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Il rafforzamento del sistema dei controlli interni negli enti locali alla luce del D.L. 174/2012 e i suoi riflessi sullo status del segretario comunale.

Il rafforzamento del sistema dei controlli interni negli enti locali alla luce del D.L. 174/2012 e i suoi riflessi sullo status del segretario comunale.

 

NICOLA SORGENTE *


Indice

1.    Il quadro normativo di riferimento.
2.    Il ridisegno del sistema dei controlli interni negli enti locali operata  dal D.L. 174 2012.
3.    In particolare: le criticità del ruolo del segretario comunale in seguito alla riforma introdotta dai controlli successivi (D.L. 174/2012) e dal D.D.L. anticorruzione.
4.    Gli effetti della riforma sullo status del segretario comunale. Conclusioni.

1.    Il quadro normativo di riferimento.

A seguito dell’emanazione del D.L. 10.10.2012, n. 174, “Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012” è stato integralmente rivisto il sistema dei controlli interni.
Il sistema previgente era disciplinato dall’art. 147 del D.Lgs. n. 267/2000 (TUEL) il quale, a sua volta, riprendeva, in parte, il disposto del D.Lgs. n. 286/1999, “Riordino e potenziamento dei meccanismi e strumenti di monitoraggio e valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell’attività svolta dalle amministrazioni pubbliche” alle cui disposizioni gli enti locali avevano la facoltà di adeguare la propria organizzazione; il sistema disciplinato dall’art. 147 del TUEL prevedeva:
a. il controllo di regolarità amministrativa e contabile;
b. il controllo di gestione;
c. la valutazione della dirigenza;
d. il controllo strategico.
La valutazione della dirigenza, a seguito dell’emanazione del D.Lgs. n. 150/2009, era già fuoriuscita dal sistema dei controlli interni anche se resta strettamente legata a quelle forme di controllo che attengono al ciclo strategico dell’ente (controllo di gestione e controllo strategico).
Con la riforma introdotta dall’art. 3 del D.L. n. 174/2012 è stato integralmente sostituito l’art. 147 del TUEL e sono stati introdotti, ex novo, gli artt. 147 bis, ter, quater e quinques.
In questo modo si è passati dalle quattro forme di controllo sopra riportate a sei, di cui ben tre nuove.
La novella normativa distingue i Comuni a seconda della loro dimensione demografica prevedendo che alcune tipologie di controlli interni, quali quelli sulle società partecipate e sulla qualità dei servizi erogati, siano obbligatorie solo negli enti sopra i 10.000 abitanti.
I controlli interni devono essere organizzati, da ciascun ente, in osservanza al principio di separazione tra funzione di indirizzo e compiti di gestione. Recita, infatti, il nuovo art. 147 cooma 4 del TUEL: “Nell’ambito della loro autonomia normativa e organizzativa, gli enti locali disciplinano il sistema dei controlli interni secondo il principio della distinzione tra funzioni di indirizzo e compiti di gestione, anche in deroga agli altri principi di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286, e successive modificazioni.”
Sono parte dell’organizzazione del sistema dei controlli interni il segretario comunale, il direttore generale (se nominato), i responsabili di servizio e le unità di controllo (nuclei di valutazione, organismi indipendenti di valutazione), laddove previste.
Più enti locali possono, ai sensi dell’art. 30 comma 4 del TUEL, istituire uffici unici per svolgere le attività di controllo in forma associata.
Va segnalato, infine, come l’art. 3 comma 2 del D.L. n. 174/2012 fissa anche la tempistica per adeguarsi alla riforma, prevedendo che “gli strumenti e le modalita’ di  controllo  interno  di  cui  al comma 1, lettera d), (art. 147 e seg.)  sono  definiti  con  regolamento  adottato  dal Consiglio…”. Si impone, quindi, agli enti locali di approvare in Consiglio Comunale, entro il 10 gennaio 2013, un regolamento disciplinante il sistema di controlli interni e di darne formale comunicazione al Prefetto ed alla sezione regionale di controllo della Corte dei Conti; detta norma prevede, inoltre, che in caso di inadempienza il Prefetto inviterà l’ente, che non abbia provveduto, ad adempiere entro il termine di 60 giorni. Decorso inutilmente anche questo termine, il Prefetto darà avvio al procedimento di scioglimento del Consiglio Comunale per gravi e persistenti violazioni di legge ex art. 141 lett. a) del TUEL.

2.    Il ridisegno del sistema dei controlli interni negli enti locali operata  dal D.L. 174 2012.

Come accennato, con l’emanazione del D.L. 174/2012 del 10 ottobre 2012 il legislatore è intervenuto nuovamente sul tema dei controlli interni agli enti locali. Una materia che, da qualche decennio a questa parte, risulta essere oggetto di attenzioni e di interventi normativi, volti a disegnare la “geometria variabile” di tali controlli.
Le modifiche apportate dall’ultimo decreto vanno in controtendenza rispetto all’orientamento dei primi anni 2000, quando si è costituzionalmente sancita, con l’emanazione della legge costituzionale n. 3/2001 di riforma del titolo V della Costituzione, la fine del Comitati Regionali di Controllo (Co.re.co) e della loro attività di monitoraggio a presidio della legittimità degli atti. Già in precedenza si era avviata l’operazione di alleggerimento dei controlli sugli atti deliberativi degli ee.ll. attraverso l’eliminazione del parere preventivo di legittimità del segretario comunale a seguito della riforma Bassanini (L. 127/97).
L’inversione di tendenza avvenuta col D.L. 174/2012, a conferma della vichiana teoria dei corsi e ricorsi storici, è stata dettata dalla necessità di correre subito ai ripari dopo i recenti scandali politici di sperpero di denaro pubblico per il finanziamento ai partiti. Ciò ha dato la stura ad un’operazione di organica revisione della materia dei controlli interni agli enti territoriali e locali, che ha avuto l’effetto di conferire nuova linfa vitale a questo tema così importante e strategico non solo per il buon andamento della pubblica amministrazione ma anche per la competitività del sistema Paese. Il tutto al fine di por mano in gran fretta a una situazione emergenziale, considerati per l’appunto gli esempi deplorevoli di spreco di risorse pubbliche e fenomeni di diffusa corruzione ai vari livelli istituzionali di governo.
Proprio l’art. 3 (intitolato “Rafforzamento dei controlli interni degli enti locali”) del predetto Decreto riscrive il sistema dei controlli interni, tanto preventivi quanto successivi sugli atti degli enti locali, prevedendone un loro massiccio rafforzamento e anticipando norme che erano già nelle progettate modifiche del Codice delle autonomie locali.
Viene quindi riformulato in versione corretta e ampliata l’art. 147 del Tuel, secondo il seguente tenore:
Art. 147. – (Tipologia dei controlli interni).
1. Gli enti locali, nell’ambito della loro autonomia normativa e organizzativa, individuano strumenti e metodologie per garantire, attraverso il controllo di regolarità amministrativa e contabile, la legittimità, la regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa.
2. Il sistema di controllo interno è diretto a:
a) verificare, attraverso il controllo di gestione, l’efficacia, l’efficienza e l’economicità dell’azione amministrativa, al fine di ottimizzare, anche mediante tempestivi interventi correttivi, il rapporto tra obiettivi e azioni realizzate, nonché tra risorse impiegate e risultati;
b) valutare l’adeguatezza delle scelte compiute in sede di attuazione dei piani, dei programmi e degli altri strumenti di determinazione dell’indirizzo politico, in termini di congruenza tra i risultati conseguiti e gli obiettivi predefiniti;
c) garantire il costante controllo degli equilibri finanziari della gestione di competenza, della gestione dei residui e della gestione di cassa, anche ai fini della realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica determinati dal patto di stabilità interno, mediante l’attività di coordinamento e di vigilanza da parte del responsabile del servizio finanziario, nonché l’attività di controllo da parte dei responsabili dei servizi;
d) verificare, attraverso l’affidamento e il controllo dello stato di attuazione di indirizzi e obiettivi gestionali, anche in riferimento all’articolo 170, comma 6, la redazione del bilancio consolidato, l’efficacia, l’efficienza e l’economicità degli organismi gestionali esterni dell’ente;
e) garantire il controllo della qualità dei servizi erogati, sia direttamente, sia mediante organismi gestionali esterni, con l’impiego di metodologie dirette a misurare la soddisfazione degli utenti esterni e interni dell’ente.

Emerge, come già accennato nel precedente paragrafo, come sia stato ampliato il ventaglio tipologico dei controlli interni che, dai precedenti quattro, passano ai seguenti sei:

a.    Il controllo di regolarità amministrativa e contabile:
Questa forma di controllo, che riguarda tutti i Comuni indipendentemente dalla dimensione demografica, è quella tradizionalmente più presente nel mondo degli enti locali ed è volta a garantire che l’azione amministrativa si svolga nel rispetto dei principi di legittimità, regolarità e correttezza.
Il nuovo articolo 147-bis del TUEL (così come introdotto dall’art. 3 del D.L. 174/2012) prevede, nell’ambito di tale controllo, le seguenti fasi:

–    una fase preventiva, come evidenziato dal primo comma dell’art. 147-bis del Tuel, a mente del quale “Il controllo di regolarità amministrativa e contabile è assicurato, nella fase preventiva della formazione dell’atto, da ogni responsabile di servizio ed è esercitato attraverso il rilascio del parere di regolarità tecnica attestante la regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa. E’ inoltre effettuato dal responsabile del servizio finanziario ed è esercitato attraverso il rilascio del parere di regolarità contabile e del visto attestante la copertura finanziaria.
Alla luce di tale novella emerge in maniera chiara come il controllo preventivo si svolge in fase di rilascio:
o    del parere di regolarità tecnica, attestante la regolarità e correttezza dell’azione amministrativa, di competenza del responsabile del servizio interessato dal provvedimento adottando;
o    del visto attestante la copertura finanziaria e del parere di regolarità contabile, di competenza, del responsabile del servizio finanziario.
A tal fine, sempre nell’ambito del controllo preventivo, l’art. 3 del D.L. 174/2012 provvede a meglio specificare il contenuto del parere dei responsabili dei servizi, attraverso l’integrazione apportata all’art. 49 (Pareri dei responsabili dei servizi) del D.Lgs. 267/2000, secondo la cui novella:
Su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità tecnica, del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell’ente, del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile. I pareri sono inseriti nella deliberazione. 2. Nel caso in cui l’ente non abbia i responsabili dei servizi, il parere è espresso dal segretario dell’ente, in relazione alle sue competenze. 3. I soggetti di cui al comma 1 rispondono in via amministrativa e contabile dei pareri espressi. 4. Ove la Giunta o il Consiglio non intendano conformarsi ai pareri di cui al presente articolo, devono darne adeguata motivazione nel testo della deliberazione.»
Appare già chiaro dal tenore della novella normativa che il parere contabile si rende necessario ogni qualvolta vi siano riflessi su bilancio e/o sul patrimonio dell’ente, e quindi non più solo nel caso in cui l’atto deliberativo comporti impegno di spesa o diminuzione di entrata (come era previsto nella precedente formulazione della norma).
Non si può non constatare, e pertanto salutare con l’auspicio di una sua concreta applicazione, l’inserimento nella norma in esame di quanto richiesto più volte dalla giurisprudenza, ovvero che il discostamento dai pareri succitati debba essere opportunamente motivato dall’Organo deliberante.
Resta nel dubbio l’identità del soggetto cui compete stabilire se sia necessario o meno, nel caso concreto, il parere contabile. Nel dubbio questo soggetto potrebbe essere individuato in sede regolamentare.
In conclusione l’analisi del combinato disposto degli artt. 147-bis primo comma e 49 primo comma del TUEL porta a svolgere le seguenti considerazioni:
– il controllo contabile sembra essere un controllo esteso come per i pareri ex art. 49 del Tuel, a tutti gli atti che abbiano rilevanza diretta o indiretta su finanza e patrimonio.del TUEL;
– il controllo preventivo è riferito a tutti “gli atti”, dunque atti amministrativi “tipici”, a cominciare dalle determinazioni.

–    una fase successiva, svolta, secondo i principi della revisione aziendale, sotto la direzione del segretario comunale. Detta attività dovrà riguardare i seguenti atti:
– determinazioni comportanti impegno di spesa,
– atti di accertamento dell’entrata,
– atti di liquidazione della spesa,
– contratti ed altri atti amministrativi;
Con riferimento agli “altri atti amministrativi”, il tenore letterale sembrerebbe suggerire che il controllo successivo vada esercitato non solo sugli atti tipici indicati nella norma stessa ma anche su quelli ad esempio non legati a spese come permessi di costruire, licenze, permessi etc.
Gli atti da sottoporre a controllo successivo verranno scelti tramite una selezione casuale effettuata con motivate tecniche di campionamento. Le risultanze di quest’attività dovranno, con la periodicità prevista da ciascun ente nella propria autonomia regolamentare, essere trasmesse, a cura del segretario comunale, ai vari responsabili di servizio, ai revisori dei conti, agli organi di valutazione dei risultati dei dipendenti ed al Consiglio Comunale.
L’analisi della norma, partendo dal suo contenuto letterale, sembra suggerire l’opportunità di:
– imbastire un buon sistema di campionatura in grado di garantire un controllo successivo efficace;
– individuare puntualmente i soggetti in grado di adottare tecniche “motivate” di campionamento e di seguire correttamente i principi della revisione; a tal proposito si evidenzia come i revisori dei conti, ed in parte anche i responsabili dei servizi finanziari, possono rispondere a questi requisiti, tenendo conto del percorso di studi e formazione seguiti. In questo senso sarà possibile dare alla norma un contenuto non meramente formale ma una sua concreta applicazione, rispettandone il principio ispiratore.

–    La terza e ultima fase riguarda la comunicazione a soggetti terzi degli esiti del controllo per un controllo “diffuso”.
Più precisamente il nuovo art. 147-bis comma 3 prevede che “le risultanze del controllo … sono  trasmesse periodicamente, a cura del segretario, ai responsabili  dei  servizi, ai revisori dei conti e agli organi di valutazione dei risultati  dei dipendenti, come documenti utili per la valutazione, e  al  consiglio comunale”.
L’aspetto della trasmissione delle risultanze dell’attività svolta sotto la direzione del segretario comunale rappresenta un altro argomento da disciplinare accuratamente nel sopra menzionato regolamento dei controlli. Infatti appare opportuno che la periodicità di tale rendicontazione sia differenziata a seconda del soggetto destinatario cui è diretta.
Sotto questo aspetto non si può non sottolineare che i responsabili di servizio sicuramente necessitano di conoscere l’esito del controllo successivo con maggiore frequenza, al fine di poter correggere, per tempo, eventuali prassi amministrative o contabili non corrette.
Dall’altra parte, invece, vi è l’esigenza conoscitiva dei revisori dei conti, degli organi di valutazione dei risultati dei dipendenti e, infine, del Consiglio Comunale, che invece necessitano di comunicazioni progressivamente meno ravvicinate nel tempo.

Funzionale ad una piena attuazione dei suddetti controlli di regolarità risulta essere l’introduzione di un nuovo comma 2-bis nell’art. 109 del TUEL, secondo cui:
2-bis. L’incarico di responsabile del servizio finanziario di cui all’articolo 153, comma 4, può essere revocato esclusivamente in caso di gravi irregolarità riscontrate nell’esercizio delle funzioni assegnate. La revoca è disposta con Ordinanza del legale rappresentante dell’Ente, previo parere obbligatorio del Ministero dell’interno e del Ministero dell’economia e delle finanze – Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato»;
Sicuramente l’introduzione ad opera del suddetto comma del principio della inamovibilità del Responsabile finanziario comporta in prima battuta un incremento delle responsabilità di tale soggetto e della possibilità di poter operare con maggiore autonomia rispetto alla volontà politica.
Al tempo stesso fa emergere la necessità di introdurre maggiori garanzie cautelative per tale figura.
Restano irrisolti alcuni dubbi operativi per l’applicazione del principio della inamovibilità. Ad esempio nell’ipotesi di mancati rinnovi degli incarichi in occasione dell’inizio del mandato politico del nuovo Sindaco. Altra ipotesi non regolata è quella delle riorganizzazioni interne agli Enti, che inevitabilmente vi saranno in conseguenza dell’applicazione della normativa sulle Unioni di comuni, convenzioni tra enti e così via.
A sottolineare ulteriormente il potenziato ruolo del Responsabile Finanziario l’art. 3 introduce altresì un’integrazione al comma 4 dell’art. 153 del Tuel prevedendo che:
Il responsabile del servizio finanziario, di ragioneria o qualificazione corrispondente, è preposto alla verifica di veridicità delle previsioni di entrata e di compatibilità delle previsioni di spesa, avanzate dai vari servizi, da iscriversi nel bilancio annuale o pluriennale ed alla verifica periodica dello stato di accertamento delle entrate e di impegno delle spese e più in generale alla salvaguardia degli equilibri finanziari complessivi della gestione e dei vincoli di finanza pubblica. Nell’esercizio di tali funzioni il responsabile del servizio finanziario agisce in autonomia nei limiti di quanto disposto dai principi finanziari e contabili, dalle norme ordinamentali e dai vincoli di finanza pubblica e tenuto conto degli indirizzi della Ragioneria Generale dello Stato applicabili agli enti locali in materia di programmazione e gestione delle risorse pubbliche.
Va qui sottolineato come il visto di copertura finanziaria va apposto, da parte del Responsabile Finanziario, tenendo conto anche del rispetto del patto di stabilità e degli altri vincoli (ad esempio spese di personale, rappresentanza etc.).
Altra singolare novità viene introdotta con la previsione dell’efficacia rafforzata delle Circolari della Ragioneria Generale dello Stato, per le quali si potrà quindi discutere quanto alla loro collocazione nel sistema delle fonti  del diritto.

b.    Il controllo del permanere degli equilibri finanziari della gestione di competenza, della gestione residui e della gestione di cassa, anche ai fini della realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica determinati dal patto di stabilità interno:
Questa forma di controllo, disciplinata dall’art. 147-quinques del TUEL, costituisce una sottocategoria del controllo di regolarità ed interessa tutti gli enti locali dato che anche i piccoli Comuni, dal prossimo esercizio, saranno assoggettati ai vincoli derivanti dal patto di stabilità interno; viene effettuata sotto il coordinamento del responsabile del servizio finanziario e con il coinvolgimento attivo degli organi di governo dell’ente, del segretario, del direttore generale e dei responsabili di servizio nel rispetto delle norme disciplinanti il concorso degli enti locali al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica ed in attuazione dell’art. 81 della Costituzione (che ha introdotto – nella Carta Costituzionale – il principio del pareggio di bilancio).
La disciplina di questa forma di controllo dovrà essere contenuta nel regolamento di contabilità, attraverso la previsione dello svolgimento di una costante attività di coordinamento e vigilanza da parte del responsabile finanziario e l’effettuazione di ricognizioni periodiche degli equilibri finanziari, ricognizioni che potrebbero essere tradotte in altrettante deliberazioni della giunta comunale.
L’attività di controllo in esame non potrà prescindere, infine, dall’esame dell’andamento economico-finanziario degli organismi gestionali esterni all’ente, in quanto ciò potrebbe comportare ripercussioni sul bilancio finanziario comunale (nuovo art. 147-quinquies comma 3 TUEL).

c.    Il controllo strategico:

Si può affermare senza timore di smentite che il controllo strategico ha avuto uno scarso successo nell’ambito degli enti locali finendo per essere svolta, spesso, in modo blando e superficiale.
Tale forma di controllo è finalizzato:
– in una prima fase, a verificare l’impatto sul territorio amministrato dell’attività di pianificazione e programmazione predisposta dall’ente e se essa può effettivamente produrre i risultati auspicati;
– in una fase successiva, costituisce un importante supporto al fine di valutare come la struttura burocratica, concretamente, attua piani, programmi e gli altri strumenti di indirizzo politico emanati.
Il D.L. 174/2012 cerca di ridare nuovo slancio a tale controllo e ne ribadisce l’obbligatorietà in capo a tutti i Comuni, a prescindere dalla dimensione demografica.
Oggetto del controllo strategico è il confronto tra gli obiettivi rinvenibili, essenzialmente, nella relazione previsionale e programmatica ed i risultati conseguiti dalla struttura, nonché l’analisi delle ragioni che hanno comportato eventuali scostamenti.
Il nuovo art. 147-ter del TUEL disciplina il controllo strategico e, riferendosi ai soli i Comuni superiori ai 10.000 abitanti, afferma che essi sono tenuti, nell’ambito della propria autonomia organizzativa ed anche in forma associata, a disciplinare metodologie di controllo finalizzate alla rilevazione:
–    dei risultati conseguiti rispetto agli obiettivi predefiniti;
–    degli aspetti economico-finanziari connessi ai risultati ottenuti;
–    dei tempi di realizzazione rispetto alle previsioni;
–    delle procedure operative attuate confrontate con i progetti elaborati;
–    della qualità dei servizi erogati;
–    del grado di soddisfazione della domanda espressa;
–    degli aspetti socio-economici.
Anche in questo caso, l’unità preposta allo svolgimento dell’attività di controllo deve elaborare dei rapporti periodici da presentare a Giunta e Consiglio Comunale affinché possano, per tempo, adottare le necessarie deliberazioni circa la ricognizione dello stato di attuazione dei programmi. La principale novità consiste, infatti, nell’aver previsto il controllo strategico non tanto come un’attività fine a se stessa o di mero supporto della politica ma, piuttosto, come un’attività propedeutica all’adempimento di cui all’art. 193 comma secondo del TUEL; da qui la necessità che le modalità di trasmissione dei rapporti periodici ai sopramenzionati organi dell’ente siano disciplinate nel regolamento di contabilità.
Resta l’interrogativo sull’applicazione del controllo strategico nei comuni inferiori ai 10.000 abitanti. In base all’attuale panorama normativo anche i piccoli Comuni sono da ritenersi sottoposti al controllo strategico e, quindi, allo svolgimento dell’attività di valutazione dell’adeguatezza delle scelte compiute in sede di attuazione di piani e programmi da parte della struttura; peraltro, vista la sostanziale mancanza di una disciplina esplicita loro dedicata, è da ritenere che possano effettuare il controllo strategico con modalità semplificate.

d.    Il controllo di gestione:
Si tratta di quel tipo di controllo interno, obbligatoria per tutti i Comuni a prescindere dalla dimensione demografica, teso a verificare l’efficacia, l’efficienza e l’economicità dell’azione amministrativa. Fondamentale, per il corretto funzionamento del controllo di gestione, è che l’impostazione dell’attività di controllo sia preceduta da una precisa definizione degli obiettivi gestionali, di breve periodo, affidati ai responsabili di servizio con il piano esecutivo di gestione, o con il piano dettagliato degli obiettivi e che venga impostato un buon sistema informativo da cui ricavare le informazioni ed i dati necessari.
La disciplina del controllo di gestione è ancora rinvenibile negli artt. 196 e seguenti del TUEL e non vi sono sostanziali modifiche apportare dal D.L. n. 174/2012; l’unica novità, solo formale, è che il nuovo articolo 147 del TUEL esplicita diversamente, ed in modo più corretto, l’oggetto di tale tipologia di controllo, ovvero non solo la verifica del “rapporto tra costi e risultati” ma, piuttosto, quello “tra obiettivi e azioni realizzate, nonché tra risorse impiegate e risultati”.
Anche la disciplina del controllo di gestione e la sua organizzazione dovrà essere tradotta nel regolamento disciplinante il sistema dei controlli interni e raccordata con quanto già previsto nel regolamento di contabilità di ciascun ente.

e.    Il controllo sulle società partecipate:
I Comuni superiori ai 10.000 abitanti, a mente dell’art. 147-quater del TUEL, secondo la propria autonomia organizzativa disciplinano, con regolamento, un sistema di controlli sulla società partecipate svolto direttamente dalle strutture dell’ente in cui sono inserite dette partecipazioni sociali.
Detto regolamento deve disciplinare:
•    un adeguato sistema informativo finalizzato a rilevare:
– i rapporti finanziari tra ente e società,
– la situazione contabile, gestionale ed organizzativa delle società,
– i contratti di servizio che devono, tra l’altro, in forza del nuovo comma 3bis introdotto all’art. 243 del TUEL, vedere l’introduzione di apposite clausole volte a prevedere, ove si verifichino condizioni di deficitarietà strutturale, la riduzione delle spese di personale delle società partecipate anche in applicazione di quanto previsto dal comma 2bis dell’art. 18 del D.L. n. 112/2008,
– la qualità dei servizi attesi,
– il rispetto delle norme di legge sui vincoli di finanza pubblica;
•    la definizione, da parte dell’amministrazione, degli obiettivi gestionali a cui deve tendere ciascuna società partecipata, secondo standard qualitativi e quantitativi predeterminati, nell’ambito della relazione previsionale e programmatica.
L’ente locale è tenuto al monitoraggio periodico sull’andamento delle partecipate, anche e soprattutto al fine di identificare, per tempo, gli eventuali interventi correttivi utili a ridurre squilibri economico finanziari rilevanti per il bilancio comunale.
I risultati complessivi della gestione dell’ente e delle partecipate sono rilevati mediante bilancio consolidato, secondo la competenza economica.
Come è agevole riscontrare da quanto abbiamo scritto, il controllo sulle partecipate è un controllo multidisciplinare, che riguarda sia aspetti di regolarità amministrativa e contabile (con il che si deve intendere anche di verifica dell’andamento economico finanziario della società al fine di rilevare possibili ripercussioni sull’ente locale) che aspetti tipici del controllo di gestione e del controllo strategico.
I Comuni inferiori ai 10.000 abitanti, come sopra enunciato, non sono tenuti a questa forma di controllo.
Tuttavia è doveroso ricordare che, a mente del terzo comma del nuovo art. 147-quinquies del TUEL, essi sono tenuti ad effettuare il controllo sugli equilibri finanziari, il quale implica “anche la valutazione degli effetti che si determinano per il bilancio finanziario dell’ente in relazione all’andamento economico-finanziario degli organismi gestionali esterni”. Al di la del fatto che è difficile comprendere se con organismi gestionali esterni si intendono anche le società, appare difficile immaginare che proprio queste ultime siano totalmente escluse dall’attività di controllo dell’ente locale socio, almeno dal punto di vista della valutazione degli effetti che il loro andamento gestionale può comportare per il bilancio finanziario dell’ente.
Tale considerazione conseguentemente impone un minimo di “consolidamento” dei bilanci anche per i Comuni sotto i 10.000 abitanti.

f.    Il controllo di qualità sui servizi erogati:
Si tratta di una tipologia di controllo finalizzata a rilevare il grado di soddisfazione degli utenti, interni ed esterni all’ente, che fruiscono dei servizi erogati dal Comune e dai suoi organismi gestionali esterni.
L’attività in questione deve essere disciplinata in apposito regolamento nel quale devono essere identificati i soggetti deputati al relativo svolgimento, interni od esterni all’organizzazione, le modalità di rilevazione e le metodologie adottate per la stessa.
Anche questa forma di controllo, così come la precedente, riguarda solo i Comuni superiori ai 10.000 abitanti; peraltro, occorre ricordare che il controllo di gestione ha sempre avuto per oggetto anche la qualità dei servizi erogati e che, a mente dell’art. 147 ter del TUEL, il controllo strategico, tra l’altro, è rivolto alla rilevazione della qualità dei servizi erogati.

Il controllo sulla gestione degli enti locali affidato alla Corte di Conti

Trattando di controlli interni non si può non fare un accenno al nuovo art. 148 TUEL in materia di controllo sulla gestione degli enti locali affidato alla Corte dei Conti; questa norma prevede, tra l’altro, che le sezioni regionali della Corte verificano, semestralmente, il funzionamento dei controlli interni adottati al fine del rispetto delle regole contabili e del pareggio di bilancio di ciascun ente locale.
Per l’effettuazione dell’attività di verifica semestrale le Corti possono avvalersi anche del Corpo della Guardia di finanza o dei servizi ispettivi del Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato previsti dall’art. 14 comma 1 lett. d) della legge n. 196/2009.
La stessa norma impone, ai sindaci dei Comuni superiori ai 10.000 abitanti, di trasmettere alle rispettive sezioni regionali di controllo della Corte, tramite il segretario comunale o il direttore generale e con cadenza semestrale, un referto sulla regolarità della gestione e sull’efficacia ed adeguatezza del sistema dei controlli interni adottato, referto da inviare anche al presidente del consiglio comunale.
In caso di rilevata assenza del sistema dei controlli interni, o di sua inadeguatezza, le sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti irrogano, agli amministratori responsabili, una sanzione pecuniaria pari ad un minimo di cinque e fino ad un massimo di venti volte la retribuzione mensile lorda dovuta al momento di commissione della violazione.

Il controllo esercitato dall’Organo di revisione contabile dell’ente

Il rafforzamento del sistema dei controlli interni in generale non poteva non lambire anche l’importante ruolo di monitoraggio svolto dal Revisore contabile dell’Ente. E per questa ragione viene in alcuni punti rivisto e integrato l’art. 239 del Tuel sulle funzioni dell’organo di Revisione.
In particolare viene allargata la gamma degli atti che necessitano “obbligatoriamente” del parere dell’organo di revisione, prevedendo ex novo un’apposita lett. b) all’art. 239, in cui vengono codificati tali casi.
Pertanto il revisore deve rilasciare il proprio parere sui seguenti documenti:
1) strumenti di programmazione economico-finanziaria;
2) proposta di bilancio di previsione verifica degli equilibri e variazioni di bilancio;
3) modalità di gestione dei servizi e proposte di costituzione o di partecipazione ad organismi esterni;
4) proposte di ricorso all’indebitamento;
5) proposte di utilizzo di strumenti di finanza innovativa, nel rispetto della disciplina statale vigente in materia;
6) proposte di riconoscimento di debiti fuori bilancio e transazioni;
7) proposte di regolamento di contabilità, economato-provveditorato, patrimonio e di applicazione dei tributi locali;

I pareri resi dal Revisore sul bilancio e relative variazioni devono essere espressi in termini di congruità, coerenza e attendibilità contabile delle previsioni e dei programmi e progetti. Nei pareri sono suggerite all’Organo consiliare le misure atte ad assicurare l’attendibilità delle impostazioni. In questo caso l’organo consiliare è tenuto ad adottare i provvedimenti conseguenti o a motivare adeguatamente la mancata adozione delle misure proposte dall’organo di revisione.
Al revisore, inoltre, vanno inviati altresì i rilievi delle sezioni regionali della Corte dei Conti

3.    In particolare: le criticità del ruolo del segretario comunale in seguito alla riforme introdotte dai controlli successivi (D.L. 174/2012) e dal D.D.L. anticorruzione.

