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Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Beni culturali ed ambientali, Diritto processuale penale, Diritto urbanistico - edilizia, Diritto venatorio e della pesca Numero: 28233 | Data di udienza: 3 Marzo 2016

* BENI CULTURALI E AMBIENTALI – DIRITTO URBANISTICO –  Manufatti abusivi in zone paesaggistiche – Sequestro preventivo delle opere abusive già ultimate – Verifiche delle conseguenze lesive della condotta sul bene protetto – Necessità – Requisiti della concretezza ed attualità del pericolo – Automatismo tra uso del bene ed alterazione dell’ecosistema – Esclusione – Necessità che il giudice dia specifica motivazione – CACCIA – Appostamenti fissi di caccia e capanni – Sequestro – Artt.3, 6, 44 del d.P.R. n. 380/2001Artt. 181 d. lgs n. 42/2004 – Legge n. 157/1992 – DIRITTO COSTITUZIONALE – Rilascio dell’autorizzazione paesaggistica e titoli richiesti per eseguire un intervento edilizio – Disciplina regionale delle ipotesi di esenzione – Esclusione – Conflitto tra Stato e Regioni – Fattispecie – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Norma sopravvenuta costituzionalmente illegittima – Limiti al principio di retroattività della norma più favorevole – Lex mitior e principio di eguaglianza – Giurisprudenza costituzionale.


Provvedimento: Sentenza
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 7 Luglio 2016
Numero: 28233
Data di udienza: 3 Marzo 2016
Presidente: AMORESANO
Estensore: ANDREAZZA


Premassima

* BENI CULTURALI E AMBIENTALI – DIRITTO URBANISTICO –  Manufatti abusivi in zone paesaggistiche – Sequestro preventivo delle opere abusive già ultimate – Verifiche delle conseguenze lesive della condotta sul bene protetto – Necessità – Requisiti della concretezza ed attualità del pericolo – Automatismo tra uso del bene ed alterazione dell’ecosistema – Esclusione – Necessità che il giudice dia specifica motivazione – CACCIA – Appostamenti fissi di caccia e capanni – Sequestro – Artt.3, 6, 44 del d.P.R. n. 380/2001Artt. 181 d. lgs n. 42/2004 – Legge n. 157/1992 – DIRITTO COSTITUZIONALE – Rilascio dell’autorizzazione paesaggistica e titoli richiesti per eseguire un intervento edilizio – Disciplina regionale delle ipotesi di esenzione – Esclusione – Conflitto tra Stato e Regioni – Fattispecie – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Norma sopravvenuta costituzionalmente illegittima – Limiti al principio di retroattività della norma più favorevole – Lex mitior e principio di eguaglianza – Giurisprudenza costituzionale.



Massima

 

 

CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^ 07/07/2016 (ud. 03/03/2016) Sentenza n.28233


BENI CULTURALI E AMBIENTALI – DIRITTO URBANISTICO –  Manufatti abusivi in zone paesaggistiche – Sequestro preventivo delle opere abusive già ultimate – Verifiche delle conseguenze lesive della condotta sul bene protetto – Necessità – Requisiti della concretezza ed attualità del pericolo – Automatismo tra uso del bene ed alterazione dell’ecosistema – Esclusione – Necessità che il giudice dia specifica motivazione – CACCIA – Appostamenti fissi di caccia e capanni – Sequestro – Artt.3, 6, 44 del d.P.R. n. 380/2001Artt. 181 d. lgs n. 42/2004 – Legge n. 157/1992.
 
In tema di manufatti abusivi, il sequestro preventivo di cosa pertinente al reato è consentito anche nel caso di ipotesi criminosa già perfezionatasi, purché il pericolo della libera disponibilità della cosa stessa – che va accertato dal giudice con adeguata motivazione – presenti i requisiti della concretezza e dell’attualità e le conseguenze del reato, ulteriori rispetto alla sua consumazione, abbiano connotazione di antigiuridicità, consistano nel volontario aggravarsi o protrarsi dell’offesa al bene protetto che sia in rapporto di stretta connessione con la condotta penalmente illecita e possano essere definitivamente rimosse con l’accertamento irrevocabile del reato (Cass. Sez. U., n. 12878 del 29/01/2003, P.M. in proc. Innocenti). Sulla scia di tale impostazione è stata riconosciuta la possibilità di disporre il sequestro preventivo delle opere abusive già ultimate, quindi anche successivamente alla consumazione del reato, allorché, pur essendo cessata la permanenza, le conseguenze lesive della condotta sul bene protetto possano perdurare nel tempo, ma a condizione che: 1) sussista una prossimità temporale del sequestro rispetto alla realizzazione dell’opera e, conseguentemente, il requisito della attualità e concretezza della misura cautelare reale; 2) sia data una congrua puntuale motivazione sul periculum in mora sotto il profilo della sussistenza delle conseguenze antigiuridiche ulteriori rispetto alla ultimazione dei lavori, derivanti dall’uso del fabbricato (Cass. Sez. 4, n. 2389 del 06/12/2013, P.M. in proc. Gullo; v., altresì, Sez.3, n.6599/12 del 24/11/2011, Susinno; Sez.2, n.17170 del 23/04/2010, De Monaco; Sez.4, n.15821 del 31/01/2007, P.M. in proc. Bove e altro; Sez.3, n.4745/08 del 12/12/2007, Giuliano). Anche con riguardo, ai reati paesaggistici, la sola esistenza di una struttura abusiva ultimata non integra di per sé i requisiti della concretezza ed attualità del pericolo, in assenza di ulteriori elementi idonei a dimostrare che la disponibilità della stessa, da parte del soggetto indagato o di terzi, possa implicare una effettiva lesione dell’ambiente e del paesaggio (Sez. 3, n. 48958 del 13/10/2015, Giordano). Pertanto, deve esere rifiutato ogni automatismo tra uso del bene ed alterazione dell’ecosistema, devendosi confermare la necessità che il giudice dia specifica motivazione, in caso di opere ultimate, dell’attualità delle esigenze cautelari.
 

