusioni concrete della Corte con riferimento al caso in esame: da quanto appare dalla mera lettura dei fatti così come offerti dalla lettura della sentenza, il ricorso presentato dalla società era infondato. Anche a voler seguire l’interpretazione estensiva della nozione di sottoprodotto, l’intervento sul materiale (il quale, peraltro, essendo  già stato qualificato come rifiuto, non avrebbe potuto che essere assoggettato al massimo ad un’operazione di recupero con la conseguente perdita della qualifica di rifiuto una volta soddisfatte le condizioni di cui all’art. 184 ter) era finalizzato alla separazione delle singole componenti chimiche mediante l’utilizzo di sostanze esogene e, pertanto, modificativo delle caratteristiche merceologiche del materiale stesso. Il trattamento era, pertanto, da considerarsi “eccentrico” rispetto alla normale pratica industriale perché non rientrante nell’ordinaria filiera produttiva.

Il fatto è poi da considerarsi aggravato dalle modalità operative, chiaramente condotte in condizioni di pericolosità, come emerso dall’istruttoria dibattimentale: è evidente che il vaglio della Corte non si sarebbe superato per carenza del quarto requisito di cui all’art. 184 bis.
A questo proposito, non si può tacere una riflessione.

Vista la comprovata e oggettiva difficoltà di definire esaustivamente gli interventi rientranti nella “normale  pratica industriale” (taluni invocano un elenco, ma chiaramente non si tratta di un’opzione praticabile), sarebbe opportuno adottare una riflessione ragionata, caso per caso, delle singole operazioni di trattamento in relazione all’effettivo impatto di queste nei confronti della salute e dell’ambiente.

Come sopra illustrato, la politica ambientale comunitaria è sempre più orientata alla conservazione delle risorse e al minor aggravio possibile delle incombenze burocratiche per favorire l’attività imprenditoriale nel rispetto della tutela della salute umana e degli ecosistemi.

In attesa dell’emanazione dei decreti ministeriali, sarebbe opportuno adottare una lettura sistematicamente ragionata dell’art. 184 bis comma 1, lett. c) e d) in interconnessione sistematica.

Non sembra, infatti, di grande giovamento né all’economia né alla salvaguardia dell’ambiente un’interpretazione ostinatamente intransigente del termine “trattamento” (beninteso, non ricadente nell’alveo del D.Lgs. n. 36/2003) che impedisca qualsiasi modificazione del bene o della sostanza, anche soltanto minimamente quantitativa, in vista del riutilizzo come sottoprodotto: in tal senso, sarebbe auspicabile l’espunzione del termine dalla lettera c) dell’art. 184 bis, comma 1) del T.U., apparendo, piuttosto, necessario meglio definire l’impiego diretto nell’ambito dei normali procedimenti industriali, intesi come procedimenti certi, consolidati e non sperimentali.

La tutela della salute e dell’ambiente sono perseguibili anche prestando attenzione alle esigenze del mercato e dell’impresa, che non debbono venire gravati da inutili cavilli burocratici, ma essere incentivati nel loro naturale dinamismo. 