Il marcato potenziamento dei compiti di controllo successivo assegnati ai segretari comunali, come emerge da quanto sopra illustrato, è una delle novità di maggiore rilievo contenute nel D.L. 174/2012.
Il decreto responsabilizza direttamente i segretari nella direzione del controllo di regolarità amministrativa e contabile nella fase successiva allo svolgimento della attività amministrativa.
Tale controllo si deve dirigere, come accennato, sulle determinazioni, sugli impegni di spesa, sui contratti e non sulle deliberazioni, visto che nel procedimento di loro formazione il segretario interviene già in maniera diretta partecipando alle riunioni dei consigli e delle giunte e avendo in quelle sedi il potere e il dovere di evidenziare i profili di illegittimità
Il Segretario viene inoltre responsabilizzato personalmente a garantire la trasmissione delle risultanze di questa forma di controllo interno agli organi di governo, ai dirigenti, ai revisori dei conti e agli organismi di valutazione. Nelle province e nei comuni con popolazione superiore a 10mila abitanti, i direttori generali o i segretari sono altresì impegnati a trasmettere, per conto del vertice politico dell’ente, con cadenza semestrale alla Corte dei conti il referto della regolarità della gestione e dell’efficacia e adeguatezza dei sistemi di controllo interno, informando anche il Presidente del Consiglio comunale o provinciale.
Una seconda importante scelta contenuta nel D.L. è quella di imporre alle singole amministrazioni l’obbligo di garantire comunque uno ruolo specifico del segretario nella «organizzazione del sistema dei controlli interni».
Di sicuro rilievo è poi la previsione nel D.L. citato dell’introduzione del vincolo per cui i segretari sono direttamente coinvolti, anche se non con un ruolo di direzione, nel controllo degli equilibri finanziari. Il che sottolinea la crescente funzione di garanzia che il segretario dovrà svolgere in tale forma di controllo interno.
Nel rispetto di questi principi, le singole amministrazioni avranno perciò un’ampia autonomia regolamentare, ad esempio in ordine alla scelta delle modalità con cui individuare gli atti da controllare e con cui supportare il ruolo del segretario.
Tuttavia la ridefinizione delle funzioni del Segretario compiuta dal legislatore nel citato D.L. palesa alcuni punti deboli legati prevalentemente al ruolo riduttivo che in questo modo viene attribuito al segretario, presentando le seguenti criticità:
1.    Le funzioni del segretario, pur essendo improntate a principi di controllo e garanzia come appena ribadito dalla riforma introdotta col D.L. 174/2012, non possono tuttavia essere ricondotte ad una semplice “direzione del controllo di regolarità successivo a campione”. Peraltro ad ulteriormente rimarcare le discrasie del sistema si evidenzia come gli esiti di tale controllo, secondo quanto statuito dal predetto decreto, debbano essere semplicemente trasmessi ai Responsabili, senza far riferimento ad alcun potere di direttiva, quasi come non spettasse invece proprio al Segretario dare indirizzi e adottare misure perché vengano efficacemente rimosse eventuali problematiche emerse dal controllo. Non serve qui dilungarsi sul ruolo centrale che da sempre tale figura  ha rivestito all’interno degli enti locali in termini non solo di coordinamento e sovrintendenza, ma anche di gestione ordinaria, circostanza questa che evidentemente consiglia vivamente il ripristino dell’integrità, imparzialità e indipendenza di tale figura.

2.    Di non poco momento appare inoltre essere, nell’ambito dei controlli successivi, il tema del conflitto “controllore/controllato” (nemo iudex in re sua) rispetto alla concreta attuazione della riforma negli enti di minore dimensione. E’ noto come spesso nei piccoli Comuni il segretario (figura preposta al controllo) spesso è nominato anche Responsabile di servizio, venendo così a coincidere con il soggetto che assume l’iniziativa di determinati atti se non addirittura l’autore stesso della loro materiale redazione (e quindi soggetto controllato).

Pertanto la recente riforma del sistema dei controlli potrebbe non determinare l’impatto voluto e auspicato se non venisse completata con un’altra riforma, ugualmente necessaria e sufficiente a garantire la tenuta del sistema complessivamente delineato, ossia quella legata al ruolo del segretario e ai meccanismi della sua nomina.
La strada sembra quasi obbligata se muoviamo, peraltro, dal dato testuale del secondo comma del nuovo art. 147-bis del TUEL, così come introdotto dal D.L. 174/2012, che così recita:
Il controllo di regolarità amministrativa e contabile è inoltre  assicurato, nella fase successiva, secondo princìpi generali di  revisione aziendale e modalità definite nell’ambito dell’autonomia organizzativa dell’ente, sotto la direzione del segretario, in base alla normativa vigente”.
Il rimando operato dalla norma ai principi di revisione aziendale viene inteso in senso generale e a tal fine si rammenta che la materia della revisione contempla alcuni principi “etici” fondamentali, tra cui l’indipendenza del revisore.
Indipendenza che si caratterizza per essere non solo formale, ovvero come insussistenza di condizioni di incompatibilità legale, ma anche sostanziale. Quest’ultima, a sua volta, da intendersi:
–    In senso soggettivo, come atteggiamento mentale indipendente;
–    In senso oggettivo, come condizione obiettiva di essere riconosciuto indipendente dai terzi.
Quindi se requisito fondamentale per poter svolgere il controllo di regolarità amministrativo-contabile è la condizione di terzietà del controllore, vetusto appare ormai il sistema di scelta del segretario da parte degli amministratori locali fondato sullo spoil system, vieppiù se si tiene in debita considerazione la recentissima  approvazione in Parlamento del D.D.L. anticorruzione.
In questo provvedimento legislativo compare la norma secondo cui:
l’organo di indirizzo politico individua, di norma tra i dirigenti amministrativi di ruolo di prima fascia in servizio, il responsabile della prevenzione della corruzione. Negli enti locali, il responsabile della prevenzione della corruzione è individuato, di norma, nel segretario, salva diversa e motivata determinazione”.
Vi è quindi una scelta complessiva per tutta la Pubblica Amministrazione, e cioè che siano le figure dirigenziali apicali, nell’ambito del loro generale compito di alta direzione, ad impegnarsi direttamente nell’efficace contrasto di ogni forma di illegalità e corruzione a danno dei cittadini e della credibilità delle Istituzioni Pubbliche.
La peculiarità dell’organizzazione degli enti locali, ove il Segretario è la figura dirigenziale di vertice, rende tuttavia necessario che l’esercizio di tale funzione si inserisca armonicamente nella generale funzione di sovrintendenza allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e coordinamento complessivo dell’attività gestionale, e di attuazione degli indirizzi politici, mediante le quali il Segretario è in grado di assicurare il complessivo buon andamento dell’amministrazione pubblica locale.
Se nelle Amministrazioni dello Stato di maggiori dimensioni, infatti, può individuarsi un dirigente generale quale deputato esclusivamente a tale attività anche in via esclusiva, mentre altri dirigenti, pure essi generali, possono attendere alle funzioni di direzione effettiva dell’attività amministrativa, nell’ente locale – essendo il Segretario la figura dirigenziale apicale – l’attribuzione di tale responsabilità deve essere disciplinata in modo che questi possa svolgerla senza che ne risulti compromessa la più generale attività di direzione complessiva dell’ente ad esso già assegnata dall’ordinamento.
Questa considerazione, insieme a quelle già svolte in precedenza con riferimento ai controlli successivi, lascerebbe prefigurare la possibilità di un presunto ritorno del Segretario ad una mera e preminente funzione di controllo.
Proprio per le stesse motivazioni già svolte in precedenza, l’assegnazione in questa materia di un ruolo incisivo al Segretario va quindi resa coerente con la generale funzione di direzione complessiva dell’attività amministrativa, e andrebbe intesa non tanto come un ritorno ad una funzione di mero controllo da parte del Segretario, quanto come espressione della scelta di individuare nella funzione di presidio dei piani e delle misure di contrasto alla corruzione una componente dell’attività di direzione generale dell’ente locale in capo al Segretario.
Andrebbe interpretata in questo senso la facoltà consentita all’organo di governo di individuare previa “diversa e motivata determinazione” una differente figura. Tale possibilità sembra ad esempio riferibile agli enti di maggiore dimensione, ove le funzioni di massima direzione possono essere utilmente articolate, e dove gli enti locali potranno individuare altre figure, quali ad esempio il Vice Segretario Generale.
Questa previsione potrebbe essere ulteriormente specificata e valorizzata nel senso innanzi indicato, consentendo margini di autonomia nella ripartizione delle funzioni e delle responsabilità fra il Segretario e gli altri dirigenti dell’ente, pur nel rigoroso rispetto dell’obbligo di concreto e puntuale esercizio di tutte le funzioni previste dalla legge.
Proseguendo con le novità introdotte dal D.D.L. anticorruzione, si prevede altresì che i dirigenti, nelle amministrazioni statali, e i segretari comunali, negli enti locali, vengano individuati quali veri e propri “commissari della trasparenza”, tenuti sotto la propria responsabilità:
–    Alla redazione di Piani anticorruzione;
–    all’obbligo di denuncia di fenomeni di corruzione riscontrati all’interno dell’ente.
Sotto questo aspetto ogni amministrazione sarà tenuta a fare una valutazione specifica dei rischi di corruzione attraverso la mappatura dei procedimenti e ad adottare misure organizzative conseguenti.
Da ultimo si registrano nel ddl anticorruzione, appena approvato, norme abbastanza discutibili come quella che prevede l’insorgere di una responsabilità aggiuntiva, solidale e di stampo oggettivo in capo al responsabile antiprevenzione per il caso di illeciti commessi da altri soggetti. Quindi nel caso di riscontrati reati di corruzione, l’approvato ddl addebita pesanti responsabilità in capo al segretario per non aver ben vigilato su fatti corruttivi comunque ad esso estranei. Di conseguenza se commette il reato un dipendente, paga anche il responsabile antiprevenzione.
Si tratta di norme ali limiti della costituzionalità in grado potenzialmente di infrangere persino un principio indiscusso come quello di personalità della responsabilità penale.
Alla luce di tali novità emerge con tutta evidenza che l’attività di responsabile della prevenzione deve necessariamente prevedere una funzione totalmente autonoma, fino all’indipendenza tanto dalla politica quanto dagli altri funzionari e dirigenti, del soggetto ad essa deputato. Un’autorità terza, dotata di poteri di controllo preventivi e penetranti.


