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Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Diritto del lavoro, Sicurezza sul lavoro, 231 Numero: 30039 | Data di udienza: 13 Maggio 2025

231 – Responsabilità dell’ente – Modello di organizzazione e di gestione – Contenuto – Valutazione dei rischi – D.lgs. n. 231/2001 – Responsabilità amministrativa degli enti derivante da reati colposi di evento – Criteri di imputazione oggettiva e soggettivo – SICUREZZA SUL LAVORO – Preposto – Posizione di garanzia – Compiti e responsabilità – Osservanza delle disposte misure antinfortunistiche – Vigilanza e segnalazione di pericolo – POS – D.Lgs. 81/2008 – DIRITTO DEL LAVORO – Antinfortunistica sul lavoro – Colpa omissiva impropria – Responsabilità penale anche in concorso con il datore di lavoro – RSPP.


Provvedimento: SENTENZA
Sezione: 4^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 1 Settembre 2025
Numero: 30039
Data di udienza: 13 Maggio 2025
Presidente: CIAMPI
Estensore: BRANDA


Premassima

231 – Responsabilità dell’ente – Modello di organizzazione e di gestione – Contenuto – Valutazione dei rischi – D.lgs. n. 231/2001 – Responsabilità amministrativa degli enti derivante da reati colposi di evento – Criteri di imputazione oggettiva e soggettivo – SICUREZZA SUL LAVORO – Preposto – Posizione di garanzia – Compiti e responsabilità – Osservanza delle disposte misure antinfortunistiche – Vigilanza e segnalazione di pericolo – POS – D.Lgs. 81/2008 – DIRITTO DEL LAVORO – Antinfortunistica sul lavoro – Colpa omissiva impropria – Responsabilità penale anche in concorso con il datore di lavoro – RSPP.



Massima

CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. 4^, 1 settembre 2025 (ud. 13/05/2025), Sentenza n. 30039

 

231 – Responsabilità dell’ente – Modello di organizzazione e di gestione – Contenuto – Valutazione dei rischi – C.d. “MOG” – D.lgs. n. 231/2001.

Il modello di organizzazione e gestione di cui al d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 non deve contenere prescrizioni operative di dettaglio, essendo lo stesso preposto a solo a delineare i principi, le procedure generali e i flussi informativi necessari per prevenire la realizzazione di reati. La specificità operativa, infatti, è demandata a strumenti diversi e complementari rispetto al c.d. “MOG”, quali i documenti di valutazione dei rischi, le istruzioni operative e le procedure tecniche di dettaglio. Il modello organizzativo in disamina ha, invero, una funzione di governance e di controllo dei processi decisionali. Inoltre, se è vero che l’adozione di un modello organizzativo conforme agli standard internazionali non determina, ex se, l’esenzione da responsabilità di cui all’art. 30, comma 5, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, altrettanto vero è che detta circostanza rappresenta un elemento che può essere superato solo attraverso la compiuta dimostrazione della sostanziale inadeguatezza del sistema organizzativo adottato.

 

231 – Responsabilità amministrativa degli enti derivante da reati colposi di evento – Criteri di imputazione oggettiva e soggettivo.

In tema di responsabilità amministrativa degli enti derivante da reati colposi di evento, i criteri di imputazione oggettiva sono alternativi e concorrenti tra di loro e devono essere riferiti alla condotta anziché all’evento. L’interesse è il criterio soggettivo (indagabile ex ante) consistente nella prospettazione finalistica, da parte del reo-persona fisica, di arrecare un interesse all’ente mediante il compimento del reato, a nulla valendo che poi tale interesse sia stato concretamente raggiunto o meno.

 

SICUREZZA SUL LAVORO – Preposto – Posizione di garanzia – Compiti e responsabilità – Osservanza delle disposte misure antinfortunistiche – Vigilanza e segnalazione di pericolo – D.Lgs. 81/2008.

Il preposto assume una posizione di garanzia ed è debitore di sicurezza nei confronti dei lavoratori ma solo con riferimento all’area di rischio che è chiamato a gestire in relazione alla natura e alla entità delle funzioni e dei poteri esercitati. Il preposto, pertanto, non ha soltanto il compito di vigilare sull’osservanza delle disposte misure antinfortunistiche, ma anche l’incombenza di rendere edotto delle deficienze delle misure protettive colui che ha l’obbligo di provvedere alla relativa adozione. In sintesi, la responsabilità del preposto si articola su due livelli: la vigilanza sull’osservanza delle misure di sicurezza già predisposte e sull’uso corretto dei dispositivi di protezione; la segnalazione tempestiva al datore di lavoro delle situazioni di pericolo riscontrate e delle deficienze rilevate.

DIRITTO DEL LAVORO – Antinfortunistica sul lavoro – Colpa omissiva impropria – Responsabilità penale anche in concorso con il datore di lavoro – RSPP – POS.

In tema di colpa omissiva impropria, segnatamente, con riguardo alla verifica dell’imputazione causale dell’evento, e, in particolare, in materia di infortunistica sul lavoro, relativamente alla posizione del garante, per il quale può sussistere responsabilità penale, seppur privo di poteri decisionali e di spesa, quando l’evento lesivo sia riconducibile ad una situazione di pericolo che avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare.  È stato precisato che il soggetto incaricato della suddetta funzione può essere ritenuto responsabile, anche in concorso con il datore di lavoro, del verificarsi di un infortunio, ogni qual volta l’evento sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione faccia seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle iniziative idonee a neutralizzare tale situazione.

(annulla e in parte rigetta il ricorso avverso sentenza del 15/03/2024 – CORTE DI APPELLO DI CALTANISSETTA), Pres. CIAMPI, Rel. BRANDA, Ric. S.g.s. Ser. Srl


Allegato


Titolo Completo

CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. 4^, 01/09/2025 (ud. 13/05/2025), Sentenza n. 30039

SENTENZA

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

Composta da:

omissis

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:
S.g.s. Ser. Srl
Bio. di Gela Srl (già Raffineria di Gela Spa)
Tu.Se., nato a omissis il ../../….;
Ma.Sa., nato a omissis il ../../….;
Fi.Ro., nato a omissis il ../../….;
Ag.Pa., nato a omissis il ../../….;
Ie.Sa., nato a omissis il ../../….;
Be.Al., nato a omissis il ../../….;
Mo.Ma., nato a omissisL il v
Ca.Ni., nato a omissis il ../../….;
Gi.Ma., nato a omissis il ../../….;
Pe.An. (deceduto), nato a omissis il ../../….;
Za.Fa., nato a omissis il ../../….;
Ca.Be., nato a omissis il ../../….;
Com. Sud a.r.l.

inoltre:
Mo.An.

avverso la sentenza del 15/03/2024 della Corte di appello di Caltanissetta

Visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;

udita la relazione svolta dal Consigliere Francesco Luigi Branda;

udito il Procuratore Generale, in persona del Sostituto Procuratore Fabio Picuti che ha concluso, chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della pena con riferimento a Ca.Be. e Za.Fa., con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Caltanissetta; 

rigetto dei ricorsi proposti da Ca.Ni., Gi.Ma., Mo.Ma., Be.Al., Ag.Pa., Ie.Sa., Fi.Ro., ” Raf. di Gela ” Spa; annullamento senza rinvio della sentenza impugnata con riferimento a Ma.Sa.;

annullamento senza rinvio della sentenza impugnata con riferimento alla società ” S.g.s. Ser. ” Srl limitatamente alle statuizioni concernenti le parti civili costituite;

inammissibilità dei ricorsi proposti da Tu.Se. e dalla società ” Com. Sud ” a r.l.; estinzione del reato per morte del reo con riferimento a Pe.An.

È presente l’avvocato Macrì Salvatore del Foro di Gela in difesa della parte civile Mo.An., il quale si riporta alle conclusioni scritte e nota spese che deposita.

È presente l’avvocato Dallera Giovanni Stefano del Foro di Milano in difesa di Ag.Pa., Ie.Sa., Be.Al., Mo.Ma. che si riporta ai motivi di ricorso e ne chiede l’accoglimento; deposita copia documentazione già in atti.

È presente l’avvocato Raffo Antonio del Foro di Taranto in sostituzione ex art. 102 c.p.p., per delega orale, dell’avvocato Raffo Carlo del Foro di Taranto in difesa di Ca.Ni. che si riporta ai motivi di ricorso e ne chiede l’accoglimento.

È presente l’avvocato Ventura Giacomo Angelo Rosario del Foro di Gela in sostituzione ex art. 102 c.p.p., come da nomina che deposita, dell’avvocato Spina Filippo Antonio del Foro di Gela in difesa di Com. Sud a.r.l. che si riporta ai motivi di ricorso e ne chiede l’accoglimento.

È presente l’avvocato Autore Ryolo Carlo del Foro di Messina in difesa di Za.Fa., il quale chiede l’accoglimento dei motivi di ricorso e della memoria depositata, chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata.

È presente l’avvocato Ventura Giacomo Angelo Rosario del Foro di Gela in difesa di Tu.Se., Fi.Ro., il quale insiste per l’accoglimento dei motivi di ricorso.

È presente l’avvocato Bolognesi Dario del Foro di Ferrara in difesa di Ca.Be. si riporta ai motivi di ricorso e alla memoria aggiuntiva depositata chiedendone l’accoglimento. 

È presente l’avvocato Raffo Antonio del Foro di Taranto in difesa di Ca.Ni., Gi.Ma., Pe.An., il quale si riporta ai motivi di ricorso e ne chiede l’accoglimento.

È presente l’avvocato Crapanzano Ornella del Foro di Gela in difesa di S.G.S. Ser. Srl la quale insiste nei motivi di ricorso.

È presente l’avvocato Cataldo Gualtiero del Foro di Gela in difesa di Bio. di Gela Srl -, (già Raffineria di Gela Spa) che insiste nell’accoglimento di tutti i motivi di ricorso.

È presente l’avvocato Gagliano Antonio del Foro di Gela in difesa di Ma.Sa., il quale si riporta ai motivi di ricorso chiedendone l’accoglimento.

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Caltanissetta, con la sentenza indicata in epigrafe, ha confermato la decisione emessa dal Tribunale di Gela che, in data 11 febbraio 2021, aveva condannato ciascuno degli imputati Ca.Be., Za.Fa., Ca.Ni., Mo.Ma., Be.Al., Ag.Pa., Ie.Sa., Fi.Ro. e Tu.Se. ad un anno e otto mesi di reclusione ciascuno, mentre aveva irrogato la pena di un anno e sei mesi di reclusione a Gi.Ma., Pe.An. e Co.Vi., e quella di un anno e quattro mesi di reclusione a Ma.Sa. A tutti era stato concesso il beneficio della sospensione condizionale.

La Corte distrettuale ha altresì confermato la pronuncia di primo grado riguardo all’affermazione di responsabilità per l’illecito amministrativo, ai sensi degli artt. 5 lett. a) e 25-septies del D.Lgs. n. 231/2001, nei confronti delle società Raffineria di Gela Spa, P.E.C. Srl, S.G.S. Ser. Srl e Com. Sud Srl, condannate ciascuna al pagamento di 300 quote del valore di Euro 500,00 per quota.