* avvocato in Venezia

1 Questi alcuni dei primi commenti “a caldo”: A. MURATORI, Sottoprodotti: la Suprema Corte in difesa del sistema Tolemaico?, in Ambiente & Sviluppo 7/2012; S. MAGLIA, Normale pratica industriale: la contraddittoria e pericolosa interpretazione della Cassazione, in Ambiente & Sviluppo 7/2012; S. ROSOLEN, Normale pratica industriale: i chiarimenti della Cassazione, in Ambiente & Sicurezza n. 12 del 26 giugno 2012; G. AMENDOLA, Sottoprodotto e normale pratica industriale: finalmente interviene la Cassazione, in wwwlex ambiente.it; R. TUMBIOLO: “La Corte di Cassazione si pronuncia sulla nozione di sottoprodotto, trattamento e normale pratica industriale” in www.ambientediritto.it.
2  Tra le più recenti: Cass. Pen. 12 giugno 2008, Picchioni; Cass. Pen. 18 giugno 2009, Bastone; Cass. Pen. 3 marzo 2010 n. 15680, Cass. Pen. Sez. III, n. 16727 del 29 aprile 2011.
3  Vd. Cass. Pen. Sez. III, 25 maggio 2011 n. 24427 “i ritagli di materiali tessili non rientrano nella nozione di sottoprodotto come oggi definita dall’art. 184 bis del D. Lgs. 3 aprile 2006, trattandosi di materiali già sottoposti ad un ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale”.
4  Cass. Pen. Sez. III, 25 maggio 2011, n. 34753.
5  Il D Lgs. n. 152/06 è stato (sorprendentemente) il primo corpus normativo a livello europeo a introdurre una vera e propria definizione, seppur rozza, di sottoprodotto. La prima formulazione dell’art. 183, comma 1, lett. n) è stata ‘travolta’ dalle modifiche introdotte dall’art. 2, comma 20, D.Lgs. 4/2008, che ha tenuto conto di molteplici istanze di diritto nazionale ed europeo, nonché della pendenza di una questione di costituzionalità poi risoltasi positivamente con la sentenza n. 28/2010 con la quale la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittima la prima formulazione della norma nella parte in cui prevedeva: “rientrano altresì tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido di ferro provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e  ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali  e non, anche se sottoposte a procedimento di bonifica o di ripristino ambientale”. Su questa vicenda e sui suoi riferimenti alla normativa comunitaria vd. D. FRANZIN, La Corte Costituzionale e la definizione di rifiuto: nuovo capitolo di una complessa vicenda di illegittimità comunitaria in Cass. Pen. 2011, 1, 117.
6  La Comunicazione, fin dall’introduzione, prendeva atto della mancanza di una definizione di “sottoprodotto” e “materia prima secondaria” nella legislazione comunitaria in materia di rifiuti e intendeva perciò integrare la nozione di rifiuto presente nella Direttiva 2006/12/Ce. Tra le espresse finalità espresse dalla Commissione c’era la necessità di conferire alla nozione di rifiuto una portata equilibrata, per evitare al contempo di imporre alle aziende costi superflui e di creare danni all’ambiente. Il testo della Comunicazione prendeva atto della complessità dei processi di produzione industriale e dell’insufficienza della normativa allora vigente che vincolava alla nozione di “rifiuto/non rifiuto” le possibilità di libero scambio e/o utilizzo di determinati materiali o sostanze nel mercato  interno: è una dichiarazione d’intenti valida ancora oggi.
7  Vd. A. MURATORI, op. cit.
Così F. GIAMPIETRO, Commento alla Direttiva 2008/98/Ce sui rifiuti, Milano 2009, p. 45.
9  Ancora, F. GIAMPIETRO, op. cit. p. 51
10  Ibidem.
11  P. GIAMPIETRO, Rifiuti, prodotti, MPS nella nuova direttiva CE, in www.ambientediritto.it
12  Per una sommaria disamina sulle innovazioni del D. Lgs. n. 205/2010 vd. A. SCARCELLA “Il decreto di recepimento della direttiva-quadro sui rifiuti (2008/98/CE) tra modifiche, abrogazioni e novità”, in Cass. Pen. 2011, 04, 1302.
13  Art. 184 bis “Sottoprodotto”:
1. E’ un sottoprodotto e non un rifiuto ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. a) qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni:
a)    la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
b)    è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
c)    la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla  normale pratica industriale;
d)    l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente e la salute umana.
2.  Sulla base delle condizioni previste al comma 1, possono essere adottate misure per stabilire criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare affinché specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti. All’adozione di tali criteri si provvede con uno o più decreti del Ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare ai sensi dell’art. 17, comma 3, della L. 23 agosto 1988, n. 400, in conformità a quanto previsto dalla disciplina comunitaria.    
14  G. AMENDOLA, Il quarto decreto correttivo della normativa sui rifiuti, primi appunti: in particolare sull’ambito di applicazione, in www.industrieambiente.it . Della stessa opinione V. PAONE, I sottoprodotti e la normale pratica industriale: una questione spinosa (nota a Cass. N. 16727/11) in Ambiente & Sviluppo 2011.
15  Su tutti, L. PRATI, La nuova definizione di sottoprodotto ed il trattamento secondo la normale pratica industriale in wwwlexambiente.it, ripreso e approfondito poi dallo stesso autore in I sottoprodotti dopo il recepimento della direttiva 2008/98/CE in questa Rivista 2011, 3-4, 0549B. Dello stesso orientamento anche A. MURATORI e S. MAGLIA, op. cit.
16  Corte di Giustizia, sentenza 11 novembre 2004, causa C – 457/02.
17  Così, L. PRATI, I sottoprodotti dopo il recepimento della direttiva, cit.
18  G. AMENDOLA, Il quarto decreto correttivo, cit.
19  A queste va aggiunta senz’altro anche la disidratazione, come confermato da TAR Toscana sez. II, 1 marzo 2011, n. 389.
20  V. PAONE, cit.
21  Ibidem.
22  In questo senso, durante la previgente normativa, si era espressa anche la stessa Cassazione, laddove aveva ritenuto rientranti nelle condizioni ammesse la frantumazione dei detriti provenienti dalla realizzazione di manufatti in cemento ma non il trattamento chimico costituito dal procedimento di epurazione per l’eliminazione del ferro: vd. Cass. Pen. Sez. III, 28 gennaio 2009 n. 10711 e il relativo commento di E. POMINI in RGA 2009, 7, 709.
23  È la tesi di P. GIAMPIETRO: Quando un residuo produttivo va qualificato ‘sottoprodotto’ (e non ‘rifiuto’) secondo l’art. 5 della Direttiva n. 2008/98/Ce, in www.ambientediritto.it.
24  A. MURATORI, op. cit., parla addirittura di “errore blu”, ricordando che “la definizione estesa di trattamento esposta dal decreto discariche, comprensiva anche dell’operazione di selezione/cernita, trova la sua motivazione nella prescrizione che vieta il deposito in discarica dei rifiuti tal quali, in assenza di almeno minimali forme di pre-trattamento: un artificio, in sostanza, per indurre al superamento della prassi del deposito bruto, senza traumi eccessivi”.