4.    Gli effetti della riforma sullo status del segretario comunale. Conclusioni.

Di conseguenza, il risultato combinato di queste ultime novità legislative (la riforma dei controlli prevista dal D.L. 174/2012 e quella introdotta con l’approvazione del ddl anticorruzione) non potrà che determinare effetti a cascata anche sullo status dei segretari comunali.
In ultima analisi sembrerebbe ormai insanabile il contrasto tra una figura che si vorrebbe controllore vigile e pronto alla denuncia di fenomeni di corruzione all’interno degli enti locali e, dall’altra parte, il sistema di nomina fiduciaria del segretario da parte del sindaco, fondata sullo spoil system.
Un sistema di nomina che ha mostrato nel tempo le sua falle fino ad arrivare a pronunce di incostituzionalità, come ripetutamente accertato dalla Consulta.
Del resto, stando all’esempio, non si comprende il motivo per cui la regola della inamovibilità del responsabile finanziario, sopra illustrata, non debba essere estesa, per ragioni equivalenti, anche al segretario comunale, rendendolo indipendente dalla politica.
E’ evidente che la precitata norma che rafforza il ruolo del Responsabile finanziario è dettata dalla preoccupazione che questi, chiamato a svolgere funzioni di controllo fondamentali non tanto per il controllo di regolarità amministrativa e contabile quanto, soprattutto, per gli equilibri finanziari, possa essere vittima di uno spoil system immotivato o, anzi, motivato dalla circostanza di non favorire manovre “spericolate”.
In conclusione abbastanza sentita è l’esigenza di rafforzare le garanzie di indipendenza e stabilità del segretario affinchè questi possa svolgere efficacemente funzioni di controllo e anticorruzione, attraverso un superamento dello spoil system.
Il tutto contornato dalla necessità di differenziare le attribuzioni di controllo e garanzia da quelle che sono più intimamente collegate alla gestione.
Tuttavia l’ipotesi di recente ventilata dal Ministro Cancellieri, in occasione dell’Assemblea Anci, di coniugare fiduciarietà delle nomine ed autonomia dei nominati attraverso uno “spoil system meritocratico” in grado di ancorare la nomina a criteri dettagliati di verifica della professionalità effettivamente detenuta, non sembra offrire tutte quelle risposte a una domanda di revisione ab imis dello status dei segretari comunali.
Laddove non si procedesse a un radicale restyling dello status del segretario potrebbe insinuarsi il legittimo dubbio che le leggi sul rafforzamento dei controlli e sull’anticorruzione contengano disposizioni neogattopardesche poste in essere allo scopo di dimostrare in qualche modo agli interlocutori istituzionali europei e internazionali che l’Italia si è dotata di specifiche norme contro specifici reati che penalizzano l’economia e l’efficienza della pubblica amministrazione, prive in realtà di concreta capacità di cambiare realmente le cose.
Allo stesso tempo occorre evitare il pericolo di devolvere in maniera massiccia poteri di controllo ad un organo giurisdizionale (sia pure attraverso le sue sezioni di controllo) come è la Corte dei Conti.
Una tale corposa devoluzione dei controlli alla magistratura contabile potrebbe comportare i seguenti rischi:
–    la possibilità di cadere nell’errore espresso dal brocardo “summum ius summa iniuria”. Il corto circuito giurisdizione/amministrazione va evitato già a livello culturale. Una monocultura “giudiziaria”, oltre a non offrire grandi prospettive di sviluppo e a condannare ad un esasperato formalismo giuridico, potrebbe infliggere un vulnus, se non immediato e formale almeno in astratto, al classico principio di separazione dei poteri (legislativo, amministrativo, giudiziario) su cui si fonda da secoli lo stato di diritto occidentale;
–    considerato che oggetto dei controlli della Corte saranno solo gli esiti dei sistemi di controllo, è plausibile che singoli atti e specifiche scelte produttive di illegittimità e danni sfuggano alle maglie sin troppo larghe di controlli. Tuttavia va considerato che la sanzione per il mancato invio della documentazione prevista o per l’inadeguatezza appare essere piuttosto severa. Come pure vi è la possibilità concreta che siano attivati negli enti locali sistemi di controllo solo formalmente ineccepibili, allo scopo di passare indenni il vaglio semestrale della magistratura contabile, senza avere, tuttavia, una concreta efficacia deterrente;
–    individuare nella Corte dei conti l’organo di controllo esterno appare un errore di prospettiva. Il controllo di regolarità dovrebbe essere preventivo e finalizzato all’attribuzione di efficacia al provvedimento. Rappresenta, quindi, una fase del procedimento amministrativo e deve essere svolto da un organo amministrativo; le amministrazioni, infatti, devono poter ricorrere avverso gli esiti del controllo, cosa che risulta impossibile contro le pronunce della magistratura amministrativa, la quale potrebbe essere chiamata a giudicare sui ricorsi come giudice di secondo grado.
Occorrerebbe a tal fine costituire un vero e proprio organo di controllo amministrativo, indipendente e terzo.
Per tali ragioni, una soluzione in grado di dribblare tali rischi ed evitare  le potenziali distorsioni ed elusioni normative potrebbe essere proprio quella di “estrarre” la figura dei segretari comunali dalle stesse strutture organizzative degli enti locali affinché, costituendoli in pool o team autonomi, operanti in comprensori ampi, magari alle dipendenze dirette delle Prefetture, essi possano svolgere una efficace azione di controllo collaborativo e preventivo.
Tale prospettiva consentirebbe al tempo stesso agli enti di minori dimensioni di far fronte al grosso problema legato ai costi elevati di ingaggio di un segretario comunale e di riflesso di porre un freno al fenomeno di selvaggio convenzionamento tra enti, con tutti gli effetti deleteri che esso comporta.

* Segretario Comunale della convenzione di Segreteria dei Comuni di Sorico – Gera Lario – Mantello

Telefonia cellulare. La Corte di Cassazione conferma che sussiste una probabilità qualificata di un ruolo almeno concausale dell’esposizione prolungata alle radiofrequenze nella genesi di alcune neoplasie ed afferma essere logico ritenere più attendibili

 

Telefonia cellulare. La Corte di Cassazione conferma che sussiste una probabilità qualificata di un ruolo almeno concausale dell’esposizione prolungata alle radiofrequenze nella genesi di alcune neoplasie ed afferma essere logico ritenere più attendibili gli studi scientifici indipendenti non finanziati dai gestori della telefonia


MATTEO CERUTI*

Davvero storica si può definire la recente sentenza della Corte di Cassazione – Sezione lavoro (Presidente La Terza e Relatore Bandini) n. 17438 emessa il 3 ottobre 2012 e depositata il 12 ottobre scorso che ha confermato la decisione della Corte d’appello di Brescia del 10 – 22.12.2009 che condannò l’Inail a corrispondere ad un lavoratore una rendita per malattia professionale (con un’invalidità all’80%) per aver contratto, in conseguenza dell’uso lavorativo di telefoni cordless e cellulari all’orecchio sinistro, una grave patologia tumorale al nervo cranico trigemino.

Il tema è quello delle cosiddette malattie professionali cosiddette “non tabellate”.

A partire dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 179 del 1988 si deve ritenere “malattia professionale” non soltanto quella compresa nelle tabelle allegate al D.P.R. n.1124 del 1965 (con le successive modifiche ed integrazioni), ma ogni malattia di cui sia comunque provata la causa di lavoro, con l’introduzione anche in Italia del c.d. “sistema misto”. La tutela antinfortunistica del lavoratore si estende, pertanto, alle ipotesi di cd. rischio specifico improprio, definito come quello che, pur non insito nell’atto materiale della prestazione lavorativa, riguarda situazioni ed attività strettamente connesse con la prestazione stessa (cfr., ex multis, Cass. 12652/1998, Cass. 10298/2000, Cass. 3363/2001, Cass. 9556/2001, Cass. 1944/2002, Cass. 6894/2002, Cass. 5841/2002, Cass. 7633/2004, Cass. 5354/2002, Cass. 16417/2005, Cass. 10317/2006, Cass. 27829/2009). Con la pronuncia n. 3476/1992 le Sezioni Unite della Cassazione hanno inoltre chiarito che la nozione di rischio ambientale comporta la tutela del lavoro in sé e per sé considerato e non soltanto di quello reso presso le macchine, essendo la pericolosità data dall’ambiente di lavoro. 

Ad ulteriore chiarimento dell’innovazione apportata dalla  decisione della Corte Costituzionale, con sentenza n. 1919 del 9 marzo 1990 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno, poi, affermato che la distinzione tra le malattie comprese nelle suddette tabelle e quelle non comprese non rileva sul piano indennitario, ma esclusivamente sul quello probatorio. In particolare sotto quest’ultimo profilo la differenza consiste nel fatto che per le malattie tabellate opera a favore del lavoratore il principio della “presunzione legale d’origine”, mentre per le malattie diverse da quelle elencate in tabella, ovvero riconducibili a lavorazioni diverse da quelle descritte nelle tabelle stesse, il lavoratore è tenuto a fornire la prova degli elementi del rapporto causale facendo riferimento alle mansioni svolte, alle condizioni di lavoro e alla durata e intensità dell’esposizione a rischio, ossia all’efficienza quantitativa e qualitativa delle condizioni patogene, alla loro frequenza ed all’assenza di cause non connesse al rischio professionale specifico. Si è quindi precisato che  in caso di malattia professionale non tabellata, la prova della causa di lavoro, che grava sul lavoratore, deve essere valutata in termini di “ragionevole certezza”, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità (cfr. ad es. Cass. 18270/2010, Cass. 14308/2006, Cass. n. 12559/2006, Cass. 11128/2004).

Facendo applicazione dei suesposti approdi della Cassazione, la Corte d’Appello di Brescia, con la sentenza 10-22 dicembre 2009 n. 514, condannava l’Inail a corrispondere una rendita per malattia professionale al dipendente di una società che, a seguito di uso intenso del telefono cellulare e del telefono cordless, vale a dire a seguito di esposizione a radiazioni non ionizzanti ad alta frequenza (o radiofrequenza),  aveva contratto una grave patologia.

La condanna dell’Inail si basava sull’individuazione di un nesso di causalità tra l’esposizione alle radiazioni emesse dai telefoni utilizzati per svolgere l’attività lavorativa e l’insorgere della patologia accertata dalla CTU che aveva evidenziato che per un periodo di 12 anni il dipendente dell’impresa aveva utilizzato il telefonino per 5/6 ore al giorno per svolgere la sua attività all’interno della società per cui lavorava, che l’esposizione all’apparecchio avveniva sempre sulla parte sinistra del volto, che proprio su questo punto del corpo si era sviluppato la patologia degenerativa e che affidabili studi epidemiologici avevano dimostrato l’esistenza del nesso causale tra l’esposizione alle onde elettromagnetiche e l’insorgenza della patologia.