DIRITTO PROCESSUALE PENALE – DIRITTO COSTITUZIONALE – Rilascio dell’autorizzazione paesaggistica e titoli richiesti per eseguire un intervento edilizio – Disciplina regionale delle ipotesi di esenzione – Esclusione – Conflitto tra Stato e Regioni – Fattispecie. 
 
Non compete al legislatore regionale disciplinare ipotesi di esenzione, rispetto ai casi per i quali la normativa dello Stato subordina l’esecuzione di un intervento al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (come già da sentenze Corte costituzionale n. 66 del 2012, n. 235 del 2011 e n. 232 del 2008), posto che tale istituto persegue, finalità di tutela dell’ambiente e del paesaggio, rispetto alle quali la legge regionale, nelle materie di propria competenza, può semmai ampliare, ma non ridurre, lo standard di protezione assicurato dalla normativa dello Stato (come già da sentenze n. 58 del 2013, n. 66 del 2012, n. 225 del 2009, n. 398 del 2006 e n.407 del 2002). Nella specie, pertanto, l’impatto prodotto nelle aree tutelate dagli appostamenti venatori, siano essi fissi, ovvero destinati a cacciare i colombacci, comporta la necessità di una preventiva valutazione di compatibilità, mediante il ricorso all’autorizzazione paesaggistica e ha quindi dedotto la illegittimità di entrambe le norme sopra menzionate (art.1, comma 3 e art. 2, comma 1 della L. R. Veneto n. 25 del 2012) per violazione dell’art. 117 comma 2, lett. s), Cost., ove le stesse derogano all’obbligo dell’autorizzazione paesaggistica. Allo stesso modo, dopo avere ribadito che la disciplina dei titoli richiesti per eseguire un intervento edilizio e l’indicazione dei casi in cui essi sono necessari, costituisce un principio fondamentale del governo del territorio, che vincola la legislazione regionale di dettaglio a non valicare il limite determinato dall’art. 6, comma 6, lett. a), del d.P.R. n. 380 del 2001, relativo all’estensione dei casi di attività edilizia libera ad ipotesi non integralmente nuove, ma “ulteriori”, ovvero coerenti e logicamente assimilabili agli interventi di cui ai commi 1 e 2 del medesimo art. 6.
 

DIRITTO COSTITUZIONALE – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Norma sopravvenuta costituzionalmente illegittima – Limiti al principio di retroattività della norma più favorevole – Lex mitior e principio di eguaglianza – Giurisprudenza costituzionale.
 
Il principio di retroattività della norma più favorevole non presenta alcun collegamento con la libertà di autodeterminazione individuale, per l’ovvia ragione che la lex mitior sopravviene alla commissione del fatto, al quale l’autore si era liberamente autodeterminato sulla base del pregresso (e per lui meno favorevole) panorama normativo (C. Cost., sentenza n. 394 del 2006); la Corte ha quindi escluso che il principio di retroattività in mitius trovi copertura nell’art. 25, comma 2, Cost. (ex plurimis, sentenze n. 80 del 1995; n. 6 del 1978 e n. 164 del 1974; ordinanza n. 330 del 1995), trovando invece fondamento nel principio di eguaglianza, che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice. Tuttavia, altro è porre in essere una condotta che nel momento di sua commissione è penalmente lecita o punita in modo mite ed altro è porre in essere la stessa condotta in contrasto con la norma che in quel momento la vieta o la punisce in modo più severo. In tale contesto, il collegamento del principio della retroattività in mitius al principio di eguaglianza ne segna, peraltro, anche il limite: nel senso che, a differenza del principio della irretroattività della norma penale sfavorevole, assolutamente inderogabile, detto principio deve ritenersi suscettibile di deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli (sentenze n. 74 del 1980 e n. 6 del 1978; ordinanza n. 330 del 1995). E’ dunque giocoforza ritenere che il principio di retroattività della norma penale più favorevole in tanto sia destinato a trovare applicazione, in quanto la norma sopravvenuta sia, dì per sé, costituzionalmente legittima. Il nuovo apprezzamento del disvalore del fatto può giustificare, in chiave di tutela del principio dì eguaglianza, l’estensione a ritroso del trattamento più favorevole, a chi ha commesso il fatto violando scientemente la norma penale più severa, solo a condizione che quella nuova valutazione non contrasti essa stessa con i precetti della Costituzione. La lex mitior deve risultare, in altre parole, validamente emanata: non soltanto sul piano formale della regolarità del procedimento dell’atto legislativo che l’ha introdotta e, in generale, della disciplina delle fonti, ma anche sul piano sostanziale del rispetto dei valori espressi dalle norme costituzionali. Altrimenti, non v’è ragione per derogare alla regola sancita dagli artt. 136, comma 1, Cost. e 30, comma 3, della legge n. 87 del 1953, non potendosi ammettere che una norma costituzionalmente illegittima, rimasta in vigore, in ipotesi, anche per un solo giorno, determini, paradossalmente, l’impunità o l’abbattimento della risposta punitiva, non soltanto per i fatti commessi quel giorno, ma con riferimento a tutti fatti pregressi, posti in essere nel vigore dell’incriminazione o dell’incriminazione più severa. E, del resto, se lo stesso giudice delle leggi ha affermato la necessità di escludere zone franche al cui interno l’attività normativa sia sottratta a qualunque controllo, ciò significa, allo stesso tempo, che il principio di retroattività della legge penale favorevole debba trovare un limite proprio nel divieto, per il legislatore (statale o regionale che sia), di introdurre aree di mero privilegio, a maggior ragione se determinate dalla realizzazione in un determinato territorio dello Stato piuttosto che in un altro. Se così non fosse, del tutto irrazionalmente il legislatore potrebbe sempre confidare nell’applicazione incondizionata della norma successiva più favorevole sebbene incostituzionale.
 