 

Pubblicato sull’Osservatorio AD-GL il 12 settembre 2012

La Corte di Cassazione offre uno spunto di riflessione per fare chiarezza sul concetto di tipica fauna stanziale alpina

 

La Corte di Cassazione offre uno spunto di riflessione per fare chiarezza sul concetto di tipica fauna stanziale alpina.

DAVIDE BRUMANA* e LUCA PELLICIOLI**

Configura il reato di cui all’art. 30, comma 1, lett. g), della L. n. 157 del 1992, l’abbattimento di un capriolo effettuato senza rispettare i criteri e le modalità del prelievo venatorio di selezione, dovuti in quanto si tratta di specie appartenente alla tipica fauna stanziale alpina.
In queste poche righe può essere efficacemente sintetizzata la sentenza della Corte di Cassazione Penale, sez. III, 4.11.2011, n. 2380.

Nonostante ciò, la pronuncia in esame offre una serie di spunti di riflessione rispetto al regime di protezione accordata dalla legge quadro sulla caccia (L. n. 157/1992) alle specie di fauna selvatica “tipica e stanziale” della Zona faunistica delle Alpi.

Già nel Testo Unico del 1939 – prima disciplina dell’attività venatoria di portata nazionale (R.D. 5.06.1939, n. 1016) – il legislatore, cosciente della specifica biodiversità degli areali alpini, contemplò il concetto di “Zona faunistica delle Alpi” e, per connessione, di “tipica fauna stanziale alpina”.

Ma procediamo con ordine.
Ancora oggi, la definizione di Zona faunistica delle Alpi, contenuta nell’art. 11, comma 1, della L. n. 157/1992, non diverge da quella originaria del 1939: infatti, la novella legislativa stabilisce che il territorio delle Alpi, caratterizzato dalla consistente presenza della tipica flora e fauna alpina, è considerato zona faunistica a sé stante.

Al riguardo va però osservato, anche a fronte dello stato di conservazione in cui versa la fauna e la flora delle Alpi, che la portata della norma appare senz’altro riduttiva, sopratutto in termini di definizione degli areali classificabili come Zona faunistica Alpi, quando viene applicata nelle singole pianificazioni faunistico venatorie sia regionali, che provinciali.

In questo senso, con l’obiettivo di tutelare i territori sui quali è, o era presente, la flora e la fauna alpina, al fine di rafforzarne la consistenza, è condivisibile quella corrente di pensiero in materia faunistico venatoria, secondo la quale possono venire inclusi nella Zona faunistica delle Alpi quegli areali che, nonostante siano interessati da una limitata presenza delle specie animali e vegetali alpine, presentino delle caratteristiche favorevoli al potenziale insediamento delle stesse.