Tale ultima pronuncia dei Giudici bresciani, che aveva sollevato un vivace dibattito tanto in ambito giuridico che epidemiologico, veniva impugnata dall’Inail dinanzi alla Corte di Cassazione.

Nella recente decisione in esame la Sezione lavoro del Supremo Collegio ha dunque respinto il ricorso proposto dall’Istituto ribadendo la corretta applicazione da parte della Corte territoriale dei sopra ricordati principi enunciati dalla giurisprudenza in materia di “malattia non tabellate”.

A tal proposito interessante appare in primo luogo il richiamo della Cassazione alla necessità che, in relazione alla prova della ragionevole certezza dell’origine professionale della malattia, il giudice deve non solo consentire all’assicurato di esperire i mezzi di prova ammissibili e dedotti, “ma deve altresì valutare le conclusioni probabilistiche del consulente tecnico in tema di nesso causale, facendo ricorso ad ogni iniziativa ex officio diretta ad acquisire ulteriori elementi in relazione all’entità ed all’esposizione del lavoratore ai fattori di rischio”.

Ma la sentenza della Corte d’appello di Brescia è stata ritenuta immune anche da vizi della motivazione.

A tal proposito la Cassazione chiarisce che la contestazione contenuta nel ricorso fondata sul concetto di “nozione comune” senza precisare le fonti scientifiche in base alle quali avrebbero dovuto ritenersi errate le affermazioni rese dal CTU e seguite dalla sentenza impugnata, in ordine all’efficienza patogenetica, quanto meno probabile, delle onde elettromagnetiche a radiofrequenza per la specifica malattia, risulta inammissibile in quanto si finirebbe per chiedere al Giudice di legittimità una valutazione di merito.

Ma il profilo più rilevante è che la Cassazione non rilevi alcun preteso vizio di mancanza di consequenzialità logica e motivazionale neppure nella circostanza che la sentenza impugnata, seguendo le osservazioni del CTU, ha ritenuto di dover attribuire particolare rilievo a studi epidemiologici diversi da quelli considerati dalla ICNIRP (International Commission on Non-lonizing Radiation Protection), affermando significativamente che la “maggiore attendibilità proprio di tali studi, stante la loro posizione di indipendenza, ossia per non essere stati cofinanziati, a differenza di altri, anche dalle stesse ditte produttrici di cellulari, costituisce ulteriore e non illogico fondamento delle conclusioni accolte”.

Insomma l’indipendenza economica degli studi costituisce garanzia di imparzialità ed autorevolezza degli stessi lavori scientifici: si tratta di un principio che i Giudici di merito non potranno d’ora in poi non considerare.

* Avvocato in Rovigo

 

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 3 – 12 ottobre 2012, n. 17438

Presidente La Terza – Relatore Bandini

Svolgimento del processo
Con sentenza del 10 – 22.12.2009 la Corte d’appello di Brescia, in riforma della pronuncia di prime cure, condannò l’Inail a corrispondere a M. I. la rendita per malattia professionale prevista per l’invalidità all’80%.
Il M. aveva agito in giudizio deducendo che, in conseguenza dell’uso lavorativo protratto, per dodici anni e per 5-6 ore al giorno, di telefoni cordless e cellulari all’orecchio sinistro aveva contratto una grave patologia tumorale; le prove acquisite e le indagini medico legali avevano permesso di accertare, nel corso del giudizio, la sussistenza dei presupposti fattuali dedotti, in ordine sia all’uso nei termini indicati dei telefoni ne! corso dell’attività lavorativa, sia all’effettiva insorgenza di un “neurinoma del Ganglio di Gasser” (tumore che colpisce i nervi cranici, in particolare il nervo acustico e, più raramente, come nel caso di specie, il nervo cranico trigemino), con esiti assolutamente severi nonostante le terapie, anche di natura chirurgica, praticate; sulla ricorrenza di tali elementi fattuali, come evidenziato nella sentenza impugnata, non erano state svolte contestazioni in sede di appello, incentrandosi la questione devoluta al Giudice del gravame sul nesso causale tra l’uso dei telefoni e l’insorgenza della patologia.
La Corte territoriale, rinnovata la consulenza medico legale, ritenne dì dover seguire le conclusioni a cui era pervenuto il CTU nominato in grado d’appello, osservando in particolare quanto segue:
– i telefoni mobili (cordless) e i telefoni cellulari funzionano attraverso onde elettromagnetiche e, secondo il CTU, “In letteratura gli studi sui tumori cerebrali per quanto riguarda il neurinoma considerano il tumore con localizzazione al nervo acustico che è il più frequente. Trattandosi del medesimo istotipo è del tutto logico assimilare i dati al neurinoma del trigemino”; in particolare era stato osservato che i due neurinomi appartengono al medesimo distretto corporeo, in quanto entrambi i nervi interessati si trovano nell’angolo ponto-cerebellare, che è una porzione ben definita e ristretta dello spazio endocranico, certamente compresa nel campo magnetico che si genera dall’utilizzo dei telefoni cellulari e cordless;
nella CTU erano stati riassunti con una tabella alcuni studi effettuati dal 2005 al 2009 ed in tre, effettuati dall’Hardell group, era stato evidenziato un aumento significativo de! rischio relativo di neurinoma (intendendosi per rischio relativo la misura di associazione fra l’esposizione ad un particolare fattore di rischio e l’insorgenza di una definita malattia, calcolata come il rapporto fra i tassi di incidenza negli esposti [numeratore] e nei non esposti [denominatore]);
– un lavoro del 2009 del medesimo gruppo aveva considerato anche altri elementi quali età dell’esposizione, l’ipsilateralità e il tempo di esposizione, indicando, per quanto riguarda il neurinoma dell’acustico, un Odd ratio per l’uso dei cordless di 1,5 e per il telefono cellulare di 1,7; considerando l’uso maggiore di 10 anni, gli Odd ratio erano rispettivamente di 1,3 e di 1,9, intendendosi per Odd ratio il rapporto tra la frequenza con la quale un evento si verifica in un gruppo di pazienti e la frequenza con la quale lo stesso evento si verifica in un gruppo di pazienti di controllo, onde se il valore dell’Odd ratio è superiore a 1 significa che la probabilità che si verifichi l’evento considerato (per esempio una malattia) in un gruppo (per esempio tra gli esposti) è superiore rispetto a quella di un altro gruppo (per esempio tra i non esposti), mentre significato opposto ha un valore inferiore a 1;
– una recente review della The International Commission on Non- lonizing Radiation Protection aveva evidenziato i limiti degli studi epidemiologici fino ad allora attuati, concludendo che, allo stato attuale, non vi era una convincente evidenza del ruolo delle radiofrequenze nella genesi dei tumori, ma aggiungendo che gli studi non ne avevano escluso l’associazione;
– un’ulteriore autorevole review (Kundi nel 2009) aveva confermato i dubbi che gli studi epidemiologici inducono per quanto riguarda il tempo di esposizione e concluso per un rischio individuale basso, ma presente; l’esposizione poteva incidere sulla storia naturale della neoplasia in vari modi: interagendo nella fase iniziale di induzione, intervenendo sul tempo di sviluppo dei tumori a lenta crescita, come i neurinomi, accelerandola ed evitando la possibile naturale involuzione;
– l’analisi della letteratura non portava quindi ad un giudizio esaustivo, ma, con tutti i limiti insiti nella tipologia degli studi, un rischio aggiuntivo per i tumori cerebrali, ed in particolare per il neurinoma, era documentato dopo un’esposizione per più di 10 anni a radiofrequenze emesse da telefoni portatili e cellulari;
– tale tempo di esposizione era un elemento valutativo molto rilevante, poiché, nello studio del 2006, l’esposizione per più di 10 anni comportava un rischio relativo calcolato di 2,9 sicuramente significativo;
– si trattava quindi di una situazione “individuale” che gli esperti riconducevano al “modello probabilistico-induttivo” ed alla “causalità debole”, avente comunque valenza in sede previdenziale;
– doveva dunque riconoscersi, secondo il CTU, un ruolo almeno concausale delle radiofrequenze nella genesi della neoplasia subita dall’assicurato, configurante probabilità qualificata:
– la censura dell’lnail relativa agli studi utilizzati dal CTU non coglieva nel segno, poiché lo studio del 2000 dell’OMS, che aveva escluso effetti negativi per la salute, si era basato su dati ancor più risalenti, non tenendo quindi conto dell’uso più recente, ben più massiccio e diffuso, di tali apparecchi e del fatto che si tratta di tumori a lenta insorgenza, risultando quindi più attendibili gli studi svolti nel 2009;
– inoltre, come osservato dal CT di parte M., gli studi del 2009 non erano stati condotti su un basso numero di casi, ma, al contrario, sul numero totale dei casi (679) che si erano verificati in un anno in Italia; inoltre, a differenza dello studio della IARC, co-finanziato dalla ditte produttrici di telefoni cellulari, gli studi citati dal CTU erano indipendenti;
– ancora, secondo quanto osservato dal CT di parte M., confrontando il dato di rischio individuale calcolato dal CTU (2,9) con quello rilevato per il fattore di rischio, universalmente riconosciuto, dell’esposizione alle radiazioni ionizzanti, doveva considerarsi come per i sopravvissuti alle esplosioni atomiche giapponesi di Hiroshima e Nagasaki fosse stato accertato un rischio relativo di tipo oncologico di 1,39 per “tutti i tumori” con un minimo di 1,22 per i tumori di “utero e cervice” ed un massimo di 4,92 per la “leucemia”, il che stava a significare che il rischio oncogeno medio delle radiazioni ionizzanti era inferiore a quello che si aveva per l’esposizione alle radio frequenze in riferimento ai neurinomi endocranici, ciò che rendeva ancora più evidente la reale portata di quanto affermato dal CTU;
– secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, nel caso di malattia professionale non tabellata, come anche in quello di malattia ad eziologia multifattoriale, la prova della causa di lavoro, che grava sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità; e, a tale riguardo, il giudice deve non solo consentire all’assicurato di esperire i mezzi di prova ammissibili e ritualmente dedotti, ma deve altresì valutare le conclusioni probabilistiche del consulente tecnico in tema di nesso causale, considerando che la natura professionale della malattia può essere desunta con elevato grado di probabilità dalla tipologia delle lavorazioni svolte, dalla natura dei macchinari presenti nell’ambiente di lavoro, dalla durata della prestazione lavorativa e dall’assenza di altri fattori extralavorativi, alternativi o concorrenti che possano costituire causa della malattia;
– doveva quindi ritenersi la sussistenza del requisito di elevata probabilità che integra il nesso causale richiesto dalla normativa. Avverso la suddetta sentenza della Corte territoriale rinati ha proposto ricorso fondato su due motivi e illustrato con memoria L’intimato M. I. ha resistito con controricorso, illustrato con memoria.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo l’Istituto ricorrente denuncia violazione dell’art. 3 dpr n. 1124/65, rilevando che, secondo i principi di diritto elaborati in materia dalla giurisprudenza di legittimità, la corretta applicazione della norma suddetta richiede, in particolare, l’accertamento sulla base di dati epidemiologici e di letteratura ritenuti affidabili dalla comunità scientifica, che l’agente dedotto in giudizio sia dotato di efficienza patogenetica, quanto meno probabile, per la specifica malattia allegata e diagnosticata; la suddetta relazione causale non poteva dunque essere suffragata “dalla personale valutazione dell’ausiliario del giudice, fondata sulla preferenza per taluni dati epidemiologici rispetto ad altri, ma deve essere supportata da un giudizio di affidabilità dei dati stessi espresso dalla comunità scientifica”; nel caso di specie il CTU si era soffermato esclusivamente sui risultati del gruppo Hardell, in contrasto con quelli della comunità scientifica; inoltre il CTU aveva del tutto arbitrariamente utilizzato la contabilità tra esposizioni a radiofrequenze e neurinoma del nervo acustico, ipotizzata dal gruppo Hardeil, per affermare la relazione causale, addirittura con giudizio di probabilità qualificata, tra tali radiofrequenze e il neurinoma del trigemino; doveva al riguardo rilevarsi che la Commissione scientifica per l’elaborazione e la revisione periodica delle malattie di cui è obbligatoria la segnalazione ai sensi dell’art. 139 dpr n. 1124/65, in occasione dell’aggiornamento dell’elenco approvato con decreto ministeriale 11.12.2009, non aveva ritenuto di dover includere i tumori dei nervi cranici, indotti da esposizione alle radiofrequenze, tra le malattie di possibile origine professionale.
1.2 Secondo la giurisprudenza di questa Corte, nel caso di malattia professionale non tabellata, come anche in quello di malattia ad eziologia multifattoriale, la prova della causa di lavoro, che grava sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità; a tale riguardo, il giudice deve non solo consentire all’assicurato di esperire i mezzi di prova ammissibili e ritualmente dedotti, ma deve altresì valutare le conclusioni probabilistiche del consulente tecnico in tema di nesso causale, facendo ricorso ad ogni iniziativa ex officio diretta ad acquisire ulteriori elementi in relazione all’entità ed all’esposizione del lavoratore ai fattori di rischio ed anche considerando che la natura professionale della malattia può essere desunta con elevato grado di probabilità dalla tipologia delle lavorazioni svolte, dalia natura dei macchinari presenti nell’ambiente di lavoro, dalla durata della prestazione lavorativa e dall’assenza di altri fattori extralavorativi, alternativi o concorrenti, che possano costituire causa della malattia (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 6434/1994; 5352/2002; 11128/2004; 15080/2009).
La sentenza impugnata ha fatto applicazione di tali principi, ravvisando, in base alle considerazioni diffusamente esposte nello storico di lite, la sussistenza del requisito di elevata probabilità che integra il nesso causale.
Non è quindi ravvisabile il denunciato vizio di violazione di legge, che si fonda infatti su una pretesa erronea valutazione (da parte del CTU e della Corte territoriale) della affidabilità dei dati presi in considerazione al fine di suffragare tale requisito e, pertanto, sostanzialmente su un vizio di motivazione (in effetti dedotto con il secondo motivo di ricorso).
Il motivo all’esame va pertanto disatteso.