2. In breve il fatto, per una migliore illustrazione dei motivi di ricorso.

La vicenda oggetto di giudizio trae origine da un infortunio mortale verificatosi il 28 novembre 2012 presso l'”Isola 6″ della Raffineria di Gela, in cui perse la vita Ro.Fr., dipendente con mansioni di operaio della Com. Sud Srl. L’incidente si verificò durante lo svolgimento di lavori di cantiere finalizzati al potenziamento della Linea P2, che erano stati avviati nel 2005 e poi sospesi.

Durante le fasi conclusive di un’operazione di movimentazione di tubi di acciaio, del diametro di 36 pollici, con lunghezza pari a circa 24 metri e peso di quasi otto tonnellate ciascuno, sei dipendenti della Com. Sud (Ca. ed Ve.Em., autisti gruisti, Tu.Se., capoturno preposto, Ro.Fr., Sc.Vi. e Pu.Ro., operai) stavano procedendo al sollevamento dei due tubi per caricarli sul pianale di un autocarro articolato, che avrebbe dovuto trasportarli nella zona ingresso merci del pontile principale della Raffineria. I tubi oggetto di movimentazione facevano parte di un gruppo di tre, che erano stati saldati in loco e collocati parallelamente l’uno all’altro. Nelle immediate vicinanze, a una distanza di circa 1,5 metri, si trovava una catasta composta da 19 tubi della medesima tipologia, disposti su vari livelli con una conformazione a piramide, la cui base poggiava su altri 4 tubi del diametro di 16 pollici, disposti trasversalmente. A causa del forte vento, il caricamento era stato limitato a due soli tubi, e le operazioni erano terminate dopo circa un’ora. L’autoarticolato era stato quindi condotto da Ca. verso il luogo di deposito prescelto, accompagnato da altri lavoratori con funzione di segnalatori, dato l’ingombro del carico che sporgeva di oltre nove metri rispetto al pianale.

Gli operai erano tornati a piedi presso l’area di prefabbricazione e stoccaggio dell'”Isola 6″; Sc.Vi., Pu.Ro. e Ro.Fr. si erano occupati di raccogliere le attrezzature utilizzate, mentre Ca. aveva fatto rientrare il braccio della gru.

Intorno alle 18:15-18:30, alcuni dei 19 tubi della catasta vicina cadevano improvvisamente dal vertice della piramide provocando un forte rumore, e uno di essi travolgeva Ro.Fr., che si trovava alla base della catasta, nello spazio intercorrente tra essa e l’unico tubo rimasto del gruppo originario di tre. Il Ro.Fr. rimaneva intrappolato e schiacciato tra il tubo caduto dalla catasta e il tubo rimasto a terra, riportando gravissimi traumi che ne causavano il decesso per insufficienza biventricolare acuta da trauma toracico chiuso da schiacciamento.

2. 1 È altresì utile rappresentare in sintesi l’organizzazione del cantiere finalizzato al potenziamento della Linea P2 e i rapporti contrattuali tra i protagonisti della vicenda.

Il cantiere aveva ripreso la sua attività a partire dal 28 maggio 2012, dopo che la committente Raffineria di Gela Spa, di cui era rappresentante legale l’ing. Ca.Be., aveva affidato alla P.E.C. Srl i lavori di realizzazione del progetto, con l’incarico di sviluppare l’ingegneria di dettaglio, eseguire il coordinamento delle imprese esecutrici e supervisionare l’attività di cantiere. Il contratto, sottoscritto il 7 novembre 2011, prevedeva l’ultimazione delle opere entro il 31 dicembre 2012. Contestualmente, la Raffineria di Gela aveva affidato la gestione del piano della sicurezza alla S.G.S. Ser..

Il 30 dicembre 2011, l’ing. Be.Al., in qualità di responsabile dei lavori e coordinatore della sicurezza in fase di progettazione (ruoli affidatigli dall’ing. Ca.Be.), aveva predisposto il piano di sicurezza e coordinamento e, in data 2 gennaio 2012, aveva nominato l’ing. Va.Gu. come responsabile del coordinamento in sede di esecuzione (CSE). La P. E.C. Srl (impresa affidataria) aveva subappaltato alla Com. Sud Srl (impresa esecutrice) l’esecuzione di lavori meccanici, comprendenti la saldatura dei tubi e la loro movimentazione. Il contratto di subappalto era stato stipulato il 25 gennaio 2012, mentre l’autorizzazione al subappalto era stata concessa da Raffineria di Gela Spa il 16 febbraio 2012. In data 16 ottobre 2012, un incendio alla radice pontile del Porto Isola di Gela aveva danneggiato l’area dove la COSMI Srl effettuava le saldature; l’attività di saldatura veniva trasferita in “Isola 6”.

Il 19 ottobre 2012, veniva rilasciato un permesso di lavoro per consentire la prefabbricazione della Linea P2 sul piazzale adiacente all’incrocio 12 in area 6, sottoscritto dall’ing. Ag.Pa. in qualità di assistente del coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione. Il 15 novembre 2012, durante una riunione di sicurezza e coordinamento, il Coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione, ing. Ie.Sa., richiedeva alla Com. Sud Srl un’integrazione del Piano operativo di sicurezza (POS) che ricomprendesse anche le nuove attività di saldatura. L’integrazione veniva adempiuta il 27 novembre 2012, con validazione dello stesso piano alle ore 15:01 del 28 novembre 2012, giorno dell’incidente.

2.2 Sotto il profilo processuale, la Corte di appello, ha preliminarmente proceduto all’esame delle questioni sollevate dalle difese degli imputati, concernenti la legittimazione delle parti civili costituite, l’indeterminatezza del capo di imputazione e la difformità tra fatto contestato e fatto accertato, l’inutilizzabilità della prova assunta in incidente probatorio nei confronti degli imputati Ie.Sa., Be.Al., Ag.Pa., Ma.Sa. e Tu.Se., i quali avevano lamentato di non aver ricevuto avviso dell’incidente probatorio e di non aver potuto esercitare le loro prerogative di difesa nel corso del suo espletamento. Sono state altresì affrontate le contestazioni relative all’estensione dell’accertamento peritale a profili non indicati nei quesiti. Conseguentemente, all’esito della ritenuta infondatezza delle stesse e del rigetto delle richieste di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale avanzate dalle difese di Fi.Ro. e Ma.Sa., la Corte distrettuale, pronunciando nel merito, ha confermato le conclusioni del giudice di primo grado.

È stato innanzitutto confermato l’accertamento, secondo cui il crollo della catasta era stato causato da un cedimento, determinato dalla inidoneità della zona di lavorazione “Isola 6” e dalla instabilità della catasta stessa.

I sistemi di contenimento della base della catasta erano palesemente inadeguati; gli stessi non potevano essere considerati come vizi occulti, posto che molti testi, presenti al primo sopralluogo, avevano da subito evidenziato la presenza di puntelli di legno marci o spezzati. Inoltre, si è sottolineato che la collocazione dei suddetti materiali in un’area aperta per un periodo di anni sette, con esposizione agli ordinari e agli straordinari eventi atmosferici, non poteva lasciare indenni da usura i sistemi di contenimento, anche se originariamente fossero stati adeguati e solidi. Tutto ciò avrebbe reso necessaria una revisione dei rischi del luogo di lavoro, specialmente dopo il verificarsi dell’incendio del 16.10.2012, allorquando l’attività di saldatura dei tubi venne spostata presso l’area “Isola 6”, area mai cantierizzata fino a quel momento.

È stato perciò evidenziato che la necessità di garantire manutenzione a quella catasta, illustrata attraverso valutazioni tecniche dal perito Ro., poteva essere agevolmente compresa anche avvalendosi dei più semplici canoni della diligenza, non necessariamente professionale. Infatti, le condizioni in cui versava la catasta rendevano fragile il suo equilibrio e costituivano indefettibilmente, se non la principale, quantomeno una delle cause del crollo, poiché anche un minimo, flebile urto, avrebbe potuto provocare il cedimento dei puntelli e il rotolamento dei tubi.

La Corte di merito ha poi ritenuto di condividere l’opinione del Tribunale di Gela in ordine all’applicabilità al caso di specie della disciplina del Titolo IV del D.Lgs. n. 81/2008, concernente i cantieri temporanei o mobili, respingendo le argomentazioni difensive che negavano la riconducibilità dell'”Isola 6″ all’area di cantiere. È stato richiamato il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui nella nozione di “luogo di lavoro”, rilevante ai fini della sussistenza dell’obbligo di attuare le misure antinfortunistiche, rientra ogni luogo in cui venga svolta e gestita una qualsiasi attività implicante prestazioni di lavoro, indipendentemente dalle finalità della struttura in cui essa si esplichi e dell’accesso ad essa da parte di terzi estranei all’attività lavorativa. Tale ampia nozione comprende ogni luogo nel quale il lavoratore deve o può recarsi per provvedere ad incombenze di qualsiasi natura in relazione alla propria attività.

Il fatto che la catasta crollata subisse già da tempo gli effetti dell’incuria, precedenti all’affidamento dell’appalto alla P.E.C. non poteva valere ad escludere la responsabilità della ditta appaltatrice e di quella subappaltatrice. Richiamando la giurisprudenza di legittimità relativa ad un’ipotesi analoga, in cui un’impresa era chiamata a lavori da svolgersi con strumenti preesistenti in cantiere (nel caso esaminato, i ponteggi), si è affermato che, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, nel caso in cui diverse imprese assumano in appalto o in subappalto l’esecuzione di opere che, per la loro natura, impongano l’utilizzo di strutture già precedentemente installate, sussiste l’obbligo, per ciascun imprenditore, di controllare che l’installazione delle stesse risulti conforme alla vigente normativa antinfortunistica, posto che tale obbligo grava su tutti coloro ai quali compete la direzione dei lavoratori.

Pertanto, anche i soggetti con ruoli di responsabilità in seno a Bio. di Gela, P.E.C. Srl e COSMI avrebbero dovuto attivarsi per controllare lo stato della catasta, e a maggior ragione vi era tenuta SGS Ser. che, per contratto, era tenuta assicurare l’adempimento di tutti gli obblighi di sicurezza. Procedendo nell’analisi, la Corte ha esaminato la catena delle omissioni e delle responsabilità che hanno determinato l’evento infortunistico. Ha preliminarmente ricordato i ruoli assunti dalle società e dalle persone fisiche imputate rispetto alle attività in corso al momento dell’infortunio, confermando l’affermazione di responsabilità sancita dal primo giudice.

3. Avverso la sentenza della Corte di appello di Caltanissetta gli imputati e le società coinvolte, a mezzo dei propri difensori di fiducia, propongono ricorso per cassazione articolando le seguenti censure.

4. Il ricorso di Ber. Ca.Be., amministratore delegato di RA.GE (Bio. di Gela) Spa

4.1 Il ricorrente, con il primo motivo deduce violazione degli artt. 90 e 93 D.Lgs. 81/2008 ed erronea applicazione dell’art. 40 cod. pen., sostenendo che la Corte di appello ha erroneamente ritenuto sussistente un obbligo impeditivo dell’evento in capo all’ing. Ca.Be., pur in presenza di una valida nomina del Responsabile dei Lavori. L’argomentazione si fonda sulla considerazione che l’art. 93 D.Lgs. 81/2008, come modificato dal D.Lgs. 106/2009, stabilisce che “il committente è esonerato dalle responsabilità connesse all’adempimento degli obblighi limitatamente all’incarico conferito al responsabile dei lavori”.