 
(annulla senza rinvio Ordinanza del TRIBUNALE DI VICENZA del 19/07/2012) Pres. AMORESANO, Rel. ANDREAZZA, Ric. Menti
 
 

Allegato


Titolo Completo

CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^ 07/07/2016 (ud. 03/03/2016) Sentenza n.28233

SENTENZA

 

CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^ 07/07/2016 (ud. 03/03/2016) Sentenza n.28233

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
 
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
 
omissis
 
ha pronunciato la seguente
 
SENTENZA
 
Sul ricorso proposto da Menti Valentino, n. a Isola Vicentina il 23/06/1938;
 
avverso l’ordinanza del Tribunale di Vicenza in data 19/07/2012;
 
udita la relazione svolta dal consigliere Gastone Andreazza;
 
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale M. Di Nardo, che ha concluso per il rigetto;
 
RITENUTO IN FATTO
 
1. Menti Valentino ha proposto ricorso avverso l’ordinanza con cui il Tribunale di Vicenza ha rigettato la richiesta di riesame presentata nei confronti del decreto di sequestro preventivo di un capanno in legno in relazione ai reati di cui agli artt.44 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 181 del d. lgs n. 42 del 2004 stante la realizzazione del manufatto suddetto in assenza di permessi di costruire e senza la prescritta autorizzazione paesaggistica.
 
2. Con un primo motivo ha dedotto la violazione degli artt.3 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 181 del d. lgs. n. 42 del 2004 e dell’art.3 delle leggi regionali Veneto n. 12 del 2012 e n. 25 del 2012 in relazione all’art. 117 Cost. e alla legge n. 157 del 1992. Rileva che le leggi regionali suddette sono intervenute, nel contesto della potestà legislativa attribuita dall’art. 117 Cost., unicamente a dettare una specifica disciplina positiva attinente la caccia in adesione alla disciplina di settore statale di cui alla legge n. 157 del 1992, e non la materia urbanistica – edilizia; dette disposizioni hanno identificato gli appostamenti fissi di caccia o i capanni da caccia in via generale come manufatti per la cui realizzazione è sufficiente il rilascio, nella specie avvenuto, di autorizzazione amministrativa da parte della Provincia competente, con conseguente non configurabilità del reato addebitato.
 
3. Con un secondo motivo lamenta il difetto di motivazione in ordine all’individuazione dell’effettiva natura ed entità delle opere, ritenute dal Tribunale non precarie, in particolare avuto riguardo ai rilievi del perito del P.M. da cui risulterebbero elementi costruttivi e dimensionali non ascrivibili ad una nuova costruzione connotata da stabilità e solidità tipiche delle costruzioni in senso stretto.
 
4. Con un terzo motivo, infine, deduce la violazione dell’art. 321 c.p.p. essendo il manufatto ormai inserito nel contesto territoriale e dunque essendo inidoneo ad aggravare o protrarre le conseguenze del reato o ad agevolare la commissione di altri reati.
 
CONSIDERATO IN DIRITTO
 
5. Il primo motivo è infondato.
 
L’assunto del ricorrente, è, evidentemente, nel senso che difetterebbe la configurabilità del fumus del reato addebitato (e conseguentemente il sequestro operato sarebbe illegittimo) giacché il capanno in legno sarebbe stato legittimamente eseguito sulla base delle disposizioni legislative regionali che esentavano gli appostamenti fissi di caccia, in cui incontestabilmente rientra quello in oggetto, dalla necessità di titolo abilitativo edilizio e di autorizzazione paesaggistica.
 
In effetti, in particolare, l’art. 20 bis, comma 3, della legge regionale Veneto 09/12/1993, n. 50, come introdotto dall’art.1 della legge regionale 24/02/2012 n.12, prevede a tutt’oggi che gli appostamenti per ungulati siano soggetti a comunicazione al Comune e non richiedano titolo abilitativo edilizio ai sensi dell’art. 6 del d.P.R. n.380 del 2001 e si configurino quali interventi non soggetti ad autorizzazione paesaggistica, ove siano realizzati interamente in legno, abbiano il piano di calpestio ovvero di appoggio posto al massimo a nove metri dal piano di campagna, abbiano l’altezza massima all’eventuale estradosso della copertura pari a dodici metri e abbiano una superficie del piano di calpestio o di appoggio non superiore ai tre metri quadrati, siano privi di allacciamenti e di opere di urbanizzazione e comunque non siano provvisti di attrezzature permanenti per il riscaldamento.
 