Nonostante siano trascorsi oltre 70 anni dall’introduzione nell’ordinamento giuridico del concetto di “tipica fauna stanziale alpina”, quest’ultimo manca però tuttora di qualsiasi definizione o criterio di individuazione, che non si rinviene nè nelle precedenti normative sull’attività venatoria (R.D. n. 1016/1939, L. n. 968/1977), sia, tuttora, nella vigenza della L. n. 157/1992; il concetto non si rinviene neppure nelle pronunce giurisprudenziali intervenute sul tema.

Un riferimento per l’individuazione delle specie appartenenti alla tipica fauna stanziale alpina, sebbene parziale perché riferita esclusivamente alle specie oggetto di prelievo venatorio, potrebbe rinvenirsi nel comma 1, lett. c), dell’art. 18 della medesima L. 157/1992, ove vengono elencate le specie cacciabili dal 1° ottobre al 30 novembre, tra le quali: pernice bianca (Lagopus mutus), fagiano di monte (Tetrao tetrix), coturnice (Alectoris graeca), camoscio alpino (Rupicapra rupicapra), capriolo (Capreolus capreolus), cervo (Cervus elaphus), lepre bianca (Lepus timidus), ed ove invece vengono esclusi edaino (Dama dama) e muflone (Ovis musimon), giacché specie non originarie della catena alpina.

La circoscrizione della nozione di fauna tipica stanziale alpina assume una maggior rilevanza nell’ambito del precetto penale di cui all’art. 30, comma 1, lett. g), della L. 157/1992, che sanziona con l’ammenda fino ad euro 3.098,74 chiunque abbatta, catturi o detenga esemplari appartenenti alla tipica fauna stanziale alpina, non contemplati nella lettera b) (specie particolarmente protette, con sanzione penale maggiormente grave), della quale sia vietato l’abbattimento.

Si comprende allora come la definizione di “tipica fauna stanziale alpina”, contenuta nel dispositivo sanzionatorio così come formulato, si riferisce estensivamente alle diverse specie che vi appartengono, siano esse protette o cacciabili ai sensi della disciplina sull’attività venatoria.

Allo stato dell’arte, la lettura del concetto in analisi deve allora essere necessariamente interpretata in chiave giusambientale.

Da un punto di vista faunistico è possibile proporre come definizione generale di “tipica fauna stanziale alpina” le specie che, nella storia moderna, sono presenti nell’ambiente alpino, all’interno del quale hanno trovato tutte le condizioni e risorse biotiche ed abiotiche sufficienti per manifestare liberamente le proprie caratteristiche biologiche ed etologiche.

Va peraltro considerato che all’interno del contesto alpino, negli ultimi decenni, si è assistito ad una profonda modificazione degli habitat che, quanto alle popolazioni a vita libera, ne ha favorito il notevole incremento demografico: ciò vale soprattutto per le popolazioni di ungulati selvatici, al punto che se ne è registrata l’espansione in nuovi areali.

L’evoluzione dell’espansione degli areali di presenza degli ungulati selvatici presenti sulle Alpi fa sì che il concetto di tipica fauna stanziale alpina debba ora perciò incardinarsi sulla sussistenza del connubio tra considerazioni di carattere sia ambientale che biologico. Il fattore ambientale coincide con la presenza di un areale alpino (dove per Alpi intendiamo la catena montuosa che per convenzione inizia a ovest del Colle di Cadibona e termina a ovest della città di Vienna), mentre il fattore biologico consiste nell’autoctonia della specie nel territorio delle Alpi.

La particolare tutela che il legislatore statale ha accordato a queste specie, per evidenti intenti conservazionistici, emerge chiaramente nell’architettura normativa utilizzata nella richiamata disposizione penale (art. 30, c. 1, lett. g), L. 157/1992), volta a reprimere la fattispecie dell’abbattimento, cattura o detenzione di esemplari appartenenti alla tipica fauna stanziale alpina (ad eccezione delle specie particolarmente protette) di cui sia vietato l’abbattimento.

Ci si trova dinanzi ad una cosiddetta norma penale “in bianco”.

In tal senso, il divieto di abbattimento delle specie in parola, oltre ad essere vietato dalla normativa statale sulla caccia, può derivare anche dalla presenza di discipline sia regionali, che provinciali, che regolamentino in tal senso l’attività venatoria.

Da ciò può discendere la sussistenza in capo al trasgressore di una responsabilità penale non tassativamente prevista dalla legge statale.