La novella del 2009 ha soppresso il secondo periodo che manteneva in capo al committente – nonostante il conferimento dell’incarico al responsabile dei lavori – le responsabilità connesse alla verifica degli adempimenti degli obblighi di cui agli articoli 90, 92, co. 1, lettera e), e 99. Il ricorrente richiama la Relazione di accompagnamento al D.Lgs. 106/2009, secondo cui la modifica deriva dalla necessità di rettificare la precedente formulazione, la quale impediva che la nomina del responsabile dei lavori potesse comportare un passaggio di responsabilità.

L’assunto della Corte di merito, secondo cui non è sufficiente il mero dato formale della nomina, contraddice, secondo il ricorrente, la ratio della normativa suindicata, che prevede la figura del Responsabile dei Lavori come alternativa e non cumulativa a quella del Committente. Inoltre, il richiamo all’art. 26 D.Lgs. 81/2008 è erroneo perché presuppone che il Committente abbia la disponibilità giuridica dei luoghi, mentre, nel caso concreto, la disponibilità era stata ceduta all’impresa affidataria P.E.C.. L’istante evidenzia che lo stesso perito Ro. riconosceva l’esonero del committente da ogni responsabilità in seguito alla nomina del responsabile dei lavori.

4.2 Il secondo motivo lamenta la manifesta illogicità della sentenza in ordine all’affermazione secondo cui l’ing. Ca.Be. non avrebbe fatto nulla per segnalare la necessità di verificare la stabilità della catasta in “Isola 6” prima dell’inizio dei lavori.

Il ricorrente sottolinea una contraddizione evidente nel testo della pronuncia: da un lato la sentenza afferma l'”assenza di qualsivoglia documento che attesti l’esecuzione di una valutazione di rischio per la realizzazione della catasta”, dall’altro dà atto che nel Piano di Sicurezza e Coordinamento è scritto che “I materiali devono essere disposti in modo da evitare il crollo o il ribaltamento”. Questa disposizione del PSC indica chiaramente la necessità di valutare il rischio di crollo o ribaltamento di tutti i materiali costituenti le cataste. L’uso dell’indicativo presente per il verbo servile significa che tutti i materiali, sia quelli già presenti sia quelli da disporre, dovevano essere collocati in modo da evitare il crollo. L’espressa indicazione dimostra che il problema non era stato ignorato e che la valutazione spettava alle figure a ciò deputate.

4.3 Con il terzo motivo, è contestata l’irrilevanza causale delle presunte condotte riferibili all’ing. Ca.Be., sostenendo che la Corte di appello ha travisato la prova, ritenendo che la catasta che ha provocato l’incidente sia quella trasferita nella disponibilità del cantiere e non una nuova catasta realizzata da Com. Sud.

Il ricorrente evidenzia che, come risulta dall’elaborato peritale, le tubazioni erano inizialmente stoccate in forma parallelepipeda, mentre la ditta esecutrice, a seguito del trasferimento delle attività in “Isola 6”, le ha riaccatastate in forma piramidale, con eccentricità. Non solo si trattava di una catasta diversa per composizione (tubi già saldati e quindi più pesanti), ma di natura completamente diversa dal punto di vista strutturale.

Le forze che agiscono alla base di una catasta piramidale, calcolate dal perito, sono differenti da quelle di una catasta parallelepipeda, imponendo sui vincoli alla base sforzi orizzontali ben superiori. Conseguentemente, i sistemi di ritenuta necessari per una catasta piramidale sono inevitabilmente diversi, con la conseguenza che i presidi preesistenti erano inadeguati alla nuova configurazione, a prescindere dalle loro condizioni manutentive. Infine, la trasformazione dell'”Isola 6″ da mero deposito in area di saldatura, ha rappresentato un fattore sopravvenuto in grado di interrompere il presunto nesso causale.

4.4 Il quarto motivo è diretto a contestare l’insussistenza di colpa con riferimento al mancato intervento per la sospensione dei lavori, sostenendo l’imprevedibilità dell’evento.

La Corte ha affermato che la condizione di fragilità della catasta era “immediatamente percepibile”, ma ha fornito un’interpretazione illogica del verbale della riunione dell’8.11.2012. In tale riunione, alla presenza dell’ing. Ca.Be., il Responsabile dei Lavori dava atto di aver esaminato il verbale di sopralluogo presso l'”Isola 6″ del 26.10.2012 firmato dall’ing. Ag.Pa., che attestava il “corretto stoccaggio delle tubazioni”. Non vi era alcuna ragione per non fare affidamento su questa indicazione che, solo col senno del poi, avrebbe potuto essere considerata falsa.

L’ing. Ca.Be. aveva affidato la gestione della sicurezza a professionisti esperti e non era stato raggiunto da alcun campanello di allarme che potesse mettere in dubbio la sicurezza. Aveva riposto legittimo affidamento sul fatto che la gestione del cantiere era conforme alle norme e che non vi era alcun rischio. La ritenuta responsabilità per non aver sospeso i lavori appare pertanto priva di fondamento.

4.5 Il quinto motivo lamenta la violazione dell’art. 69 cod. pen. nella determinazione della pena, sostenendo che la Corte di appello non ha offerto motivazione sulla erronea commisurazione della pena applicata pari a un anno e otto mesi.

La pena base è stata individuata in anni due di reclusione, indicata come “minimo edittale” per la circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 589, co. 2, cod. pen., su cui è stata applicata la diminuzione ad anni 1 e mesi 8 per le attenuanti generiche. Il computo così formulato è in violazione dell’art. 69 cod. pen. che prevede, in caso di concorso di circostanze eterogenee, un giudizio di bilanciamento. Se, all’esito del bilanciamento, viene riconosciuta la prevalenza delle attenuanti, la relativa riduzione deve essere applicata alla cornice edittale del reato base ex art. 589 co. 1 cod. pen., senza considerare il diverso compasso sanzionatorio collegato alla circostanza aggravante ritenuta subvalente.

5. Il ricorso di Za.Fa., responsabile per la gestione dei progetti di RA.GE Spa

5.1 Con il primo motivo, il ricorrente Za.Fa. contesta l’erronea interpretazione dell’art. 40, ultimo co., cod. pen. nell’individuazione di una responsabilità per mancato impedimento dell’evento.

La Corte distrettuale ha ritenuto la responsabilità di Za.Fa., senza verificare se, sulla base dei compiti attribuiti o delle mansioni svolte, l’imputato risultasse gestore del rischio, destinatario del dovere di attivarsi e munito dei poteri impeditivi. Inoltre, è stata costruita un’ipotesi di responsabilità per mancato impedimento dell’evento, prescindendo dalla verifica dell’omissione connotata da profili di colpa e del nesso eziologico tra condotta ed evento. Il profilo di colpa è stato contraddittoriamente individuato nel non aver valutato la stabilità della catasta prima della sottoscrizione del contratto, mentre la realizzazione della condotta omissiva è stata collocata in epoca successiva al conferimento dell’appalto, risultando quindi del tutto avulsa dalla fase della presunta colpa.

5.2 Il secondo motivo censura la mancanza di motivazione sul ruolo attribuito all’imputato Za.Fa.

La Corte distrettuale, a fronte delle argomentazioni difensive sulla specifica posizione di Za.Fa. (che non rivestiva la qualifica di committente né altra figura garante della sicurezza), ha ritenuto gli argomenti difensivi sovrapponibili a quelli esaminati per il coimputato Ca.Be.

Nell’atto di appello si contestava, anche a prescindere dai doveri del committente, l’esistenza di una specifica posizione di garanzia in capo a Za.Fa. L’aver equiparato la sua posizione a quella del committente rappresenta il mancato esame delle doglianze difensive e l’assoluta carenza di un percorso argomentativo personalizzato. Alla luce del ruolo di project leader, le eventuali condotte individuate (partecipazione alle riunioni di sicurezza e redazione del permesso di lavoro) assumono assoluta irrilevanza se non correlate all’esistenza di una posizione di garanzia in capo a Za.Fa., semplice dipendente della Raffineria.

5.3 Il terzo motivo contesta l’illogicità della motivazione per travisamento della prova, laddove è stato affermato che Za.Fa., di suo pugno, sottoscrisse e compilò il permesso di lavoro (il n. 0511985) che autorizzò lo spostamento dell’attività di saldatura.

Come risulta dal permesso di lavoro n. omissis, Za.Fa. ha firmato esclusivamente il quadro “A”, quale richiedente il permesso di lavoro, mentre altri soggetti hanno verificato le misure di prevenzione e autorizzato le lavorazioni. L’errore, secondo il ricorrente, ha inciso sulla ricostruzione dei profili di responsabilità dell’imputato in quanto, dall’effettivo comportamento di Za.Fa., non è possibile ricavare elementi che attestino una sottovalutazione del rischio, dal momento che le relative valutazioni non erano di sua competenza.

Peraltro, la stessa Corte, in altra parte della sentenza, attribuisce la condotta ad altro coimputato (pag. 6: “il 19.10.2012 era stato aperto un permesso di lavoro per prefabbricazione linea P2, sottoscritto dall’ing. Ag.Pa. coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione dei lavori”).

5.4 Il quarto motivo lamenta l’illogicità della motivazione nella sussistenza di una posizione di garanzia e di un’omissione colposa in capo a Za.Fa.

La Corte ha omesso di applicare le regole codicistiche di valutazione della prova ex art. 192 cod. proc. pen. e la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Nella sentenza è riscontrabile una frattura logica evidente tra le premesse e le conseguenze tratte. Non si comprende come si possa ritenere sussistente una posizione di garanzia, senza individuare la fonte del dovere di attivarsi e della sussistenza dei poteri impeditivi. La ricostruzione difensiva (insussistenza della posizione di garanzia) determinava quanto meno il ragionevole dubbio sulla colpevolezza, essendo basata su dati inconfutabili e non meramente ipotetici. Appare pertanto illogico che la decisione impugnata abbia individuato la mancanza di diligenza in capo a Za.Fa. per il sol fatto che si è verificato l’evento, senza un’adeguata analisi della posizione soggettiva.

5.5 Il quinto motivo ripropone le medesime questioni formulate da Ber. Ca.Be. in ordine alla nomina del Responsabile dei Lavori e alla conseguente esclusione di responsabilità per la committenza.

5.6 Il sesto motivo replica le censure sul trattamento sanzionatorio e la violazione dell’art. 69 cod. pen. così come già prospettate dal ricorrente Ca.Be.

6. Il ricorso di Bio Raffineria di Gela Spa (Già Raffineria di Gela Spa)

6. 1. I primi tre motivi di ricorso, tendenti a dimostrare l’insussistenza del reato presupposto, ripropongono e le medesime questioni formulate da Ber. Ca.Be. e da Za.Fa., in ordine alla nomina del Responsabile dei Lavori e alla conseguente esclusione di responsabilità per la committenza (I motivo del ricorso di Ber. Ca.Be.), alla interruzione del nesso causale a seguito della modifica della catasta di tubi da parte della ditta subappaltatrice (III motivo del ricorso di Ca.Be.), alla non ravvisabilità di una posizione di garanzia in capo allo Za.Fa. (I e II motivo del ricorso di Fab. Za.Fa.).