Parimenti, l’art. 20 bis, comma 3 bis, della legge regionale Veneto 09/12/1993, n. 50, come introdotto dall’art.1, comma 3 della legge regionale Veneto n.25 del 06/07 /2012, prevedeva, all’epoca dei fatti, che gli appostamenti per la caccia al colombaccio fossero soggetti alla comunicazione al Comune e non richiedessero titolo abitativo edilizio ai sensi dell’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001 e si configurassero quali interventi non soggetti ad autorizzazione paesaggistica, ove correttamente mimetizzati e realizzati, secondo gli usi e le consuetudini locali, in legno e metallo, di altezza non superiore il limite frondoso degli alberi nonché privi di allacciamenti e di opere di urbanizzazione e comunque non provvisti di attrezzature permanenti per il riscaldamento.
 
Ulteriormente ancora, l’art.9, comma 2, lett. h) della legge regionale Veneto 09/12/1993, n. 50, come modificato dall’art. 2, comma 1, della legge regionale Veneto n. 25 del 06/07/2012, prevedeva, all’epoca dei fatti, che tutte le tipologie di appostamento fisso di cui all’art. 20 della stessa legge e all’art. 12, comma 5, della legge n. 157 del 1992, realizzate secondo gli usi e le consuetudini locali fossero soggette a comunicazioni al Comune e non richiedessero titolo abilitativo edilizio ai sensi dell’art. 6 del d.P.R. 06/06/2001, n. 380 e si configurassero quali interventi non soggetti ad autorizzazione paesaggistica.
 
Il Tribunale del riesame, pur prendendo atto di tale complessiva normativa, e della sua astratta riferibilità alla fattispecie in esame, l’ha ritenuta in sostanza, tuttavia, inoperante, non potendo la stessa interferire, con effetti scriminanti, attesa la sua provenienza regionale, sulla legislazione statale a fronte del monopolio di quest’ultima in materia penale, in tal modo avendo dunque confermato il provvedimento di sequestro impugnato.
 
6. Tanto premesso, ora, tale normativa, per una parte (ovvero, segnatamente, la normativa di cui alla legge n. 12 del 2012) ha continuato a restare vigente in quanto mai sottoposta al vaglio di costituzionalità, e, per altra parte (ovvero, segnatamente, la legge n. 25 del 2012), è stata, successivamente ai fatti, dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione dell’art.117 Cost. con sentenza n. 139 del 05/06/2013.
 
La Corte costituzionale, infatti, dopo avere ribadito che non compete al legislatore regionale disciplinare ipotesi di esenzione, rispetto ai casi per i quali la normativa dello Stato subordina l’esecuzione di un intervento al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (come già da sentenze n. 66 del 2012, n. 235 del 2011 e n. 232 del 2008), posto che tale istituto persegue, infatti, finalità di tutela dell’ambiente e del paesaggio, rispetto alle quali la legge regionale, nelle materie di propria competenza, può semmai ampliare, ma non ridurre, lo standard di protezione assicurato dalla normativa dello Stato (come già da sentenze n. 58 del 2013, n. 66 del 2012, n. 225 del 2009, n. 398 del 2006 e n.407 del 2002), ha precisato che l’impatto prodotto nelle aree tutelate dagli appostamenti venatori, siano essi fissi, ovvero destinati a cacciare i colombacci, comporta la necessità di una preventiva valutazione di compatibilità, mediante il ricorso all’autorizzazione paesaggistica e ha quindi dedotto la illegittimità di entrambe le norme sopra menzionate (art.1, comma 3 e art. 2, comma 1 della legge regionale n. 25 del 2012) per violazione dell’art. 117 comma 2, lett. s), Cost., ove le stesse derogano all’obbligo dell’autorizzazione paesaggistica.
 
Allo stesso modo, dopo avere ribadito che la disciplina dei titoli richiesti per eseguire un intervento edilizio e l’indicazione dei casi in cui essi sono necessari, costituisce un principio fondamentale del governo del territorio, che vincola la legislazione regionale di dettaglio (come da sentenze n. 303 del 2003, n. 171 del 2012 e n. 309 del 2011), e che gli appostamenti regolati dall’art.2, comma 1, della legge regionale n. 25 del 2012, attraverso il rinvio all’art. 12, comma 5, della legge 11 febbraio 1992, n. 157 e all’art. 20 della legge regionale n. 50 del 1993, in quanto “fissi”, comportano una significativa e permanente trasformazione del territorio, che la stessa realizzazione secondo usi e consuetudini non è in grado di sminuire, ha concluso nel senso che il legislatore regionale ha valicato il limite determinato dall’art. 6, comma 6, lett. a), del d.P.R. n. 380 del 2001, relativo alla estensione dei casi di attività edilizia libera ad ipotesi non integralmente nuove, ma “ulteriori”, ovvero coerenti e logicamente assimilabili agli interventi di cui ai commi 1 e 2 del medesimo art. 6; di qui, dunque, la illegittimità costituzionale della norma denunciata per violazione dell’art. 117 comma 3 Cost..
 