In conclusione, come rilevato dal Collegio giudicante nella pronuncia in commento, esistono peculiari ragioni che inducono all’introduzione di specifiche limitazioni dell’attività venatoria e del suo esercizio in relazione ad alcuni taxa della fauna alpina che rendono comprensibile la scelta del legislatore di sanzionare comunque penalmente la violazione delle disposizioni a loro tutela.

* Master diritto dell’ambiente
** Medico veterinario, Ph.D

Pubblicato su Osservatorio AD – Greenlex il 20 giugno 2012

Il SISTRI e la sagra dei rinvii.

 

Il SISTRI e la sagra dei rinvii

CARLO LUCA COPPINI*

 
Anche l’ultimo  rinvio dell’entrata in operatività del SISTRI, previsto dalla legge. 24 febbraio 2012 n. 14, è destinato, con ogni probabilità,  a non dover essere rispettato dagli operatori e dai produttori di rifiuti. Il termine del 30 giugno 2012 che veniva fissato dell’Allegato unico della suddetta legge di conversione del D. L. 29 dicembre 2011, n° 216, infatti, dovrebbe risultare prorogato dal Consiglio dei Ministri che,  con il decreto legge sviluppo varato  il 15 giugno, ha nuovamente differito di oltre un anno  la data entro cui rendere operativo il nuovo sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti. Le discussioni, tuttavia, sono ancora aperte e la certezza circa l’imminente appuntamento del 30 giugno 2012 non è ancora stata raggiunta.
Sino alla fine del 2013, quindi, l’obbligo imposto dalla Direttiva 2008/98/CE di garantire la tracciabilità dalla produzione alla destinazione finale ed il controllo dei rifiuti potrebbe essere garantito attraverso l’ausilio del collaudato strumento del Formulario di Identificazione Rifiuti (FIR) e dei noti registri di carico e scarico dei rifiuti.
L’impossibile partenza del SISTRI per la data programmata del 30 giugno 2012, conferma il Ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera,  è stata fatta discendere dalla probabile inadeguatezza alla diversità delle molteplici realtà aziendali, soprattutto di medie e grandi dimensioni. Nella relazione illustrativa del decreto legge sviluppo, infatti, è chiarita la ragione della nuova proroga del termine al 31 dicembre 2013  che, in principalità, è rappresentata dal: “fine di consentire la prosecuzione delle attività necessarie per la verifica del funzionamento del sistema”. Anche se anacronistico rispetto alle aspettative ed ai principi di tracciabilità previsti dalla disciplina europea del 2008, quindi, il nostro Paese dovrà sempre avvalersi del FIR introdotto con il D. Lgs 22/1997 e non è da escludere che, di fronte all’ennesimo rinvio, le aziende mettano concretamente in atto le proprie azioni legali per vedersi rimborsare il contributo sino ad ora inutilmente versato allo stato. A tale riguardo, le confederazioni avevano già assicurato il loro supporto a tutti gli imprenditori che, nell’attesa del concreto ed effettivo funzionamento del SISTRI, avevano già dovuto fare i conti con ingenti esborsi e con danni patrimoniali alquanto rilevanti se solo si pensa che, alla fine del’ottobre del 2011, erano già stati spesi oltre 70 milioni di euro (Il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2011).
In questo carosello dei rinvii, non devono essere dimenticati i vari passaggi che ne hanno caratterizzato la successione a partire dal D.M. 17/12/2009, intitolato: “Istituzione del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti ai sensi dell’art. 189 del D. Lgs 152/2006 e dell’art. 14 bis del D.L. n° 78 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla L. 112 del 2009”
In particolare:
1 ) D.M. 15 febbraio 2010: proroga di 30 giorni dei termini di cui all’art. 3 comma 1 del D.M. 17/12/2009 (
2 ) D.M. 9 luglio 2010; proroga al primo ottobre 2010 dei termini di cui all’art. 1 lett. b (operatività del SISTRI); proroga al primo ottobre 2010 dei termini di cui all’art 2 co. 2 (interconnessione SISTRI al SITRA); proroga al 12 settembre 2010 del termine di cui all’allegato 1 (termine per il completamento della distribuzione dei dispositivi USB e l’installazione delle black box); soppressione termine di 30 giorni di cui all’allegato 2 comma 1 (pubblicazione a cura del Ministero dell’Ambiente di elenco autofficine autorizzate all’installazione delle black box).
3 ) D.M. 28 settembre 2010: proroga al 30 novembre 2010 del termine di cui all’Allegato 1 (termine per il completamento della distribuzione dei dispositivi USB e l’installazione delle black box); proroga al 31 dicembre 2010 del termine di un mese di cui all’art. 12 co. 2 (termine per l’espletamento adempimenti SISTRI ex art. 1 e 2 D.M. 17/12/2009).