6.2. Il quarto motivo lamenta la manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione sulla sussistenza di interesse e vantaggio per l’ente.

La Corte non ha specificato su quale elemento probatorio si sia fondata per accertare l’interesse delle società al celere completamento dei lavori, eludendo le verifiche stabilite dal sistema normativo di riferimento.

Quanto al dedotto interesse al risparmio di spesa, connesso alla riduzione dei tempi di lavorazione, l’affermazione è stata smentita attraverso la consulenza resa dal dott. Urs., acquisita in atti. L’elaborato, relativo ai volumi di prodotti movimentati dalla Raffineria di Gela per terra e per mare nel periodo di interesse, ha dimostrato che, grazie al concomitante utilizzo della linea P45, non vi era nessun interesse o vantaggio della Raffineria nel ripristinare la linea P2 il più velocemente possibile, in quanto non indispensabile ai collegamenti tra il parco boe e i serbatoi, essendo tali collegamenti garantiti dalla predetta linea alternativa, la cui portata di scarico era più che sufficiente a coprire le esigenze operative della Raffineria.

6.3 Con il quinto motivo, si censura la decisione impugnata per violazione di legge, ravvisata nella erronea interpretazione dell’art. 30 D.Lgs. 81/08.

La Corte di appello, ad avviso della ricorrente, ha errato nel respingere il motivo di appello tendente all’affermazione dell’applicabilità dell’art. 30 D.Lgs. 81/08, nonostante la dimostrata idoneità ed efficace attuazione del modello 231. Come provato in dibattimento e specificamente dedotto nel motivo di appello, il Sistema di Gestione Integrato HSE (per gli aspetti salute e sicurezza sul lavoro) di Raffineria di Gela, ha ottenuto la certificazione ai sensi dello standard internazionale OHSAS 18001 (per gli aspetti salute e sicurezza sul lavoro), riconosciuta dal DNV, un Ente esterno accreditato.

La circostanza, secondo quanto riportato al co. 5 dell’art. 30 del D.Lgs. 81/08, fonda una presunzione di conformità ai requisiti dell’articolo stesso, non superata in alcun modo dalla motivazione impugnata.

Al riguardo, a pagina 77 dell’elaborato peritale, con riferimento al modello della Raffineria di Gela Spa, lo stesso perito affermava: “Sulla base degli elementi segnalati e limitandosi solo alla verifica circa l’idoneità del modello e non anche la sua efficace attuazione o l’esistenza degli elementi complementari imposti dal D.Lgs. n. 231/2001 per ottenere l’esimente dalla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, il modello della Raffineria di Gela Spa si ritiene possa essere considerato idoneo”. 

Non viene data motivazione nella sentenza della Corte sui motivi di appello relativi alla efficace attuazione del modello. Infatti, come evidenziato nella relazione acquisita all’esito dell’esame del consulente dott. Ursino, nella pratica attuazione del modello sotto il profilo dinamico sono state effettuate diverse attività, tutte provate con documentazione acquisita, tra cui attività di reporting dalle funzioni apicali di Raffineria verso HSE di Business Unit ENI refining and marketing e da qui verso l’OdV, ed esecuzione di audit periodici, organizzati a diversi livelli dell’Organizzazione.

7. I ricorsi degli imputati inseriti nell’organigramma della società SGS Ser. Srl

7.1. Ag.Pa., Be.Al., Ie.Sa. e Mo.Ma., a mezzo del comune difensore di fiducia, con il primo motivo, deducono violazione di legge e vizio di motivazione, in ordine alla mancata estromissione della parte civile, da cui è derivata la nullità di tutti gli atti ai quali la predetta parte civile ha partecipato.

Oltre alla rilevanza della intervenuta transazione integralmente satisfattiva delle ragioni delle costituite parti civili, è stato altresì osservato che la cessione del credito, contenuta nello stesso atto, ha prodotto un mutamento soggettivo del titolare del diritto sostanziale e processuale: da quel momento in poi, il cessionario (Raffineria di Gela Spa) ha assunto la legittimazione attiva per agire in giudizio nei confronti del debitore per la tutela del credito ceduto e il cedente (Mo.An.) ha perso la legittimazione ad agire, in quanto non più titolare del credito.

Inoltre, il difetto di comunicazione dell’accordo transattivo raggiunto ha generato l’effetto di impedire alle altre parti di eccepire sin dalla fase dell’udienza preliminare la carenza di legittimazione ad agire della signora Mo.An. e chiederne l’estromissione dal processo, consentendole di rimanere illegittimamente parte attiva in giudizio e di presentare prove, intervenire sugli atti istruttori e partecipare alle discussioni finali.

7.2 Il secondo motivo è diretto a contestare, sotto il profilo della violazione di legge, l’utilizzabilità dei risultati dell’incidente probatorio nei confronti degli imputati Ag.Pa., Be.Al. e Ie.Sa., per tardiva iscrizione degli stessi nel registro degli indagati.

Gli ingegneri Ag.Pa., Be.Al. e Ie.Sa. sono stati iscritti nel registro degli indagati solo all’esito dell’incidente probatorio disposto dal G.I.P. per individuare le cause del sinistro. Essi non hanno potuto prendere parte alle operazioni peritali; gli è stata, di fatto, impedita la nomina per tempo legali e consulenti che li coadiuvassero in quella fase cruciale del procedimento; non hanno avuto la possibilità di suggerire l’effettuazione di accertamenti, prima che lo stato dei luoghi venisse irrimediabilmente modificato. 

È indubbio che la mancata partecipazione ha avuto effetti rilevanti sul piano processuale e ha inciso in maniera irreversibile sul loro diritto di difesa, anche dal punto di vista della scelta della complessiva strategia processuale da adottare. La violazione dei diritti di difesa si ripercuote inesorabilmente sulla validità stessa dell’incidente probatorio, prima ancora che sulla apponibilità dei suoi risultati agli ingegneri Ag.Pa., Be.Al. e Ie.Sa., i cui incarichi svolti nell’ambito del contratto intercorso tra SGS Ser. e Raffineria di Gela erano noti alla Procura, sin dall’inizio delle indagini, per effetto dell’immediata acquisizione della documentazione inerente agli aspetti della sicurezza sul lavoro.

La loro mancata tempestiva iscrizione nel registro degli indagati è da imputarsi ad un’evidente colpa dell’Ufficio inquirente che, così come ha potuto immediatamente individuare gli ipotetici profili di responsabilità a carico dell’ing. Mo.Ma., altrettanto avrebbe potuto e dovuto fare con i restanti odierni ricorrenti. Per le suindicate ragioni, gli esiti dell’incidente probatorio avrebbero dovuto, sin da subito, essere dichiarati inutilizzabili nei loro confronti, giacché l’art. 178 cod. proc. pen. stabilisce che le violazioni che incidono sul diritto di difesa determinano la nullità degli atti.

È anche dedotta l’insufficienza dell’esame dibattimentale del perito.

L’esame cui il perito Ing. Ro. è stato sottoposto nel corso del dibattimento di primo grado, diversamente da quanto sostenuto dalla Corte territoriale, non ha in alcun modo “sanato” il vizio originario della prova, giacché tutti i diritti e facoltà di cui gli odierni ricorrenti avrebbero potuto avvalersi nel corso dell’incidente probatorio (accedere e visionare personalmente e con l’assistenza di propri consulenti la scena del crimine, interloquire con il perito mentre erano in corso le prove tecniche, suggerire l’effettuazione di particolari accertamenti) sono stati ostacolati dalla conclusione delle operazioni peritali e dal mutamento dello stato dei luoghi.

7.3 Il terzo motivo contesta l’erronea qualificazione dell’area denominata “Isola 6” come cantiere, con conseguente applicazione delle norme del Titolo IV del D.Lgs. 81/2008.

I ricorrenti osservano che la norma di riferimento è costituita dall’art. 89 del D.Lgs. 81/2008, che qualifica come “cantiere temporaneo o mobile, qualunque luogo in cui si effettuano lavori edili o di ingegneria civile il cui elenco è riportato nell’allegato X”. L’Allegato X ricomprende tra i lavori di cantiere una serie di attività che vanno dalla costruzione alla manutenzione e riparazione di opere fisse, permanenti o temporanee, in muratura, in cemento armato, in metallo, in legno o in altri materiali.

Questo elenco è da considerarsi tassativo, così come tassativo era da ritenersi l’elenco di cui all’allegato I del D.Lgs. 494/1996 per espressa indicazione contenuta nella Circolare 18 marzo 1997, n. 41, del Ministero del lavoro e nella misura in cui si tratta di norme la cui violazione è penalmente sanzionata, con conseguente preclusione della interpretazione analogica (art. 14 delle Preleggi). Le attività previste nel progetto di miglioramento della linea P2 ricomprendevano sicuramente lavori di cantiere, che erano quelli svolti presso la radice del Pontile: era in quest’area che l’attività di saldatura dei tubi doveva essere svolta. Non altrettanto si può dire dell’area denominata “Isola 6”, non ricompresa, originariamente, nel progetto di miglioramento e destinata alla mera attività di prelievo di tubi.

La suddetta area, almeno sino al 16 ottobre 2012 (data dell’incendio che rese inservibile il cantiere posto alla radice del Pontile), non poteva e non doveva essere considerata “cantiere”; non doveva, pertanto, essere soggetta alle disposizioni del Titolo IV del D.Lgs. 81/2008. La Corte territoriale ha sostenuto che il richiamo nel PSC alla disposizione secondo cui “i materiali devono essere disposti in modo da evitare il crollo od il ribaltamento” sarebbe indicativo della volontà di considerare l'”Isola 6″ come area di cantiere. Il rilievo, ad avviso dei ricorrenti, è manifestamente illogico, giacché da una disposizione così generica non può desumersi alcuna consapevolezza in capo agli imputati che anche per “Isola 6” dovessero valere le disposizioni di cui al Titolo IV. Ancor più illogico è sostenere tale tesi e, nel contempo, accusare di carenza il PSC per mancanza di previsioni attinenti al crollo e il ribaltamento dei materiali.

7.4 . Il quarto motivo riguarda, in particolare, la posizione dell’ing. Be.Al., in relazione alla quale si deduce il vizio di motivazione, per travisamento della prova, in ordine alle cause dell’incidente e alla pretesa instabilità e pericolosità dell’originaria catasta di tubi allocata nell’area denominata “Isola 6”.

Be.Al. – in qualità di Responsabile dei Lavori sino al 2.10.2012, Coordinatore per la Sicurezza in fase di Progettazione e redattore del PSC – è stato ritenuto responsabile della violazione dell’art. 91 D.Lgs. 81/2008, avendo asseritamente omesso di analizzare e di comunicare tramite il PSC i rischi ambientali di un’intera area di cantiere (”Isola 6″) destinata al carico dei tubi, i rischi organizzativi connessi alla dislocazione dei tubi stessi e la concreta presenza di rischi di interferenza tra i lavori che si svolgevano nella medesima area.