7. Ciò posto, va allora rammentato come la stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 148 del 1993 abbia ormai da tempo precisato che nessun soggetto, imputato di aver commesso un fatto del quale una norma penale abbia escluso l’antigiuridicità, potrebbe venire penalmente condannato per il solo effetto d’una sentenza che dichiarasse illegittima la norma stessa, essendo “un fondamentale principio di civiltà giuridica, elevato a livello costituzionale dal secondo comma dell’art. 25 Cost. e già puntualizzato … dal primo comma dell’art. 2 cod. pen, ad esigere certezza ed irretroattività dei reati e delle pene; né le garanzie che ne derivano potrebbero venire meno, se non compromettendo l’indispensabile coerenza dei vari dettati costituzionali, di fronte ad una decisione di accoglimento. Sebbene privata di efficacia ai sensi del primo comma dell’art. 136 Cost. (e resa per se stessa inapplicabile alla stregua dell’art. 30, terzo comma, della legge n. 87 del 1953), quanto al passato la norma penale di favore continua perciò a rilevare, in forza del prevalente principio che preclude la retroattività delle norme incriminatrici”.
 
Allo stesso tempo, tuttavia, ha aggiunto la Corte, lo scrutinio di costituzionalità delle norme penali di favore si impone comunque in relazione all’ineludibile esigenza di evitare la creazione di «zone franche» dell’ordinamento sottratte al controllo di costituzionalità, entro le quali il legislatore potrebbe di fatto operare svincolato da ogni regola, stante l’assenza d’uno strumento che permetta alla Corte di riaffermare il primato della Costituzione sulla legislazione ordinaria. Qualora alla preclusione dello scrutinio di costituzionalità in malam partem fosse attribuito carattere assoluto, si determinerebbe, in effetti, una situazione palesemente incongrua: venendosi a riconoscere, in sostanza, che il legislatore è tenuto a rispettare i precetti costituzionali se effettua scelte di aggravamento del trattamento penale, mentre può violarli senza conseguenze, quando dalle sue opzioni derivi un trattamento più favorevole (sostanzialmente su questa stessa linea, più recentemente, Corte cost., n.5 del 2014).
 
Successivamente la Corte, con la sentenza n. 394 del 2006, ha rilevato che il principio di retroattività della norma più favorevole non presenta alcun collegamento con la libertà di autodeterminazione individuale, per l’ovvia ragione che la lex mitior sopravviene alla commissione del fatto, al quale l’autore si era liberamente autodeterminato sulla base del pregresso (e per lui meno favorevole) panorama normativo; la Corte ha quindi escluso che il principio di retroattività in mitius trovi copertura nell’art. 25, comma 2, Cost. (ex plurimis, sentenze n. 80 del 1995; n. 6 del 1978 e n. 164 del 1974; ordinanza n. 330 del 1995), trovando invece fondamento nel principio di eguaglianza, che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice.
 
Tuttavia, ha proseguito la Corte, altro è porre in essere una condotta che nel momento di sua commissione è penalmente lecita o punita in modo mite ed altro è porre in essere la stessa condotta in contrasto con la norma che in quel momento la vieta o la punisce in modo più severo. In tale contesto, ha concluso la Corte, il collegamento del principio della retroattività in mitius al principio di eguaglianza ne segna, peraltro, anche il limite: nel senso che, a differenza del principio della irretroattività della norma penale sfavorevole, assolutamente inderogabile, detto principio deve ritenersi suscettibile di deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli (sentenze n. 74 del 1980 e n. 6 del 1978; ordinanza n. 330 del 1995).
 
E’ dunque giocoforza ritenere che il principio di retroattività della norma penale più favorevole in tanto sia destinato a trovare applicazione, in quanto la norma sopravvenuta sia, dì per sé, costituzionalmente legittima. Il nuovo apprezzamento del disvalore del fatto può giustificare, in chiave di tutela del principio dì eguaglianza, l’estensione a ritroso del trattamento più favorevole, a chi ha commesso il fatto violando scientemente la norma penale più severa, solo a condizione che quella nuova valutazione non contrasti essa stessa con i precetti della Costituzione. La lex mitior deve risultare, in altre parole, validamente emanata: non soltanto sul piano formale della regolarità del procedimento dell’atto legislativo che l’ha introdotta e, in generale, della disciplina delle fonti, ma anche sul piano sostanziale del rispetto dei valori espressi dalle norme costituzionali. Altrimenti, ha concluso la Corte, non v’è ragione per derogare alla regola sancita dagli artt. 136, comma 1, Cost. e 30, comma 3, della legge n. 87 del 1953, non potendosi ammettere che una norma costituzionalmente illegittima, rimasta in vigore, in ipotesi, anche per un solo giorno, determini, paradossalmente, l’impunità o l’abbattimento della risposta punitiva, non soltanto per i fatti commessi quel giorno, ma con riferimento a tutti fatti pregressi, posti in essere nel vigore dell’incriminazione o dell’incriminazione più severa.
 