4 ) D.M. 22 dicembre 2010: proroga al 30 aprile 2011, con riferimento alle informazioni relative all’anno 2010, ed al il 31 dicembre 2011, con riferimento alle informazioni relative all’anno 2011, dei termini di cui all’art. 12 comma . 1 (comunicazione al SISTRI delle informazioni di:  a) il quantitativo totale di rifiuti annotati in carico sul registro, suddiviso per codice CER; b) per ciascun codice CER, il quantitativo totale annotato in scarico sul registro, con le relative destinazioni; c) per le imprese e gli enti che effettuano operazioni di recupero e di smaltimento dei rifiuti, le operazioni di gestione dei rifiuti effettuate; d) per ciascun codice CER, il quantitativo totale che risulta in giacenza); proroga al 31 maggio 2011 del termine di un mese di cui all’art. 12 co. 2 (termine per l’espletamento adempimenti SISTRI ex art. 1 e 2 D.M. 17/12/2009).
5 ) D. M. 18 febbraio 2011 n. 52: abroga il D. M. 17 dicembre 2009 ad eccezione dell’art. 12 comma. 1 e 2 riguardanti le comunicazioni al SISTRI;
6 ) D.M. 26 maggio 2011: proroga dei termini di cui all’art. 12 comma . 2 (termine per l’espletamento adempimenti SISTRI ex art. 1 e 2 D.M. 17/12/2009) rispettivamente al:
– 1° settembre 2011 per:
a) i produttori di rifiuti di cui all’art. 3, comma 1, lettera a) del decreto ministeriale 18 febbraio 2011, n. 52, che hanno piu’ di 500 dipendenti;
b) le imprese e gli enti produttori di rifiuti speciali non pericolosi, di cui all’art. 184, comma 3, lettere c), d) e g) del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, che hanno piu’ di 500 dipendenti;
c) le imprese e gli enti che raccolgono o trasportano rifiuti speciali a titolo professionale autorizzati per una quantita’ annua complessivamente trattata superiore a 3.000 tonnellate;
d) i soggetti di cui all’art. 3, comma 1, lettere c) e d) del decreto ministeriale 18 febbraio 2011, n. 52;
    – 1° ottobre 2011 per:
a) i produttori di rifiuti di cui all’art. 3, comma 1, lettera a) del decreto ministeriale 18 febbraio 2011, n. 52, che hanno da 251 a 500 dipendenti;
b) le imprese e gli enti produttori di rifiuti speciali non pericolosi, di cui all’art. 184, comma 3, lettere c), d) e g) del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, che hanno da 251 a 500 dipendenti;
c) i comuni, gli enti e le imprese che gestiscono i rifiuti urbani della regione Campania;
– 2 novembre 2011 per:
a) i produttori di rifiuti di cui all’art. 3, comma 1, lettera a) del decreto ministeriale 18 febbraio 2011, n. 52, che hanno da 51 a 250 dipendenti;
b) le imprese e gli enti produttori di rifiuti speciali non pericolosi, di cui all’art. 184, comma 3, lettere c), d) e g) del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, che hanno da 51 a 250 dipendenti;
    – 1° dicembre 2011 per:
a) i produttori di rifiuti di cui all’art. 3, comma 1, lettera a) del decreto ministeriale 18 febbraio 2011, n. 52, che hanno da 11 a 50 dipendenti;
b) le imprese e gli enti produttori di rifiuti speciali non pericolosi, di cui all’art. 184, comma 3, lettere c), d) e g) del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, che hanno da 11 a 50 dipendenti;
c) le imprese e gli enti che raccolgono o trasportano rifiuti speciali a titolo professionale autorizzati per una quantità annua complessivamente trattata fino a 3.000 tonnellate;
     – 2 gennaio 2012 per i produttori di rifiuti di cui all’art. 3, comma 1, lettera a) del decreto ministeriale 18 febbraio 2011, n. 52, che hanno fino a 10 dipendenti;
    – 1° settembre 2011 per i soggetti di cui all’art. 3 del decreto ministeriale 18 febbraio 2011, n. 52, non menzionati nei commi da 1 a 5 del presente articolo, nonche’ per i soggetti di cui all’art. 4 del decreto ministeriale 18 febbraio 2011, n. 52.
7 ) D. L. 13 agosto 2011, n. 138, art. 6 comma. 2: abroga totalmente il D.M. 17/12/2009 ed il D.M. 18 febbraio 2011, n° 52
8 ) L. 14 settembre 2011 n. 148, Allegato 1, di conversione del D. L. 138/2011: conferma  l’art. 12, commi 1 e 2 del D.M. 17/12/2009 ed D. M. 18 febbraio 2011 con  proroga dell’entrata in operatività del SISTRI al 9 febbraio 2012.
9 ) D. M. 12 novembre 2011: proroga al 30 aprile 2012, con riferimento alle informazioni relative all’anno 2011, ed entro 6 mesi dalla data di entrata in operatività del SISITRI, dei termini di cui all’art. 12 comma 1 del D.M. 17/12/2009 (comunicazione al SISTRI delle informazioni di:
 a)  quantitativo totale di rifiuti annotati in carico sul registro, suddiviso per codice CER;
b) per ciascun codice CER, il quantitativo totale annotato in scarico sul registro, con le relative destinazioni;
c) per le imprese e gli enti che effettuano operazioni di recupero e di smaltimento dei rifiuti, le operazioni di gestione dei rifiuti effettuate;
d) per ciascun codice CER, il quantitativo totale che risulta in giacenza).
10 ) D. L. 29 dicembre 2011 n. 216, art. 13: proroga l’entrata in operatività SISTRI al 2 aprile 2012.
11 ) L. 24 febbraio 2012 n. 14, Allegato 1: proroga l’entrata in operatività del sistri fino al 30 giugno 2012.
                  