Tuttavia, l’inserimento di “Isola 6” nelle aree di cantiere, in ragione delle attività diverse dal mero deposito che sino a quel momento l’aveva caratterizzata, venne segnalata da Raffineria di Gela Spa, per il tramite del proprio dipendente Fab. Za.Fa. solo in occasione della riunione di sicurezza e coordinamento tenutasi in data 15 novembre 2012, quando l’ing. Be.Al. aveva già lasciato l’incarico. Per di più, la sentenza impugnata risulta illogica e contraddittoria, avendo ritenuto la colpevolezza dell’ing. Be.Al., ed invece assolto l’ing. Va.Gu. sulla base del medesimo dato temporale (la cessazione dell’incarico prima dell’incendio del 16 ottobre 2012).

7.5 Il quinto motivo attiene alla posizione dell’ing. Mo.Ma., al quale è stato contestato che, in qualità di responsabile dei lavori dal 2.10.2012, non solo non si curò di segnalare le carenze del PSC già evidenziate, ma non intervenne tempestivamente quando, dopo l’incendio del 16.10.2012, i lavori di saldatura furono trasferiti nell'”Isola 6″”.

Il ricorrente osserva che i lavori di saldatura non furono “trasferiti nell'”Isola 6″” il giorno successivo all’incendio del 16 ottobre 2012; essi, a partire da quel giorno, furono semplicemente “sospesi” per effetto dell’ordinanza della Capitaneria di Porto acquisita agli atti del processo e vennero ripresi a distanza di circa un mese dopo che erano stati eseguiti gli adempimenti richiesti dalla Capitaneria stessa. L’inserimento di “Isola 6” nelle aree di cantiere venne segnalata da Raffineria di Gela Spa solo il 15 novembre 2012, non essendo perciò ipotizzabile quale intervento tempestivo avrebbe potuto e dovuto effettuare l’ing. Mo.Ma. per scongiurare il sinistro, e quali carenze del PSC avrebbe dovuto segnalare, atteso che prima della suddetta data “Isola 6” non rientrava tra le aree interessate da attività di cantiere. Inoltre, non spettava al Mo.Ma. stabilire quali lavori intraprendere, quando iniziarli e dove svolgerli: tali decisioni erano di esclusiva competenza del committente Raffineria di Gela Spa e lo stesso responsabile dei lavori avrebbe potuto attivarsi solo successivamente alla comunicazione di queste decisioni.

7.6 Il sesto motivo attiene alla posizione dell’ing. Ie.Sa., il quale, secondo la Corte di merito, avrebbe trascurato la verifica sulle modalità di attuazione delle prescrizioni di sicurezza nel coordinamento tra le attività di impresa, specie dopo un evento traumatico come l’incendio del 16.10.2012.

La censura evidenzia che il rimprovero di omessa verifica della originaria instabilità della catasta trascura il fatto che “Isola 6” non rientrava nell’area di cantiere e, in ogni caso, non tiene conto delle condizioni di sostanziale stabilità ed equilibrio della originaria catasta di tubi risalente al 2005. La Corte, prosegue il ricorrente, non ha considerato che la procedura recepita nel PSC prevedeva il permesso di lavoro quale strumento per la verifica dei rischi d’area e che, né il giorno 28 novembre 2012 né i giorni precedenti, venne presentato al CSE, per la validazione e la firma, alcun permesso di lavoro attinente qualsivoglia attività da svolgersi in “Isola 6”. 

Conseguentemente, il CSE ing. Ie.Sa. non fu posto nelle condizioni di effettuare una valutazione preventiva di quell’area. L’argomentazione difensiva sarebbe avvalorata dalla funzione di “alta vigilanza” che grava sul coordinatore per la sicurezza dei lavori, la quale non include il puntuale controllo delle singole lavorazioni, demandato ad altre figure (datore di lavoro, dirigente, preposto), e così pure dei rischi specifici propri dell’attività della singola impresa, di competenza del datore di lavoro, in quanto non inerenti all’interferenza fra le opere di più imprese”.

7.7 Il settimo motivo è concentrato sulla posizione dell’ing. Ag.Pa.

In ricorso si osserva che egli non ha mai assunto alcuno degli incarichi di responsabilità previsti dal D.Lgs. 81/2008; egli ha unicamente svolto il compito di assistente del CSE e in tale qualità ha partecipato a un paio di sopralluoghi (in particolare in data 26 ottobre 2012 e 15 novembre 2012) in aree poste all’interno del perimetro dello stabilimento della Raffineria di Gela. 

Nei gradi di merito, l’ing. Ag.Pa. è stato ingiustamente onerato delle medesime responsabilità e della medesima posizione di garanzia incombenti sul CSE. Se è vero che nelle realtà di cantiere di grandi dimensioni non è infrequente che il CSE nomini un collaboratore per l’espletamento di alcune attività, è pacifico che su questa figura non vi sia alcuna traslazione degli obblighi prevenzionistici gravanti sul titolare.

8. Il ricorso della società SGS Ser. Srl

8.1. La società SGS Ser. Srl, con il primo motivo formulato sotto il profilo della violazione di legge, contesta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 231/2001 e degli artt. 83 e ss. cod. proc. pen., lamentando l’inammissibilità della costituzione di parte civile nei confronti dell’ente responsabile ex D.Lgs. 231/2001, peraltro neppure citato come responsabile civile; eccepisce conseguentemente la nullità della condanna al risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite.

8.2. Il secondo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 231/2001, oltre alla mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in ordine alla sussistenza del requisito dell’interesse e/o del vantaggio dell’ente.

La sentenza impugnata è erronea e meritevole di censura nella parte in cui ha ritenuto la società SGS Ser. Srl responsabile dell’illecito amministrativo di cui all’art. 25-septies D.Lgs. 231/2001, affermando, con un’enunciazione del tutto avulsa dalla realtà processuale, che questa scelta, condivisa a livello apicale in SGS Ser., trovava ragione nell’interesse di assicurarsi e mantenere una commessa ricevuta da un committente che si voleva così compiacere.

La sentenza, sul punto, è carente di motivazione e non supportata da alcuna prova concreta emersa dall’istruttoria dibattimentale. La Corte territoriale omette di indicare quale documento processuale o quale testimonianza resa in dibattimento abbia contribuito a provare che le scelte operate dai dipendenti della società siano state condivise a livello apicale. Non è stata assunta alcuna testimonianza in tal senso, né sono stati prodotti documenti idonei a dimostrare che le condotte poste in essere dagli imputati persone fisiche venissero condivise dal Consiglio di amministrazione o che il committente Raffineria fosse compiaciuto in alcun modo dalle condotte dei dipendenti di SGS Ser.. 

La ricorrente osserva che, ai sensi dell’articolo 5 del D.Lgs. n. 231/2001, la responsabilità dell’ente può configurarsi esclusivamente allorquando il soggetto che ha commesso il reato presupposto abbia agito nell’interesse o a vantaggio dell’ente rappresentato. Nella fattispecie concreta non emerge che le condotte contestate agli imputati persone fisiche siano state poste in essere nell’interesse della società SGS Ser. Srl o abbiano arrecato alla stessa un vantaggio.

Al riguardo, si evidenzia che gli imputati (Mo.Ma., Be.Al., Ag.Pa., Ie.Sa.) erano dipendenti con contratto di lavoro subordinato, non rivestivano alcuna posizione apicale all’interno della società, non erano in grado di assumere decisioni nell’interesse della società e non avrebbero potuto con le loro condotte favorire la società dal punto di vista economico. Inoltre, il contratto quadro di consulenza esistente all’epoca del sinistro tra la ricorrente e la Raffineria di Gela non conteneva alcuna clausola penale in forza della quale la SGS Ser. Srl avrebbe potuto ottenere un vantaggio economico omettendo adempimenti connessi alla sicurezza.

L’opera prestata dai dipendenti di SGS Ser. Srl consisteva nel fornire consulenza in materia di sicurezza all’interno dei cantieri della Raffineria di Gela, ricoprendo di volta in volta i ruoli previsti dal D.Lgs. n. 81/2008. In tale contesto, è evidente che la società ricorrente non avrebbe avuto alcun interesse a omettere gli adempimenti sulla sicurezza, né avrebbe potuto conseguire un vantaggio dal completamento anticipato dei lavori che si stavano svolgendo in quel cantiere.

9. I ricorsi proposti da Ca.Ni., legale rappresentante della ditta appaltatrice P.E.C. Srl, da Mario Gi.Ma., capo cantiere della stessa ditta, e da Pe.An., responsabile per la sicurezza di cantiere per conto di P.E.C. Srl

9.1 Con il primo motivo, i ricorrenti, a mezzo del comune difensore di fiducia, lamentano la violazione degli artt. 74, 80 e 178, lett. c), cod. proc. pen., contestando l’ordinanza con cui è stata ritenuta legittimazione delle parti civili, nonostante l’integrale risarcimento del danno mediante transazione.

È richiamato il principio giurisprudenziale secondo cui deve escludersi la persistenza dell’interesse della parte civile alla partecipazione al processo penale laddove quest’ultimo, in ragione dell’integrale risarcimento del danno intervenuto ormai irrevocabilmente, non possa più esercitare alcuna influenza sull’entità del risarcimento stesso. 

Nel caso di specie risulta incontrovertibilmente documentato che le parti civili hanno percepito, in virtù dell’accordo transattivo del 12.10.2016, la somma complessiva di Euro 1.910.000,00, oltre spese legali. L’accordo non aveva carattere parziale, come erroneamente 16 Lire ritenuto dalla Corte di appello, ma rappresentava una definizione complessiva della controversia, con cui le parti civili espressamente dichiaravano di accettare l’importo “a saldo e stralcio di ogni loro pretesa risarcitoria” e di “non vantare più alcuna altra pretesa”. 

La rilevanza della transazione si apprezza, considerando che l’importo liquidato risultava significativamente superiore a quanto le parti civili avrebbero potuto ottenere secondo i parametri delle Tabelle di Milano aggiornate al 2022, che prevedono un risarcimento massimo di Euro 1.076.800,00 per fattispecie analoghe. Di particolare gravità risulta il fatto che le parti civili hanno deliberatamente taciuto, sia al GUP che al Tribunale, l’esistenza dell’accordo transattivo e l’integrale risarcimento ricevuto. Tale reticenza ha impedito al GUP di valutare correttamente la loro legittimazione, influenzando inevitabilmente l’intero corso del procedimento.

La carenza di legittimazione delle parti civili ha determinato una nullità a carattere generale che ha inevitabilmente alterato l’intero processo. La partecipazione illegittima ha comportato l’ascolto dei loro consulenti tecnici e testi, influenzando il convincimento dei giudici di merito. 

9.2 Il secondo motivo è diretto a rappresentare la violazione di legge, in relazione agli artt. 41 co. 2 cod. pen. e 92-97 D.Lgs. n. 81/2008, e il difetto di motivazione in ordine alla ricostruzione della dinamica dell’infortunio mortale e all’individuazione delle responsabilità.

La Corte di appello ha fondato la condanna sull’acritico recepimento della ricostruzione operata dal Tribunale e delle affermazioni del perito Ro., fornendo una motivazione soltanto apparente, incompatibile con documenti significativi acquisiti al processo e con le regole della logica. La motivazione si pone in evidente contrasto logico con il contenuto del contratto di subappalto intercorso tra P.E.C. Srl e Com. Sud S. r.l., documento di fondamentale importanza per l’inquadramento giuridico delle responsabilità. L’accordo, accettato dalla Com. Sud integralmente e senza riserva alcuna, riguardava espressamente i lavori di manutenzione da eseguirsi sull’area del terminale marino (area Pontile) e poneva inequivocabilmente a carico della società subappaltatrice gli oneri di presa in carico dei materiali forniti dalla Committente e custodia fino alla loro installazione in impianto.