8. Tale impostazione, emersa, come appena visto, con riferimento alle norme prettamente “penali”, è stata poi ripresa dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 28 del 2010. Seppure non investente il profilo della violazione dell’art. 3 Cost. bensì quello dell’art. 117 (in ragione del contrasto di normativa interna con direttiva sovranazionale), la pronuncia appare significativa da un lato per l’oggetto del giudizio, significativamente riguardante, non una norma strettamente penale bensì una norma extrapenale che, come quelle oggetto del presente giudizio cautelare (intervenute sui titoli richiesti per la realizzazione dei capanni da caccia), comportava comunque una riduzione dell’area di applicabilità della norma penale, e dall’altro perché la Corte, cogliendo un nuovo titolo di “copertura” del principio nell’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea, ha ribadito che la retroattività della legge più favorevole non esclude l’assoggettamento di tutte le norme giuridiche di rango primario allo scrutinio di legittimità costituzionale e, quanto in particolare agli effetti delle sentenze di accoglimento (che è la tematica che essenzialmente si pone nella specie) ha espressamente demandato la loro valutazione al giudice rimettente “secondo i principi generali che reggono la successione nel tempo delle leggi penali”.
 
9. Da ultimo, vanno poi rammentate le più recenti pronunce della Corte costituzionale sempre nel senso della impossibilità di apporre limitazioni allo scrutinio di costituzionalità in ragione degli eventuali effetti che una sentenza di accoglimento potrebbe produrre nel giudizio a quo. 
 
10. Ritiene allora anzitutto la Corte che la legge regionale n. 25 del 2012, che ha esentato i capanni da caccia dalla necessità di permesso a costruire o di autorizzazione paesaggistica, e che, come detto, è stata successivamente dichiarata costituzionalmente illegittima, non possa trovare applicazione nella specie.
 
Preso atto che infatti della necessità di ricondurre il fondamento del principio di retroattività della lex mitior essenzialmente al principio di eguaglianza per le ragioni già manifestate dalla Corte costituzionale, va allo stesso tempo considerato che la medesima Corte costituzionale ha chiaramente condizionato la operatività del principio di retroattività al fatto che la norma di favore sia legittima, non potendo fondamentalmente ammettersi, come espressamente affermato, “che una norma costituzionalmente illegittima, rimasta in vigore, per ipotesi, anche per un solo giorno, determini, paradossalmente, l’impunità o l’abbattimento della risposta punitiva non soltanto per i fatti commessi quel giorno ma anche con riferimento a tutti i fatti pregressi posti in essere nel vigore dell’incriminazione più severa”. E ciò, tanto più dovendosi escludere che, nella specie, riguardante materia non rientrante tra quelle di ambito comunitario, possa rinvenirsi, nell’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea, una ulteriore copertura del principio di retroattività della lex mitior, che possa eventualmente fungere da contrappeso o limite alla necessaria condizione di conformità della norma ai principi costituzionali. E, del resto, se lo stesso giudice delle leggi ha affermato la necessità di escludere zone franche al cui interno l’attività normativa sia sottratta a qualunque controllo, ciò significa, allo stesso tempo, che il principio di retroattività della legge penale favorevole debba trovare un limite proprio nel divieto, per il legislatore (statale o regionale che sia), di introdurre aree di mero privilegio, a maggior ragione se determinate dalla realizzazione in un determinato territorio dello Stato piuttosto che in un altro. Se così non fosse, del tutto irrazionalmente il legislatore potrebbe sempre confidare nell’applicazione incondizionata della norma successiva più favorevole sebbene incostituzionale.
 
Ed allora, una volta ritenuta la generale riespansione ai fatti pregressi della norma non più incisa dalla disposizione di favore dichiarata illegittima, non può non riconoscersi come la stessa debba riguardare in primis coloro che ebbero a commettere il fatto nella vigenza della norma non ancora modificata in senso più favorevole non avendo potuto gli stessi certamente confidare in alcuna esenzione da possibili conseguenze penali, al contrario espressamente previste. In sostanza, la norma più severa, la cui piena operatività venga ad essere ripristinata dalla pronuncia di incostituzionalità, legittimamente potrebbe non essere applicata retroattivamente ai fatti commessi durante la vigenza della legge dichiarata incostituzionale rispetto ai quali, infatti, non può avere svolto alcuna funzione di orientamento e di limite delle scelte di comportamento dell’agente (venendo in rilievo se non altro, secondo alcuni, quanto meno un profilo di mancanza dell’elemento soggettivo), ma ben può essere applicata a tutti quei comportamenti che, posti in essere in precedenza, dovevano essere “confrontati”, dal proprio autore, con le norme vigenti in quel momento, tra cui quelle, nella specie, richiedenti il permesso a costruire e l’autorizzazione paesaggistica.
 
Del resto, non è inutile rammentare che già con la sentenza n. 51 del 1985, la Corte costituzionale, sia pure con riguardo al diverso aspetto della mancata conversione del decreto legge comprendente norma penale favorevole, ebbe a dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 2, comma 5 (oggi comma 6), c.p. laddove lo stesso rendeva applicabili le disposizioni in tema di successione di leggi di cui agli allora commi 2 e 3 chiarendo che il principio di cui all’art. 25, comma 2, Cost. doveva trovare applicazione soltanto relativamente ai fatti commessi nel vigore, anche se poi caducato, della “norma penale favorevole” contenuta in un decreto legge non convertito (giacché solo in tal caso il risultato della caducazione poteva equipararsi a “norma penale sfavorevole”) e non anche relativamente ai fatti cosiddetti pregressi.
 