Alla luce di queste inestricabili complicazioni  e delle incertezze che dominano le decisioni del Consiglio dei Ministri, quindi, la “Sagra” del SISTRI non può dirsi conclusa e ciò, mi si consenta, a dispetto di un principio di capitale importanza che, nel nostro ordinamento, dovrebbe garantire sia la “semplificazione” dell’attività amministrativa che  la certezza del diritto.

 

*Avvocato in Milano
 

Pubblicato su Osservatorio AD – GreenLex il 15 giugno 2012

Sì all’accesso all’informazione ambientale del concessionario demaniale: illegittima ogni limitazione soggettiva ed oggettiva.

Sì all’accesso all’informazione ambientale del concessionario demaniale: illegittima ogni limitazione soggettiva ed oggettiva

PAOLA BRAMBILLA*

La vicenda è singolare: un concessionario di una porzione del demanio marino, su cui sbocca un rio utilizzato come fognatura e cielo aperto, chiede anche ai sensi del d.lgs. 195/2005, al Comune di Genova e alla concessionaria del servizio di fognatura tutta la documentazione relativa alla costruzione e approvazione dei progetti, alla manutenzione degli impianti realizzati, ai controlli esercitati sugli impianti e sui reflui, ai formulari di trasporto dei fanghi del depuratore, e infine i dati della qualità delle acque del Rio e del tratto marino prospiciente la foce.

La domanda è originata dalla volontà di ottenere la cessazione di uno scarico dannoso per la propria attività, sia per i miasmi e la pessima qualità delle acque scaricate nel tratto di mare concesso, sia per comprendere le cause dell’interramento progressivo dello specchio d’acqua in concessione, causato dai sedimenti trasportati dal corso d’acqua divenuto fognatura.

I vari enti coinvolti rispondono parzialmente e in modo sommario: alcuni riferiscono di non avere documentazione o di non poterla reperire – la domanda era diretta ad ottenere chiedeva dieci anni di documentazione – altri consegnano solo deliberazioni senza elaborati progettuali, altri infine – la concessionaria del servizio di fognatura – si limitano a rispondere che il servizio funziona correttamente.

Il ricorso viene respinto in primo grado, con condanna della società alle spese. La sentenza del T.A.R. Liguria viene però ribaltata dal Consiglio di Stato, sez. VI, con sentenza 3329 del 6 giugno 2012.