La rilevanza della pattuizione si apprezza alla luce del consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l’appaltatore, subappaltando, non perde automaticamente la sua qualifica di datore di lavoro con i correlati obblighi antinfortunistici solo se continua ad esercitare una concreta ingerenza nell’effettuazione dell’opera. Nel caso di specie, P.E.C. aveva integralmente subappaltato alla Com. Sud le attività relative alla movimentazione, custodia e saldatura delle tubazioni, senza esercitare alcuna ingerenza concreta. Inoltre, la Corte di appello ha attribuito erroneamente alla P.E.C. la responsabilità per la violazione dell’art. 97 D.Lgs. n. 81/2008, che si applica esclusivamente alle aree di cantiere assoggettate al Titolo IV del D.Lgs. n. 81/2008 e inserite nel Piano di Sicurezza e Coordinamento.

La sentenza stravolge il dato oggettivo costituito dal PSC redatto dalla SGS Ser. per la committente Raffineria, che riguardava espressamente il reale luogo di lavoro di “miglioramento della linea P2”, ossia l’area Pontile. L’area “Isola 6” non solo non rientrava nel PSC, ma era categoricamente esclusa, al pari dell’Area 3, del cantiere Com. Sud e della zona sabbiera, definite aree di deposito non di competenza P.E.C..

Al riguardo, lo stesso perito Ro. affermava che nel Piano di Sicurezza e Coordinamento non era presente alcun accenno all’area di stoccaggio dell'”Isola 6″ e che il PSC non conteneva alcun riferimento all'”Isola 6″”. L’area era entrata nella sfera di applicazione del Titolo IV solo con la revisione n. 4 del PSC del 28.02.2013, ovvero tre mesi dopo l’incidente. Ancora, il riferimento al campo di applicazione, contenuto nel PSC, conferma che da esso sono “esclusi i trasporti dei materiali prefabbricati o semilavorati fino al luogo di utilizzo sul cantiere” e “sono parimenti esclusi eventuali smistamenti e la logistica di trasporti ed immagazzinamenti che non coinvolgano direttamente le aree del cantiere”.

E così pure, la planimetria allegata al PSC mostra che l’area del cantiere è solo quella del Pontile.

Manifestamente illogica è la valutazione circa le presunte approssimazioni nell’accatastamento dei tubi in “Isola 6”. L’ing. Ro. affermava che il sistema fu realizzato, fin dall’origine, in modo molto approssimativo, riconoscendo che l’accatastamento del 2005 aveva comunque resistito per 7 anni perfino alle intemperie. Vengono poi illustrate una serie di circostanze dimostrative dell’interruzione del nesso causale, in quanto rappresentative di un rischio nuovo e del tutto eccentrico rispetto a quello originario.

Significativo è che lo stesso perito sosteneva che lo svuotamento della catasta originaria e il nuovo accatastamento incontrollato di tubi già saldati in “Isola 6″ da parte di Com. Sud, rendeva irrilevante la presunta instabilità dell’accatastamento. L’ing. Ro. affermava che allorquando, a valle dell’incendio del 16/10/2012, le aree di prefabbricazione non poterono più essere utilizzate, si decise di impiegare il piazzale dell'”Isola 6”, ormai per buona parte sgomberato dai tubi preesistenti, come postazione di saldatura.

La questione, espressamente sollevata dalla difesa in sede di appello, non è stata affrontata dalla Corte distrettuale, che è perciò incorsa in un evidente vizio di omessa pronuncia su un punto decisivo per la valutazione della responsabilità.

Ulteriore profilo di illogicità si rinviene laddove la Corte ha ritenuto che P.E.C. fosse a conoscenza dell’assegnazione dell’area “Isola 6” come luogo di lavoro. L’assunto contrasta con le risultanze probatorie, dalle quali emerge che P.E.C. non ha mai avuto notizia né dell’assegnazione dell’area né del sopralluogo del 26.10.2012. L’individuazione della nuova area di lavoro era stata tacitamente assegnata dalla Raffineria e affidata alla Com. Sud senza alcuna informativa alla P.E.C..

La mancata informazione alla P.E.C. è addebitabile innanzitutto alla società Ser. quale coordinatore per l’esecuzione.

Secondo consolidata giurisprudenza, il coordinatore per l’esecuzione è titolare di una posizione di garanzia che gli impone di assicurare il collegamento tra impresa appaltatrice e committente al fine della migliore organizzazione del lavoro sotto il profilo antinfortunistico. Nel caso di specie, la società Ser. omise di informare la P.E.C. dell’assegnazione dell’area “Isola 6” come nuovo luogo di lavoro e di aggiornare il PSC in relazione a tale modifica sostanziale, in violazione dell’art. 92 co. 1 lett. c) ed e) D.Lgs. n. 81/2008, che impone al coordinatore di organizzare tra i datori di lavoro la cooperazione ed il coordinamento delle attività nonché la loro reciproca informazione.

9.3 . Angelo Pe.An. propone anche un terzo motivo, osservando che la sentenza impugnata merita censura nella parte in cui – pur ritenendo il ricorrente una figura non contemplata dal TU in materia di sicurezza, per cui ha escluso lo stesso dalle posizioni di garanzia contemplate dalla normativa – è pervenuta comunque alla conferma della condanna di Pe.An. quale garante di fatto, senza averne preventivamente verificato i poteri ed i limiti e per il solo fatto di avere ritenuto assunto la veste di consulente esterno alla P.E.C..

10. Il ricorso di Fi.Ro., legale rappresentante della subappaltatrice Com. Sud a r.l.

10.1 Fi.Ro., con il primo motivo, deduce la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. e), cod. proc. pen. per vizio di motivazione e la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. b), cod. proc. pen., in relazione all’art. 17 del D.Lgs. 81/2008 e dell’art. 589 cod. pen.

Il ricorrente lamenta l’illogicità della motivazione e l’erronea applicazione delle norme sostanziali di settore, laddove è stata ritenuta sussistente la sua responsabilità, per aver omesso di prevedere e valutare rischi concreti connessi all’errato stoccaggio delle tubazioni presenti nell’area in questione.

L’errore consiste nell’aver configurato una sorta di onniscienza e responsabilità oggettiva in capo al datore di lavoro, omettendo di considerare che tale profilo di colpevolezza è da escludere quando l’impresa sia stata organizzata con l’ausilio di responsabili della sicurezza e di preposti all’esecuzione dei lavori. Nel caso di specie, egli aveva nominato l’esperto Ma.Sa. quale Responsabile del servizio di prevenzione e protezione dell’impresa, che, a sua volta, aveva redatto il POS in data 6/2/2012 e valutato il PSC del “Coordinatore della sicurezza per la progettazione e per l’esecuzione”; lo stesso Ma.Sa. aveva redatto il successivo POS di revisione in data 19/11/2012, validato il 28/11/2012.

Inoltre, nell’organico dell’impresa erano presenti la figura del responsabile della sicurezza (Maugeri) e quella del capocantiere (Co.Vi.). Infine, tutti i documenti in materia di sicurezza (DUVRI redatto dalla committente Raffineria, PSC redatto da SGS Ser. nella persona dell’Ing. Be.Al., POS redatto da P.E.C. Srl, POS della cosrv. SUD redatto dall’esperto Ma.Sa.) non segnalavano alcun rischio.

In questo contesto, il ricorrente si trovava nella condizione di dover fare affidamento sulle competenze degli esperti.

L’istante contesta pertanto il giudizio di responsabilità per non aver verificato le condizioni di stabilità della catasta, atteso che i predetti documenti sulla sicurezza, nel non rilevare alcun vizio nelle attività programmate circa lo smantellamento della catasta, con ciò stesso ne conclamavano la stabilità, giustificando in tal modo il suo affidamento. Va inoltre considerato che, come pure riconosciuto dal perito Ro., i vizi della catasta che avevano causato il crollo non erano visibili.

10.2 Il secondo motivo è diretto a contestare la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. e), cod. proc. pen. per vizio di motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui è stato ritenuto che una causa sopravvenuta e concorrente del crollo sia stata il riaccatastamento di taluni tubi.

Il ricorrente richiama le testimonianze di Sc.Vi. e Vitale, i quali riferivano che per saldare due tubi di m. 12 occorreva una giornata lavorativa di otto ore e che le giornate lavorative erano state sei (22, 23, 24, 25 e 26 ottobre, 15 novembre), ricavandone che logicamente che nell'”Isola 6″ non potevano essere stati saldati complessivamente più di sei tubi.

Inoltre, è stato provato che il giorno del sinistro, 28 novembre 2012, dopo 13 giorni di sospensione lavorativa, nell'”Isola 6″ giacevano a terra solo tre tubi di m. 24, di cui venivano caricati sul pianale di un autocarro. Il testimone Ca., gruista, dichiarava che su quella catasta erano stati posizionati non più di uno o due tubi al massimo, ricollocati nella stessa posizione in cui erano stati estratti dalla catasta. Tutto ciò contraddice la tesi secondo cui l’erronea modalità di accatastamento ha ulteriormente aggravato la condizione di rischi preesistenti.

10.3 Il terzo motivo, formulato ai sensi dell’art. 606, co. 1, lett. e), cod. proc. pen., sottolinea il vizio di motivazione nel punto in cui la sentenza afferma che la vetustà della catasta (di anni sette) avrebbe dovuto indurre a sospettare della sua usura e quindi instabilità.

Richiama in proposito le dichiarazioni dello stesso perito il quale affermava che, sulla base del mero decorso del tempo, non avrebbe potuto dichiarare instabile la catasta. Inoltre, tutti i soggetti preposti al controllo delle condizioni di sicurezza, professionalmente qualificati, non avevano rilevato tale criticità, risultando quindi manifestamente illogica la pretesa che dovesse coglierla l’odierno ricorrente.

11. Il ricorso di Tu.Se., sostituto di preposto al cantiere per conto di Com. Sud.

11.1 Il ricorrente, con il primo motivo, lamenta la violazione di legge, per erronea applicazione dell’art. 2 co. 1 lett. e) D.Lgs. n. 81/2008 e dell’art. 589 cod. pen., nonché vizio di motivazione, in relazione alla parte della decisione in cui si è affermato che il Tu.Se. aveva aderito al complessivo atteggiamento di sottovalutazione assunto da tutta la sua linea gerarchica e dai responsabili della sicurezza.

Il ricorrente contesta la propria qualificazione come preposto e la conseguente attribuzione di responsabilità, sostenendo di essere stato “l’ultima ruota del carro” e di non aver avuto alcun potere decisionale. Inoltre, è richiamata la perizia dell’Ing. Ro., nella parte in cui evidenziava che la stabilità non poteva essere agevolmente percepita ad un esame visivo. La sentenza stessa riporta che la causa prossima dell’evento, individuata dal perito, era in realtà il cedimento di uno dei tubi, posto alla base della catasta in posizione laterale e saldato in maniera non idonea che, a causa della pressione si era molto deformato provocando un progressivo spostamento degli altri tubi posti nella fila superiore, fino al crollo di tutti gli altri.