2. Con il secondo motivo l’Istituto ricorrente denuncia appunto vizio di motivazione, assumendo che:
– il CTU di secondo grado, dopo avere evidenziato che la review della The International Commission on Non-lonizing Radiation Protection aveva concluso che, allo stato attuale, non vi era una convincente evidenza del ruolo delle radiofrequenze nella genesi dei tumori, pur non escludendosene l’associazione, senza consequenzialità logica e senza motivazione aveva tratto la conclusione della probabilità qualificata di un ruolo almeno concausale delle radiofrequenze nella genesi della neoplasia per cui è causa;
– doveva ritenersi priva dì qualsivoglia fondamento scientifico la ritenuta assimilabilità, sul piano eziopatogenetico, del neurinoma del nervo acustico e di quello del trigemino, essendo “nozione comune” della scienza medica che tumori dello stesso istotipo, ma con localizzazione diversa, anche se nell’ambito dello stesso distretto anatomico, riconoscono cause diverse e che qualsiasi potenziale agente cancerogeno che venga in contatto con il corpo umano modifica la sua azione a seconda dei tessuti che attraversa o con cui viene in contatto; e, in effetti, il nervo acustico e il nervo trigemino, in particolare il ganglio di Gasser, hanno una diversa collocazione nella teca cranica e diverse sono le strutture anatomiche che li separano dall’esterno e fra loro;
la Corte territoriale non aveva risposto alle osservazioni svolte dall’Istituto, anche con riferimento alla circostanza che era “in corso” uno studio epidemiologico internazionale “interphone”, coordinato dalla IARC e che l’OMS, in base al principio di precauzione, aveva suggerito “una politica di gestione del rischio che viene applicata in una situazione di “incertezza scientifica””:
– doveva ritenersi inconferente sul piano scientifico l’affermazione della Corte territoriale circa l’attendibilità, perché indipendente, dello studio del gruppo Hardell, a fronte del cofinanziamento della ricerca “interphone” da parte dei produttori di telefoni cellulari, trascurando che tale ricerca è finanziata dalla Unione Europea e diretta e coordinata dalla IARC (Agenzia internazionale ricerca sul cancro dell’OMS);
– neppure la Corte territoriale aveva ritenuto di chiamare il CTU a chiarimenti a fronte delle ricordate osservazioni critiche.
2.1 La giurisprudenza di legittimità ha reiteratamente affermato che nei giudizi in cui sia stata esperita CTU di tipo medico-legale, nei caso in cui il giudice del merito si basi sulle conclusioni dell’ausiliario giudiziario, affinché i lamentati errori e lacune della consulenza tecnica determinino un vizio di motivazione della sentenza denunciabile in cassazione, è necessario che i relativi vizi logico -formali si concretino in una palese devianza dalle nozioni della scienza medica o si sostanzino in affermazioni illogiche o scientificamente errate, con il relativo onere, a carico della parte interessata, di indicare le relative fonti, senza potersi la stessa limitare a mere considerazioni sulle prospettazioni operate dalla controparte, che si traducono in una inammissibile critica del convincimento del giudice di merito che si sia fondato, per l’appunto, sulla consulenza tecnica (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 16392/2004; 17324/2005; 7049/2007; 18906/2007).
Nel caso all’esame l’Istituto ricorrente, nel contestare la ritenuta assimilabilità, sul piano eziopatogenetico, del neurinoma del nervo acustico e di quello del trigemino, non specifica – rifugiandosi nel concetto di “nozione comune” – le fonti scientifiche, ritualmente dedotte ed acquisite al giudizio, in base alle quali avrebbero dovuto ritenersi scientificamente errate le affermazioni rese al riguardo dal CTU e seguite dalla sentenza impugnata, finendo per richiedere al riguardo a questa Corte una valutazione di merito inammissibile in sede di legittimità.
Neppure è dato rilevare il preteso e denunciato vizio di mancanza di consequenzialità logica e di motivazione in ordine alle conclusioni della probabilità qualificata di un ruolo almeno concausale delle radiofrequenze nella genesi della neoplasia per cui è causa, posto che tale giudizio, come diffusamente esposto nello storico di lite, non discende dalla mera indicazione delle conclusioni (evidentemente difformi) a cui era pervenuta la ricordata review della The International Commission on Non-lonizing Radiation Protection, ma, piuttosto, dai riscontri di altri studi a carattere epidemiologico svolti al riguardo.
Inoltre, e significativamente, la sentenza impugnata, seguendo le osservazioni del CTU, ha ritenuto di dover ritenere di particolare rilievo quegli studi che avevano preso in considerazione anche altri elementi, quali l’età dell’esposizione, l’ipsilateralità e il tempo di esposizione, atteso che, nella specie, doveva valutarsi la sussistenza del nesso causale in relazione ad una situazione fattuale dei tutto particolare, caratterizzata da un’esposizione alle radiofrequenze per un lasso temporale continuativo molto lungo (circa 12 anni), per una media giornaliera di 5 – 6 ore e concentrata principalmente sull’orecchio sinistro dell’assicurato (che, com’è di piana evidenza, concretizza una situazione affatto diversa da un normale uso non professionale del telefono cellulare).
L’ulteriore rilievo circa la maggiore attendibilità proprio di tali studi, stante la loro posizione di indipendenza, ossia per non essere stati cofinanziati, a differenza di altri, anche dalle stesse ditte produttrici di cellulari, costituisce ulteriore e non illogico fondamento delle conclusioni accolte.
Né è stato dedotto – e tanto meno, dimostrato – che le indagini epidemiologiche Se cui conclusioni sono state prese in particolare considerazione provengano da gruppi di lavoro privi di serietà ed autorevolezza e, come tali, sostanzialmente estranei alla comunità scientifica.
L’asserita prevalenza che, secondo il ricorrente, dovrebbe essere attribuita alle conclusioni di altri gruppi di ricerca (le cui indagini, peraltro, secondo quanto dedotto, almeno all’epoca del giudizio di merito erano ancora “in corso”), si risolvono anch’essi nella richiesta di un riesame del merito, non consentito in sede di legittimità. Avendo inoltre la Corte territoriale riscontrato nelle considerazioni già svolte dal CTU e dal CT di parte M. elementi ritenuti sufficienti a confutare le osservazioni critiche dell’Istituto, non sussisteva la necessità di investire ulteriormente il CTU di una richiesta a chiarimenti.
Anche il secondo motivo di ricorso va quindi disatteso.
3. In definitiva il ricorso va rigettato
L’esito fra loro difforme dei giudizi di merito e la novità, sotto il profilo della peculiarità fattuale, della vicenda dedotta in causa, consigliano la compensazione delle spese.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso; spese compensate.

 

Organismi geneticamente modificati: la Corte di Giustizia delimita le competenze degli Stati membri.

