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La Conferenza di Durban: un’occasione perduta

M. GABRIELLA IMBESI


Abstract

La 17° Conferenza ONU (COP 17) per la lotta al cambiamento climatico, cui hanno partecipato circa 190 Stati, si è conclusa senza l’accordo vincolante che molti avevano sperato.  Ha purtroppo pesato in tal senso l’opposizione sia di alcuni Paesi industrializzati che di altri Paesi in forte crescita economica; nel primo caso il comportamento ambientale egocentrico e disinteressato nei confronti delle sorti del pianeta “terra” appare addirittura incomprensibile, mentre nel secondo caso l’atteggiamento tenuto dagli Stati c.d. emergenti sembra almeno parzialmente giustificato dalla voglia di riscatto di Paesi che si affacciano sullo scenario internazionale alla pari con le grandi potenze economiche.
L’esito della Conferenza, che fino all’ultimo sembrava irrimediabilmente  compromesso, è stato solo in parte recuperato grazie agli sforzi diplomatici dell’Unione europea che è riuscita a costruire un’asse politica piuttosto eterogenea segnando la convergenza dei Paesi interessati al futuro cambiamento climatico.



I risultati della Conferenza di Durban
Si è recentemente conclusa la Conferenza delle Nazioni Unite (COP 17) per la lotta al cambiamento climatico, tenutasi a Durban (in Sudafrica) dal 28 novembre all’11 dicembre 2011. E’ stato un evento nel quale gli ambientalisti di tutto il mondo confidavano per continuare il percorso avviato con il Protocollo di Kyoto (adottato nel 1997 ed entrato in vigore solo nel 2005). L’aspettativa dunque era grande, sebbene realisticamente le possibilità di portare a casa un risultato concreto erano piuttosto scarse. Ciò tenuto conto del fatto che Paesi come gli Stati Uniti non hanno mai sottoscritto l’accordo di Kyoto e che anche gli Stati emergenti hanno dichiarato la propria indisponibilità a limitare l’emissione di gas serra nel momento in cui stanno conoscendo una fase di grande sviluppo economico.
Insomma, le premesse non erano delle più rosee ed in conclusione la Conferenza,  nonostante gli sforzi dell’Unione europea, si è rivelata un flop.
Il vecchio continente, alleato con i Paesi in via di sviluppo dell’area subsahariana ed in particolare con i piccoli Stati insulari (AOSIS, acronimo di The Alliance of Small Island States), ha cercato un accordo in extremis che alla fine, grazie a notevoli sforzi diplomatici, è stato formalmente accolto, ma che certo non può definirsi un successo ambientalista. L’interesse dei Paesi AOSIS è palesemente legato alla loro stessa sopravvivenza messa a rischio dall’emissione incontrollata di gas serra che di fatto provocherebbe il surriscaldamento del pianeta e, come diretta conseguenza dello stesso, un aumento del livello del mare che finirebbe con il sommergere i piccoli atolli e gli arcipelaghi.
L’impegno preso dalla Comunità europea di ridurre le emissioni di gas serra – cui alla fine sembrano aver aderito anche i Paesi più recalcitranti come Stati Uniti, Sud Africa, Brasile, India e Cina – si traduce in uno strumento giuridico che comunque sarà formalmente adottato solo dal 2015 e implementato addirittura dal 2020.
Si tratta dunque di una “dichiarazione d’intenti” diretta, da un lato, ad avviare una serie di iniziative intese a ridurre le emissioni nocive nel 2020 e, dall’altro lato, a perseguire l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale entro i 2° C., ma anche questo traguardo è rinviato a data da stabilirsi.
Un progetto ambizioso, realizzato solo sulla carta, in quanto al momento è stata approvata, da 38 Paesi industrializzati, solo la proroga del Protocollo di Kyoto al 1° gennaio 2013; mentre la reale decisione sulla missione da attuare in materia di gestione forestale o sulla disciplina dei diritti di emissione sarà rimandata al prossimo anno.
Insomma, un accordo sulla carta e neppure ampiamente condiviso.
Unico aspetto della Conferenza che effettivamente è stato realizzato è il Nuovo Fondo verde per il clima (GCF Green Climate Found) con il quale i Paesi sviluppati si sono impegnati a veicolare 100 bilioni di dollari per assistere gli Stati più poveri. Ad esempio la Germania ha impegnato 40 milioni di euro e la Danimarca 15 milioni di euro.
Il Fondo, che sarà attivo già dal 2012, rappresenta un’azione coordinata su scala mondiale diretta a favorire la mitigazione del clima entro il 2020.
Altro obiettivo di Durban consiste in una serie di accordi per rendere trasparente le azioni intraprese dai Paesi in via di sviluppo e da quelli sviluppati, al fine di limitare le emissioni di gas serra.
Sarà istituito un apposito Comitato di adattamento, composto da 16 Stati, che riferirà i progressi del coordinamento delle azioni promosse su scala internazionale proprio con lo scopo di ridurre la vulnerabilità dei Paesi in via di sviluppo ai cambiamenti del clima, soprattutto con riferimento agli eventi estremi che potrebbero verificarsi. Al riguardo, sarà approntato entro il 2012 anche un meccanismo tecnologico, a cura del Centro di tecnologia del clima (Climate Technology Centre) e della rete.

Alcune riflessioni a margine della Conferenza
Il divario tra la “piattaforma” di Durban, (la c.d. road map) che prevede di far sottoscrivere una convenzione entro il 2015, e la Convenzione di Kyoto, cioè un accordo giuridico vincolante per gli Stati sottoscrittori, è evidente, nonostante le più ottimistiche previsioni. Il fallimento della Conferenza è il frutto delle scelte di politica economica degli Stati Uniti che si sono sempre mostrati ostili a ridurre le emissioni di gas serra, ampiamente sostenuti in quest’impresa da Canada, Australia, Nuova Zelanda, Giappone e Russia.
La delusione maggiore è per gli Stati più poveri dell’Africa che vivono di sola agricoltura e per i quali i cambiamenti climatici possono significare siccità, legata al previsto aumento della temperatura; drastica riduzione dei prodotti agricoli e innalzamento dei prezzi. Tale situazione porterebbe all’ulteriore peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni contadine africane.
Le scelte adottate a Durban non rispondono alle imminenti esigenze e si limitano purtroppo ad un rinvio per azioni future: nell’immediato la Conferenza non avrà un impatto positivo sul clima. Come alcuni osservatori internazionali hanno affermato l’Europa, forse ipocritamente, si è accontentata della vaga promessa di un trattato senza assicurarsi se sarà mai effettivamente sottoscritto. Anche perché sarà difficile che siano modificate le condizioni nelle quali si è svolta la Conferenza di Durban, con la Comunità europea che insisteva per una soluzione di compromesso, Cina ed India che si sono opposte strenuamente e gli Stati Uniti che stavano a guardare dichiarando la propria disponibilità ma sostanzialmente contrari ad un qualsiasi accordo.
Tutte le aspettative sono perciò riposte nella prossima conferenza che si terrà nel Qatar dal 26 novembre al 6 dicembre 2012.

 

Pubblicato su AmbienteDiritto.it l’1 febbraio 2012
 


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