Il collegio si sofferma preliminarmente su taluni principi cardine della normativa in tema, ricordando come il diritto di accesso all’informazione ambientale abbia ad oggetto un campo di applicazione vastissimo, come il richiedente non debba fornire alcuna giustificazione o motivazione della propria richiesta, per poi scendere agli specifici aspetti della vicenda statuendo l’illegittimità della risposta che si limiti ad affermare stentorea il funzionamento del servizio, evadendo una domanda diretta invece all’ottenimento di documentazione e dati. Conclude infine bollando di illegittimità anche l’affermazione dell’ente di inesistenza della documentazione richiesta, qualora contenuta in una semplice nota a firma dell’impiegato di turno.

Rispetto ai principi già noti in tema di accesso all’informazione ambientale, la particolarità della pronuncia consiste nell’affermazione del principio per cui, in caso di inesistenza della documentazione, tale circostanza deve essere attestata dal legale rappresentante dell’ente richiesto, con un’apposita dichiarazione a sua firma.

La valenza di responsabilizzazione della P.A. sino ai vertici istituzionali è chiarissima.

Rilevante infine anche la statuizione per cui la domanda di accesso ad atti e documenti che sia priva dell’indicazione della data esatta e del numero di protocollo non è generica, né esplorativa, in quanto l’ente a cui la domanda è rivolta è tenuto a conoscere la propria documentazione e a ricercarla.

L’evoluzione giurisprudenziale dunque conduce a restringere sempre di più il campo di operatività delle limitazioni ed eccezioni al diritto di accesso all’informazione ambientale, che oramai sono riconducibili alle sole ipotesi in cui l’autorità richiesta non sia una pubblica amministrazione o un incaricato di pubblico servizio (cfr. T.A.R. Lazio, 30 gennaio 2012, n. 966, nel caso di un gestore privato di una discarica), ai casi di procedimenti legislativi e di riservatezza codificata normativamente (Corte di Giustizia UE, 14 febbraio 2012, causa C-204-09) salvo quelli in cui il procedimento sia concluso e non vi siano norme sulla segretezza opponibili, e in quelle tassative fattispecie previste dalla direttiva 2003/04 sull’accesso del pubblico alle informazioni ambientali; casi in cui, tra l’altro, il giudice comunitario ha di recente ricordato che anche se una singola limitazione non può essere prevalente sull’interesse del pubblico alla divulgazione dell’informazione ambientale, quando concorrono più eccezioni allora esse devono essere valutate cumulativamente, perchè se ne apprezzi il peso congiunto, al fine della risoluzione del bilanciamento tra i contrapposti interessi (Corte di Giustizia UE, 28 luglio 2011, causa 71-10).

Altro caso in cui l’accesso può essere negato è quello in cui esso si traduca in un mero sindacato ispettivo sull’attività amministrativa. Anche in materia di “accesso ambientale”, infatti, è stato deciso che la domanda di accesso alle informazioni ambientali può consistere anche in una generica richiesta di informazioni sulle condizioni di un determinato contesto ambientale, purché questo contesto sia specificato e la richiesta appunto non sia mirata ad un mero sindacato ispettivo sull’attività dell’amministrazione (Consiglio Stato, sez. VI, 16 febbraio 2007, n. 668, e n. 555 del 10 febbraio 2006, nonché sez. VI – 11 gennaio 2010, n. 24).

Sono pronunce che, lette quali epigoni dell’attuale, confermano a contrario come l’accesso possa fungere a strumento di controllo mirato delle attività cui amministrazioni pubbliche e incaricati di pubblico servizio sono tenute, comprese quelle di monitoraggio, analisi e apprestamento degli interventi necessari per fronteggiare situazioni di inquinamento o compromissione ambientale da cui si originino danni anche in capo a soggetti diversi dalla classiche associazioni ambientaliste non profit.

* Avvocato in Bergamo

Note:

1 DONATA BORGONOVO RE, Informazione ambientale e diritto di accesso, in Codice dell’ambiente, (a cura di) Stefano Nespor e Ada Lucia De Cesaris, Giuffrè Ed., Milano, 2009; ENZO PELOSI, Rafforzamento dell’accesso all’informazione ambientale alla luce della direttiva 2003/4/CE, in Rivista giuridica dell’ambiente, 2004, 1, p. 23; AA.VV, Informazione ambientale e diritto di accesso, (a cura di) Giorgio Recchia, Cedam 2007.

 

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