Organismi geneticamente modificati: la Corte di Giustizia delimita le competenze degli Stati membri

RUGGERO TUMBIOLO*

La Corte di Giustizia, chiamata ad esprimersi sulla domanda di pronuncia pregiudiziale sottopostale dal Consiglio di Stato e vertente sull’interpretazione dell’articolo 26 bis della direttiva n. 2001/18 in materia di organismi geneticamente modificati, si è così espressa:
«La messa in coltura di organismi geneticamente modificati quali le varietà del mais MON 810 non può essere assoggettata a una procedura nazionale di autorizzazione quando l’impiego e la commercializzazione di tali varietà sono autorizzati ai sensi dell’articolo 20 del regolamento (CE) n. 1829/2003 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativo agli alimenti e ai mangimi geneticamente modificati, e le medesime varietà sono state iscritte nel catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole previsto dalla direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, emendata con il regolamento n. 1829/2003.
L’articolo 26 bis della direttiva 2001/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 marzo 2001, sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati e che abroga la direttiva 90/220/CEE del Consiglio, come modificata dalla direttiva 2008/27/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 marzo 2008, non consente a uno Stato membro di opporsi in via generale alla messa in coltura sul suo territorio di tali organismi geneticamente modificati nelle more dell’adozione di misure di coesistenza dirette a evitare la presenza accidentale di organismi geneticamente modificati in altre colture
» (sentenza della Quarta Sezione del 6 settembre 2012, causa C-36/11, in www.ambientediritto.it).

La questione sottoposta dal Consiglio di Stato era la seguente:
«Se, qualora lo Stato membro abbia ritenuto di subordinare il rilascio dell’autorizzazione alle coltivazioni di OGM, ancorché iscritti nel Catalogo comune europeo, a misure di carattere generale idonee a garantire la coesistenza con colture convenzionali o biologiche, l’art. 26 bis della direttiva 2001/18/CE, letto alla luce della Raccomandazione 2003/556/CE e della sopravvenuta Raccomandazione 2010/200/1, debba essere interpretato nel senso che, nel periodo antecedente l’adozione delle misure generali: a) l’autorizzazione debba essere rilasciata, avendo ad oggetto OGM iscritti nel Catalogo comune europeo; b) ovvero, l’esame dell’istanza di autorizzazione debba essere sospeso in attesa dell’adozione delle misure di carattere generale; c) ovvero, l’autorizzazione debba essere rilasciata, con le prescrizioni idonee ad evitare nel caso concreto il contatto, anche involontario, delle colture transgeniche autorizzate con le colture convenzionali o biologiche circostanti».

La Corte di Giustizia osserva che, allo stato attuale del diritto dell’Unione, uno Stato membro non è libero di subordinare a un’autorizzazione nazionale, fondata su considerazioni di tutela della salute o dell’ambiente, la coltivazione di OGM autorizzati in virtù del regolamento n. 1829/2003 ed iscritti nel catalogo comune in applicazione della direttiva n. 2002/53.
Al contrario, un divieto o una limitazione della coltivazione di tali prodotti possono essere decisi da uno Stato membro nei casi espressamente previsti dal diritto dell’Unione.
Tra tali casi figurano oltre le misure adottate in applicazione dell’articolo 34 del regolamento n. 1829/2003 e quelle disposte ai sensi degli articoli 16, paragrafo 2, o 18 della direttiva n. 2002/53, anche le misure di coesistenza prese a titolo dell’articolo 26 bis della direttiva n. 2001/18.
Quest’ultima disposizione stabilisce che :
«Gli Stati membri possono adottare tutte le misure opportune per evitare la presenza involontaria di OGM in altri prodotti.
La Commissione raccoglie e coordina le informazioni basate su studi condotti a livello comunitario e nazionale, osserva gli sviluppi quanto alla coesistenza negli Stati membri e, sulla base delle informazioni e delle osservazioni, sviluppa orientamenti sulla coesistenza di colture geneticamente modificate, convenzionali e organiche
».

La Corte osserva che il cit. articolo 26 bis prevede solo una facoltà per gli Stati membri di introdurre misure di coesistenza.
Pertanto, nell’ipotesi in cui uno Stato membro si astenesse da qualsivoglia intervento nel settore, un divieto di coltivazione di OGM potrebbe protrarsi per un periodo di tempo illimitato e costituire un mezzo per aggirare le procedure previste agli articoli 34 del regolamento n. 1829/2003 nonché 16, paragrafo 2, e 18 della direttiva n. 2002/53.
Un’interpretazione dell’articolo 26 bis della direttiva n. 2001/18 che consenta agli Stati membri di emanare un tale divieto sarebbe dunque contraria al sistema istituito dal regolamento n. 1829/2003 e dalla direttiva n. 2002/53; sistema che consiste nel garantire la libera e immediata circolazione dei prodotti autorizzati a livello comunitario e iscritti nel catalogo comune, una volta che le necessità di tutela della salute e dell’ambiente siano state prese in considerazione nel corso delle procedure di autorizzazione e di iscrizione.
L’articolo 26 bis della direttiva n. 2001/18 può dar luogo a restrizioni, e perfino a divieti geograficamente delimitati, solo per effetto delle misure di coesistenza realmente adottate in osservanza delle loro finalità; siffatta disposizione non consente, viceversa, agli Stati membri di vietare in via generale, nelle more dell’adozione di misure di coesistenza, la coltivazione di OGM autorizzati ai sensi della normativa dell’Unione e iscritti nel catalogo comune.

In definitiva, conclude la Corte di Giustizia:
– la messa in coltura di OGM non può essere assoggettata a una procedura nazionale di autorizzazione quando l’impiego e la commercializzazione di tali varietà sono autorizzati ai sensi dell’articolo 20 del regolamento n. 1829/2003 e le medesime varietà sono state iscritte nel catalogo comune previsto dalla direttiva n. 2002/53;
– l’articolo 26 bis della direttiva n. 2001/18 non consente a uno Stato membro di opporsi in via generale alla messa in coltura sul suo territorio di tali OGM nelle more dell’adozione di misure di coesistenza dirette a evitare la presenza accidentale di OGM in altre colture.

Il fatto che l’impiego di OGM autorizzati in agricoltura sia garantito dalla normativa comunitaria aveva già trovato conferma nella decisione n. 2003/653/CE della Commissione europea del 2 settembre 2003, relativa alle disposizioni nazionali austriache sul divieto di impiego di organismi geneticamente modificati.
In tale decisione, ai sensi del paragrafo 5 dell’art. 95 del Trattato CE, era stato esaminato un progetto di legge del 2002 del Land Oberösterreich (Austria Superiore) sul divieto di utilizzo delle tecniche di ingegneria genetica; progetto che vietava in tale Land l’impiego di organismi geneticamente modificati, in deroga alle disposizioni della direttiva n. 2001/18/CE, al fine di salvaguardare l’agricoltura biologica e convenzionale e tutelare dalla “contaminazione” da OGM sia la biodiversità naturale, soprattutto nelle zone ecologicamente sensibili, sia le risorse genetiche.
La Commissione europea ha, al riguardo, osservato che, a norma del paragrafo 5 dell’articolo 95 del Trattato CE, l’introduzione da parte di uno Stato membro di disposizioni nazionali in deroga a misure comunitarie di armonizzazione è subordinata a tre condizioni: le disposizioni devono essere fondate su nuove prove scientifiche inerenti alla protezione dell’ambiente o dell’ambiente di lavoro, deve esistere un problema specifico per lo Stato membro che chiede la deroga e tale problema deve essere insorto dopo l’adozione della misura di armonizzazione.
Nel caso specifico la Commissione ha ritenuto che l’Austria non avesse fornito nuove prove scientifiche inerenti alla protezione dell’ambiente o dell’ambiente di lavoro e non avesse dimostrato l’esistenza nel proprio territorio di un problema specifico insorto dopo l’adozione della direttiva n. 2001/18/CE, tale da rendere necessaria l’introduzione delle disposizioni nazionali notificate.
Di conseguenza, la richiesta delle autorità austriache di introdurre disposizioni nazionali destinate a vietare l’impiego di OGM nell’Austria Superiore non soddisfaceva le condizioni previste al paragrafo 5 dell’articolo 95 del Trattato CE e, per effetto, è stata respinta dalla Commissione europea.

Per completare il quadro comunitario in argomento, si può richiamare anche la sentenza della Corte di Giustizia, Seconda Sezione, n. 165 del 16 luglio 2009, che ha esaminato la legge della Repubblica di Polonia sulle sementi del 26 giugno 2003, come modificata dalla legge del 27 aprile 2006, nella parte in cui vietava l’iscrizione nel catalogo nazionale e l’immissione in commercio delle varietà geneticamente modificate.
La Corte, nella decisione da ultimo richiamata, ha statuito che la Repubblica di Polonia, avendo vietato in via generale la libera circolazione di sementi di varietà geneticamente modificate nonché l’iscrizione di dette varietà nel catalogo nazionale, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza degli artt. 22 e 23 della direttiva n. 2001/18/CE e degli artt. 4, n. 4, e 16 della direttiva n. 2002/53/CE.
È interessante notare che nel giudizio avanti alla Corte di Giustizia la Repubblica di Polonia aveva concentrato la propria difesa sui motivi di ordine etico o religioso posti, a suo dire, a fondamento delle disposizioni nazionali controverse.
Secondo la Repubblica polacca, le suddette disposizioni nazionali, poiché perseguivano finalità etiche estranee agli obiettivi della tutela dell’ambiente e della salute pubblica nonché della libera circolazione che caratterizzano le suddette direttive, erano da ritenersi estranee all’ambito di applicazione di queste ultime.
A tale proposito la Corte ha ritenuto tuttavia che «… per risolvere la presente controversia non è necessario pronunciarsi sulla questione se, in quale misura ed a quali condizioni, eventualmente, gli Stati membri conservino una facoltà d’invocare motivi etici o religiosi per giustificare l’adozione di misure interne in deroga alle disposizioni delle direttive 2001/18 e 2002/53, come le disposizioni nazionali controverse … Nel caso di specie, infatti, è sufficiente constatare che la Repubblica di Polonia, alla quale spetterebbe, in tale ipotesi, l’onere della prova, non ha comunque dimostrato che le disposizioni nazionali controverse perseguivano effettivamente le finalità religiose ed etiche invocate, finalità la cui effettività è, peraltro, posta in dubbio dalla Commissione».

* Avvocato in Como

 

Pubblicato sull’Osservato AD – GreenLex il 19 settembre 2012
 

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