In questo contesto, in assenza di specifiche segnalazioni, relative ad eventuali rischi, e di visibilità di quei vizi circa la base della catasta, “l’ultima ruota del carro”, per come è definito Tu.Se. nella stessa sentenza impugnata, non poteva che ignorare quei rischi, risultando rassicurato dagli atti precedenti, emanati dai singoli soggetti competenti in materia di sicurezza.

11.2 Il secondo motivo ripropone le stesse questioni evidenziate nel secondo motivo del ricorso di Fi.Ro., relative all’erronea ricostruzione dei fatti del riaccatastamento e alla irrilevanza causale.

11.3 Il terzo motivo, proposto ai sensi dell’art. 606, co. 1, lett. e), cod. proc. pen. lamenta il vizio di motivazione nell’accertamento della vetustà della catasta e della sua instabilità.

È richiamata l’affermazione del perito, secondo cui, sulla base del mero decorso del tempo, non sarebbe stato possibile ritenere l’instabilità della catasta.

Risulta poi manifestamente illogico il punto della sentenza nel quale si desumono profili di responsabilità del Tu.Se., stante l’assenza di cartellonistica. Gli addetti ai lavori presso “Isola 6” erano ben consapevoli della situazione del cantiere, per cui l’unico divieto che avrebbe potuto avere senso sarebbe stato quello di non sostare nelle vicinanze della catasta; divieto però che non risultava in alcun documento emanato dalla filiera della sicurezza.

12. Il ricorso di Ma.Sa., responsabile del servizio di prevenzione e protezione di Com. Sud e autore del POS in data 6/2/2012 e della sua revisione in data 19/11/2012.

12.1 Con il primo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 606, lett. b), cod. proc. pen., in relazione agli artt. 403, co. 1 bis, 526, co. 1, art. 191, art. 347, co. 2, 61,335, co. 1, cod. proc. pen. e agli artt. 24, co. 2 e 111, commi 1 e 4 della Costituzione, per avere la Corte di Appello utilizzato la perizia, assunta con incidente probatorio a cui il Ma.Sa. ed il suo difensore non avevano partecipato, in difetto di avviso.

La condizione del medesimo rientrava nell’alveo della previsione del dell’art. 403, co. 1, cod. proc., pen. perché egli era sostanziale indagato e già sottoposto ad indagini almeno un anno prima dell’affidamento dell’incarico peritale e dell’espletamento dell’incidente probatorio. È pacifico, infatti, che la segnalazione della PG al PM è dell’ll e 13 dicembre 2012, mentre la perizia dell’incidente probatorio è del marzo/aprile 2014.

La Polizia Giudiziaria aveva richiesto l’acquisizione dei tabulati telefonici e delle celle di trasmissione attivate dal Maretta e la sua sottoposizione ad intercettazioni, elementi che univocamente dimostravano la sua qualità di indagato sostanziale. Non essendo stato citato e non avendo partecipato all’incidente probatorio, i risultati del mezzo istruttorio, sulla dinamica, sulle cause e sulle responsabilità del mortale infortunio, risulterebbero quantomeno inutilizzabili nei suoi confronti. Di fronte a un’eccezione di inutilizzabilità, il Tribunale avrebbe dovuto astenersi dall’utilizzo della prova contestata e verificare la tenuta dei residui elementi probatori.

12.2 Il secondo motivo di censura, collegato al precedente, lamenta la nullità derivata, ai sensi dell’art. 185 cod. proc. pen., di tutti gli atti successivi, in quanto dipendenti dall’incidente probatorio, oltre che inutilizzabile, anche radicalmente nullo.

Accertato che le motivazioni delle due decisioni di merito non rintracciano a carico del Maretta elementi indipendenti dalla perizia Ro., l’invalidazione di questa comporta, di riflesso, quella di tutte le valutazioni che vi trovano fondamento.

12.3 Con il terzo motivo, contesta la violazione della legge sostanziale, l’inesistenza, mancanza di motivazione, riguardo al nesso di causalità in relazione alle attività del ricorrente.

La censura si basa sulle specifiche doglianze sollevate ai motivi 2 e 3 dell’appello dell’imputato, del tutto ignorati dalla Corte di Appello sino al punto che, con travisamento dell’atto processuale, è stata attribuita all’imputato Ma.Sa. una linea difensiva differente da quella in effetti da lui sostenuta.

Il riferimento è alla questione inerente all’incidenza causale delle operazioni del cosiddetto riaccatastamento, poste in essere a partire dal 26 ottobre 2012, a cui egli era rimasto estraneo, mai essendone stato informato. Secondo la difesa del Ma.Sa. l’unica attività che si poneva come antecedente causale del crollo della catasta e dell’infortunio del 28/11/12 era stata quella del riposizionamento, successivamente al 26/10/12, dei tubi che man mano venivano saldati a due a due sopra l’unica fila (o le sole due file) di tubi – lunghi la metà di quelli già saldati – esistenti al 26/10/2012.

In tal modo, infatti, era stata realizzata – sostanzialmente ex novo – una catasta di ben 4 o addirittura 5 file sovrapposte di tubi, peraltro in modo disordinato ed asimmetrico, poiché i tubi posti più in alto erano più lunghi di quelli alla base, e quindi in condizione di grave instabilità e rischio. Il rischio esclusivo, conseguente al riaccatastamento, veniva specificamente evidenziato nel secondo e terzo motivo di appello, in cui si evidenziava che quell’attività di posizionamento disordinato dei tubi saldati sopra quelli preesistenti aveva innestato un fattore causale del tutto autonomo, nuovo – ed imprevedibile – rispetto a quelli che le sentenze di merito hanno ricondotto alla condotta del Ma.Sa. e riferibili alla predisposizione del Pos del febbraio 2012 e della sua revisione n. 4 del 19/28 nov. 2012.

L’eventuale carenza di valutazione dei rischi o di misure prevenzionali del Pos del febbraio 2012 e della sua revisione del 19/11/12 predisposti dal Ma.Sa., non aveva potuto in alcun modo contribuire alla verificazione del sinistro per il fatto che le cataste di tubi, oggetto di valutazione nel POS del febbraio 2012, non esistevano più, essendo state esaurite dai prelievi dall’inizio lavori al settembre 2012 e, ancora, la revisione del Pos del novembre 2012 non poteva valutare rischi relativi ad attività di cui lo stesso RSPP era del tutto ignaro, avvenute a sua insaputa e, peraltro, poste in essere ancor prima che la revisione del POS venisse predisposta, accettata, vidimata e comunicata.

Peraltro, nello stesso verbale di sopraluogo del CSE del 26/10/12 risultava attestata la regolarità dello stoccaggio di tubi e materiali in “Isola 6”, attestazione a cui il Ma.Sa. aveva attinto per la redazione della IV revisione del POS. Al riguardo, seppure espressamente sollecitata, la Corte ha omesso ogni verifica critica e logica delle operazioni di riaccatastamento e dei loro effetti sul determinismo causale dell’evento. Infine, la sentenza sarebbe viziata da travisamento, avendo affermato che il Ma.Sa. avesse addirittura negato e contestato che era stata posta in essere un’attività di riaccatastamento dei tubi dopo l’ottobre 2012. Al contrario, tale avvenimento, anziché esser stato negato, costituiva il presupposto logico della linea difensiva.

12.4 Con il quarto motivo, formulato ai sensi dell’art. 606, lett. c), in relazione agli artt. 603, 125 e 597 cod. proc. pen, è dedotta la nullità della sentenza, per mancato esame di un motivo di doglianza e per inesistenza di motivazione.

Nel sesto motivo di appello il ricorrente richiedeva la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale mediante espletamento di nuova perizia per accertare se l’attività di riaccatastamento dei tubi effettuata dal 26 (o 16) ott. 2012 avesse determinato un rischio del tutto nuovo, esterno alla sfera di controllo demandata al Ma.Sa. Sulla richiesta, la Corte di Appello di Caltanissetta non ha fornito alcuna risposta, incorrendo in tal modo nei vizi di nullità sopra denunciati.

12.5 Il quinto motivo contesta l’inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 33, co. 1, lett. a) e c), D.Lgs. 81/2008, in relazione agli artt. 2, lett. b, 18. co. 2, 91, 92, 96, co. 1, lett. c) e g), 100 del D.Lgs. 81/2008 e delle regole contenute nelle tabelle XI e XV allegate al suddetto D.Lgs., norme che definiscono il ruolo, le competenze e le responsabilità del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, e individuano i contenuti e gli ambiti del Piano Operativo di sicurezza e di coordinamento.

L’art. 33 attribuisce al servizio di prevenzione e protezione il compito di individuare i fattori di rischio, valutarli sulla base della specifica conoscenza della organizzazione aziendale (lett. a)) e di elaborare le procedure di sicurezza per le varie attività aziendali (lett. c)).

Al medesimo non è demandata l’organizzazione aziendale, che rimane invece di esclusiva prerogativa del datore di lavoro, del preposto o dei dirigenti. Inoltre, l’elaborazione delle procedure di sicurezza delle attività aziendali presuppone che egli venga adeguatamente informato di tali attività e dell’apprestamento organizzativo con cui si intende svolgerle. Chiarificatore, al riguardo, è il testo dell’art. 18, co. 2, del D.Lgs. 81/2008, il quale stabilisce che il datore di lavoro fornisce al servizio di prevenzione e protezione informazioni in merito alla natura dei rischi, alla organizzazione del lavoro, programmazione e attuazione delle misure preventive e protettive, alla descrizione degli impianti e dei processi produttivi.

Con riferimento al caso di specie, il Ma.Sa. era impossibilitato a individuare e segnalare rischi connessi al nuovo contesto, atteso che mai nessuno aveva comunicato che il cantiere in “Isola 6” era già in attività, anche mediante il riposizionamento dei tubi appena saldati.

12.6 Con il sesto motivo, proposto ai sensi dell’art. 606, lett. b) ed e) cod. proc. pen, è dedotta la violazione di legge penale (art. 43 cod. pen.), e l’omessa, mancanza, illogicità di motivazione in relazione agli elementi costitutivi della colpa.

La Corte di merito, senza alcuna autonoma motivazione e senza confrontarsi in modo argomentato col quinto motivo di appello, ha acriticamente aderito alla decisione di primo grado che aveva considerato il ricorrente in colpa specifica, come da imputazione, per la violazione dell’art. 33 lett. “a” e “b” del D.Lgs. 81 del 2008. Tuttavia, la norma in discorso individua gli oneri di valutazione e prevenzione rischi in capo al datore di lavoro o – anche – al coordinatore della sicurezza. 

La responsabilità del titolare servizio prevenzione e protezione, collaboratore consulenziale del datore di lavoro, può discendere unicamente dalla individuazione di profili di colpa generica (imprudenza, negligenza o imperizia) che, per rimanere riconducibili alla sfera di controllo dell’agente e quindi alla sua consapevole volizione, devono essere necessariamente correlati a dati informativi e conoscitivi che effettivamente pervengano in suo possesso ovvero che egli era tenuto a reperire. Si richiama in proposito quanto dedotto al precedente motivo, in relazione al fatto che il ricorrente non aveva ricevuto alcuna informazione sul processo di riaccatastamento dei tubi.