Ed anzi, è significativo che, proprio in questa pronuncia, la vicenda della mancata conversione del decreto legge e quella della dichiarazione di illegittimità costituzionale, siano state accomunate dal giudice delle leggi in quanto entrambe caratterizzate da “fenomeni normativi del tipo ‘successorio”, ed entrambe determinative di fattispecie di “alternatività sincronica fra situazioni normative”. 
 
Va poi escluso che in senso contrario possa condurre il contenuto dell’art. 7 della Cedu come letto dalla giurisprudenza della Corte edu nel senso della necessità di applicare, nel caso in cui la legge penale in vigore al momento del fatto e quelle successive siano diverse, quella più favorevole (cfr. sentenza del 17/09/2009, Scoppola contro Italia).
 
Non può infatti non ricordarsi che i fenomeni dell’abrogazione e della dichiarazione di illegittimità costituzionale delle leggi vanno tra loro nettamente distinti, perché si pongono su piani diversi, discendono da competenze diverse e producono effetti diversi, integrando il primo un fenomeno fisiologico dell’ordinamento giuridico, derivante da una rinnovata e diversa valutazione del disvalore penale di un fatto, fondata sull’opportunità politica e sociale, operata dal Parlamento, competente a legiferare in uno Stato democratico di diritto, ed il secondo, invece, un evento di patologia normativa, attestante che mai quella norma avrebbe dovuto essere introdotta nell’ordinamento repubblicano, contraddistinto dal primato delle norme costituzionali, che non possono perciò essere violate dal legislatore ordinario; in particolare, gli effetti della declaratoria di incostituzionalità, a differenza di quelli derivanti dallo “lus superveniens”, inficiano fin dall’origine la disposizione impugnata (Sez. Un., n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260695; v. anche Corte cost. n. 1 del 1956; n, 127 del 1966 e n. 49 del 1970).
 
Ciò posto, e tenuto dunque conto di quanto espressamente statuito dagli artt. 136, comma 1, Cost., e 30, comma 3, L. n. 87 del 1953, basta osservare che nel caso esaminato dalla Corte di Strasburgo la lex mitior esaminata non era stata espunta dall’ordinamento, come invece accaduto nel caso di specie, per illegittimità costituzionale.
 
Consegue dunque a quanto appena detto che la riespansione della norma che imponeva ed impone, dopo la pronuncia n. 139 del 2013, la necessità del rilascio del titolo abilitativo e della autorizzazione paesaggistica ai fini della edificazione del capanno in questione provocata dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale suddetta ben può coinvolgere, senza alcuna lesione del principio di uguaglianza, la condotta di specie in quanto posta in essere certamente prima dell’entrata in vigore della legge regionale n. 25 del 6 luglio 2012, adottata successivamente anche al sequestro dell’opera, intervenuto in data 11/06/2012. Sicché, in definitiva, pur essendo non corrette le affermazioni dell’ordinanza impugnata circa l’automatica desumibilità della illiceità penale della condotta da una non meglio precisata sostanziale recessività della legge regionale rispetto a quella statale pur a fronte, al momento della decisione, e in parte ancora oggi, della indiscutibile vigenza della stessa, va ugualmente, in ragione di quanto sopra detto, ritenuto infondato l’assunto del ricorrente in ordine alla mancanza di fumus del reato.
 
11. Né può essere ritenuta applicabile la ulteriore normativa regionale ex lege n.12 del 24/2/2012, ancora oggi vigente perché mai sottoposta al vaglio costituzionale: come risulta infatti dall’ordinanza impugnata, ciò essendo evidentemente sufficiente ai fini di una delibazione, come quella in esame, la cui natura interlocutoria dipende evidentemente dalla natura cautelare del procedimento in oggetto, il capanno di specie presentava stabili strutture “in legno e metallo”, essendo invece la non necessità del permesso a costruire e dell’autorizzazione paesaggistica stata prevista, come testualmente indicato dall’art. 1 della legge regionale 24/02/2012 n.12 cit., per i capanni “realizzati interamente in legno”.
 
12. Anche il secondo motivo è infondato venendo dedotta questione meramente fattuale peraltro fondata sull’erroneo presupposto che la precarietà dell’opera coincida con il materiale costruttivo impiegato e non sia, piuttosto, insita, come necessario, nella sua durevole destinazione ai fini di caccia {cfr., tra le altre, Sez. 3, n. 22054 del 25/02/2009, Frank, Rv. 243710).
 
13. E’ invece fondato il terzo ed ultimo motivo inerente il profilo del periculum.
 
Va ricordato che già le Sezioni Unite di questa Corte ebbero ad affermare, proprio in relazione a manufatti abusivi, che il sequestro preventivo di cosa pertinente al reato è consentito anche nel caso di ipotesi criminosa già perfezionatasi, purché il pericolo della libera disponibilità della cosa stessa – che va accertato dal giudice con adeguata motivazione – presenti i requisiti della concretezza e dell’attualità e le conseguenze del reato, ulteriori rispetto alla sua consumazione, abbiano connotazione di antigiuridicità, consistano nel volontario aggravarsi o protrarsi dell’offesa al bene protetto che sia in rapporto di stretta connessione con la condotta penalmente illecita e possano essere definitivamente rimosse con l’accertamento irrevocabile del reato. (Sez. U., n.12878 del 29/01/2003, P.M. in proc. Innocenti, Rv. 223721). E successivamente, sulla scia di tale impostazione, si è ulteriormente specificato che è riconosciuta la possibilità di disporre il sequestro preventivo delle opere abusive già ultimate, quindi anche successivamente alla consumazione del reato, allorché, pur essendo cessata la permanenza, le conseguenze lesive della condotta sul bene protetto possano perdurare nel tempo, ma a condizione che: 1) sussista una prossimità temporale del sequestro rispetto alla realizzazione dell’opera e, conseguentemente, il requisito della attualità e concretezza della misura cautelare reale; 2) sia data una congrua puntuale motivazione sul periculum in mora sotto il profilo della sussistenza delle conseguenze antigiuridiche ulteriori rispetto alla ultimazione dei lavori, derivanti dall’uso del fabbricato (Sez. 4, n. 2389 del 06/12/2013, P.M. in proc. Gullo, Rv. 258182; v., altresì, Sez.3, n.6599/12 del 24/11/2011, Susinno, Rv. 252016; Sez.2, n.17170 del 23/04/2010, De Monaco, Rv. 246854; Sez.4, n.15821 del 31/01/2007, P.M. in proc. Bove e altro, Rv. 236601; Sez.3, n.4745/08 del 12/12/2007, Giuliano, Rv. 238783).
 
Anche con riguardo, poi, ai reati paesaggistici, questa Corte ha di recente sottolineato che la sola esistenza di una struttura abusiva ultimata non integra di per sé i requisiti della concretezza ed attualità del pericolo, in assenza di ulteriori elementi idonei a dimostrare che la disponibilità della stessa, da parte del soggetto indagato o di terzi, possa implicare una effettiva lesione dell’ambiente e del paesaggio (Sez. 3, n. 48958 del 13/10/2015, Giordano, Rv. 266011).
 
Tale indirizzo va ribadito: non è infatti dato comprendere perché la valutazione dell’attualità delle esigenze, da ancorare in concreto, come appena visto sopra con riguardo agli illeciti urbanistici, una volta ultimate le opere, ad una effettiva lesione del bene giuridico, dovrebbe, in caso di opere realizzate in zona vincolata, e per il solo fatto che, dunque, la lesione attingerebbe anche il profilo paesaggistico, esaurirsi nella sola constatazione di opera insediata in un tale contesto.
 
Né si comprende, sotto il profilo logico, se il parametro di valutazione è quello della concreta lesione del bene in rapporto alla avvenuta consumazione della condotta illecita, perché la sola diversa natura del bene (ambientale – paesaggistico in luogo di quello meramente urbanistico) dovrebbe comportare una diversa soluzione rispetto a quella, sostanzialmente incontrastata, adottata da questa Corte con riguardo ai reati edilizi, salva restando, naturalmente, la necessità di verificare in maniera più penetrante la compatibilità dell’uso dell’opera rispetto agli interessi tutelati dal vincolo proprio in ragione del peculiare bene giuridico tutelato (Sez. 3, n.40486 del 27/10/2010, P.M. in proc. Petrina ed altro, Rv. 248701).
 
Sicché, in adesione all’ orientamento sopra richiamato, e rifiutato ogni automatismo tra uso del bene ed alterazione dell’ecosistema che invece pare presiedere alle pronunce orientatesi in senso diverso (Sez. 3, n. 5954 del 15/01/2015, Chiacchiaro, Rv.264370; Sez. 3, n. 42363 del 18/09/2013, Colicchio, Rv. 257526; Sez. 3, n. 24539 del 20/03/2013, Chiantone, Rv.255560; Sez. 2, n. 23681 del 14/05/2008, Cristallo, Rv. 240621), deve ribadirsi la necessità che il giudice dia specifica motivazione, in caso di opere ultimate, dell’attualità delle esigenze cautelari nel senso appena ricordato.
 
Nella specie, invece, il Tribunale, pur avendo riconosciuto la esistenza da tempo del manufatto, ha escluso l’assenza del periculum esclusivamente facendo leva sulla “libera disponibilità” di esso di per sé sola tale da far perdurare le conseguenze dei reati. Tuttavia, una tale motivazione, da un lato, è inidonea a dare conto della sussistenza del periculum richiesto nei termini ricordati appena sopra, e dall’altro, anzi, per le incontestate ridotte dimensioni del capanno di specie, dotato, come risultante dal provvedimento di sequestro, di rete metallica “per favorire la crescita della vegetazione”, manifesta, per l’impossibilità di ravvisare, ad opera ultimata, una concreta incidenza dell’uso della struttura sul bene urbanistico e paesaggistico, la mancanza del requisito del periculum stesso con conseguente annullamento dell’ordinanza impugnata senza necessità di rinvio ex art. 620, comma 1, lett. I), c.p.p.
 
Il manufatto va conseguentemente dissequestrato e restituito all’avente diritto non essendo lo stesso suscettibile di confisca ex art. 324, comma 7, c.p.p ..
 
P.Q.M.
 
Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata nonché il decreto di sequestro preventivo del G.i.p. del Tribunale di Vicenza dell’ll/06/2012 disponendo la restituzione di quanto in sequestro all’avente diritto. Manda la cancelleria per le comunicazioni ex art. 626 c.p.p.
 
Così deciso in Roma, il 3 marzo 2016

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