13. Il ricorso della società Com. Sud Srl

13.1. La ricorrente, con il primo motivo, contesta l’inosservanza ai sensi dell’art. 606, co. 1, lett. c) delle norme processuali stabilite a pena di nullità e segnatamente degli artt. 179,181,185 e 417 cod. proc. pen. e dell’art. 59 del D.Lgs. n. 231/2001, con riferimento al rigetto dell’eccezione di nullità dell’ordinanza emessa dal Tribunale di Gela il 10. 10.2017 e conseguentemente della sentenza di primo grado n. 93/2021.

Già con l’atto di appello, la ricorrente aveva richiamato l’eccezione di nullità della richiesta di rinvio a giudizio già spiegata nel corso dell’udienza dell’8.2.2017 innanzi al GIP di Gela, attesa l’assenza della illustrazione della colpa di organizzazione. Secondo la difesa, il giudice ha commesso un errore di valutazione nella determinazione della responsabilità amministrativa dell’ente. Invero, non è sufficiente dimostrare semplicemente che il dirigente o la persona in posizione apicale abbia commesso un reato nell’interesse o a vantaggio dell’azienda.

La normativa del decreto legislativo 231 del 2001 stabilisce infatti un sistema di responsabilità più articolato. Da un lato, è certamente necessario che si verifichi la commissione di un reato da parte di una persona fisica che agisce per l’organizzazione – questo costituisce il presupposto fondamentale. Tuttavia, il decreto richiede anche la dimostrazione di un elemento soggettivo, ovvero che l’ente stesso abbia mancato ai propri obblighi organizzativi e gestionali. Più precisamente, l’azienda deve aver trascurato di adottare e implementare efficacemente quei modelli organizzativi, quelle procedure di controllo e quelle misure preventive che la legge prevede negli articoli 6 e 7 del decreto. Solo quando si verifica questa doppia condizione – reato del dirigente più inadempimento organizzativo dell’ente – si può configurare la piena responsabilità amministrativa dell’organizzazione.

Il vizio è risalente alla stessa contestazione, poiché la sussistenza della c.d. “colpa di organizzazione” è assolutamente assente nella richiesta di rinvio a giudizio nonché nel decreto che ha disposto all’epoca il giudizio.

13.2. Il secondo motivo lamenta vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 606, lett. e), in relazione all’art. 125 cod. proc. pen., e di violazione di legge, ai sensi dell’art. 606, co. 1, lett. c), per violazione del combinato disposto degli artt. 516,518,521 e 522 cod. proc. pen., essendo stata accertata la responsabilità dell’ente sulla base di fatti e circostanze mai indicati nel capo di imputazione, in violazione dei principi di tipicità e tassatività che valgono anche per la responsabilità degli enti ex D.Lgs. 231/2001.

13.3. Il terzo motivo ripropone le questioni relative alla omessa estromissione della parte civile, a seguito della definizione delle questioni risarcitorie con atto transattivo, in termini analoghi a quanto già sostenuto dagli altri ricorrenti.

14. Il Procuratore Generale ha depositato memoria chiedendo che la Corte di Cassazione voglia annullare la sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della pena con riferimento a Ca.Be. e Za.Fa., con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Caltanissetta; rigettare i ricorsi proposti da Ca.Ni., Gi.Ma., Mo.Ma., Be.Al., Ag.Pa., Ie.Sa., Pe.An., Fi.Ro., e “Raffineria di Gela” Spa; annullare senza rinvio la sentenza impugnata con riferimento a Maretta Salvatore; annullare senza rinvio la sentenza impugnata con riferimento alla società “S.G.S. Ser.” Srl limitatamente alle statuizioni concernenti le parti civili costitute; dichiarare l’inammissibilità dei ricorsi proposti da Tu.Se. e dalla società “Com. Sud” a r. I.

15. L’Avvocato Salvatore Macrì, ha depositato conclusioni e nota spese per la parte civile Mo.An.

16. L’Avvocato Carlo Autru Ryolo ha depositato memoria difensiva nell’interesse del Signor Za.Fa., richiedendo altresì la trattazione orale.

17. L’Avvocato Giacomo Ventura, difensore di fiducia di Fi.Ro., ha depositato memoria di replica alle conclusioni del P.G.

18. L’Avvocato Gualtiero Cataldo ha depositato memoria difensiva nell’interesse di Bio Raffineria di Gela Spa, richiedendo altresì la trattazione orale.

19. L’Avvocato Antonio Raffo, difensore di Ca.Ni., Gi.Ma. e Pe.An., ha depositato istanza di trattazione orale e ha allegato documenti. In data 10 maggio, ha trasmesso certificato di morte di Pe.An.

20. L’Avvocato Dario Bolognesi, difensore dell’ing. Ca.Be., ha depositato brevi note per insistere su due aspetti rilevanti già trattati nel ricorso, richiedendo altresì la trattazione orale.

21. L’Avvocato Giacomo Ventura ha depositato memoria di replica, anche con profilo nuovo per Tu.Se., richiedendo inoltre la trattazione orale.

13. L’Avvocato Antonio Gagliano ha formulato istanza di trattazione orale per Ma.Sa.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Le questioni di natura processuale dedotte dai ricorrenti, concernenti la partecipazione al giudizio delle parti civili e l’utilizzabilità della perizia espletata in incidente probatorio, pur articolandosi in distinte doglianze, presentano profili di sostanziale omogeneità che ne giustificano una trattazione unitaria.

1.1 La prima riguarda la legittimazione processuale delle parti civili e i vizi conseguenti alla loro mancata estromissione.

Ca.Ni., Gi.Ma., Pe.An., Ag.Pa., Be.Al., Ie.Sa., Mo.Ma., Ma.Sa., SGS Ser. Srl, Com. Sud Srl, hanno eccepito l’illegittima permanenza nel processo degli eredi della vittima.

Ad avviso dei suddetti ricorrenti, le suddette parti civili avrebbero dovuto essere escluse già in sede di udienza preliminare, poiché erano state integralmente risarcite in forza di un accordo transattivo intervenuto in data 12 ottobre 2016 con RA.GE Spa (già Raffineria di Gela Spa), Ca.Be., Za.Fa. e Va.Ig. 

La mancata estromissione delle parti civili avrebbe determinato, secondo questa prospettazione, un pregiudizio irreversibile al diritto di difesa degli imputati, tale da viziare l’intero procedimento per violazione dell’art. 178, lett. c), cod. proc. pen., anche in considerazione della ingerenza delle stesse parti nella formazione della prova.

I motivi sono manifestamente infondati.

Il giudice di merito ha legittimamente escluso che la mancata estromissione possa determinare nullità processuali, allineandosi alla giurisprudenza, risalente ma consolidata, secondo cui il mancato accertamento delle condizioni per l’esclusione della parte civile non è presidiato da alcuna sanzione processuale (Sez. 1, n. 9811 del 13/05/1987, Rv. 176651-01; Sez. 5, n. 10528 del 21/10/1983, Rv. 161599-01). Per completezza, si è correttamente escluso che possa applicarsi l’art. 178 lett. c) cod. proc. pen. per eccepire la nullità dell’intero procedimento. Il vizio eventuale, infatti, atterrebbe alle sole statuizioni inerenti all’azione civile, senza travolgere il giudizio penale nel suo complesso.

Quanto al merito della questione, i giudici di appello hanno logicamente operato la fondamentale distinzione concettuale tra l’interesse ad agire, quale condizione dell’azione, e il diritto al risarcimento del danno ex art. 185 cod. pen., che costituisce l’oggetto del rapporto sostanziale dedotto in giudizio. È stato correttamente richiamato il pronunciamento delle Sezioni Unite civili, secondo cui l’interesse ad agire, quale presupposto processuale per l’esercizio dell’azione civile nel processo penale, consiste nell’esigenza di ottenere un risultato giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice (Sez. U civ., sent. n. 565 del 10 agosto 2000, Rv. 539397-01).

In tale prospettiva, è stato evidenziato che l’accertamento dell’interesse ad agire deve compiersi con riguardo all’utilità del provvedimento giudiziale richiesto rispetto alla lesione denunciata, prescindendo da ogni indagine di merito concernente l’esistenza dell’interesse sostanziale tutelato (Sez. U civ., ord. n. 34388 del 22 novembre 2022, Rv. 666366-01). Parallelamente, si è correttamente precisato che il diritto al risarcimento del danno ex art. 185 cod. pen. attiene al merito del rapporto sostanziale e il suo accertamento deve essere compiuto all’esito del processo, una volta accertata la responsabilità dell’imputato.

La Corte distrettuale ha correttamente applicato i principi giurisprudenziali consolidati in materia di delimitazione delle competenze tra giudice penale e giudice civile nella quantificazione del danno risarcitorio. E conseguentemente, è stato ritenuto che la quantificazione definitiva del danno spetti esclusivamente al giudice civile.

Si è altresì escluso che la presenza di accordi transattivi parziali possa automaticamente determinare l’esclusione della parte civile dal giudizio penale, in applicazione del principio secondo cui, nelle ipotesi di obbligazioni solidali, ogni atto di transazione parziale riguarda unicamente il debitore che vi aderisce, senza estendere i propri effetti agli altri condebitori (Sez. 5 – n. 27945 del 12/05/2023, Rv. 284912; Sez. 4, n. 3335 del 22/12/2016, dep. 2017, Rv. 268884).

Coerentemente con tali premesse, è stato osservato che nel caso di specie la transazione aveva carattere parziale, essendo stata conclusa “a titolo di mero ristoro”, e inoltre solo in relazione ad alcuni degli imputati (RA.GE Spa, Ber. Ca.Be., Fab. Za.Fa. e Va.Ig.).

In tal caso, sarà il giudice civile, al quale la condanna generica pronunciata in sede penale ha demandato la liquidazione del danno, a valutare, in via definitiva, in quale misura, l’importo oggetto di transazione possa ritenersi satisfattivo del diritto al risarcimento.

L’iter motivazionale seguito dal giudice non presenta profili di illogicità né vizi nell’apparato argomentativo, risultando anzi caratterizzato da coerenza interna e rigore espositivo; conseguentemente, i motivi di ricorso che ne contestano la tenuta logica e la difformità rispetto al parametro normativo si manifestano privi di pregio e non possono trovare accoglimento.

1.2 I ricorrenti Ie.Sa., Be.Al., Ag.Pa. e Ma.Sa. hanno eccepito che l’incidente probatorio espletato sarebbe stato nullo e le relative risultanze inutilizzabili nei loro confronti, per non aver ricevuto avviso e non aver potuto esercitare le loro prerogative di difesa nel corso del suo svolgimento.

Specificamente, il ricorrente Ma.Sa. ha dedotto che la sua iscrizione nel registro degli indagati era doverosa già al momento della richiesta di incidente probatorio, considerato che la Polizia Giudiziaria aveva segnalato al Pubblico Ministero l’opportunità di sottoporlo ad intercettazioni telefoniche fin dal dicembre 2012, mentre l’incidente probatorio fu espletato nel marzo-aprile 2014.

I motivi sono infondati.

L’art. 403 cod. proc. pen. prevede che nel dibattimento le prove assunte con l’incidente probatorio sono utilizzabili soltanto nei confronti degli imputati i cui difensori hanno partecipato alla loro assunzione, mentre il co. 1-bis dello stesso articolo precisa che, se nei confronti dell’imputato sono stati acquisiti indizi di colpevolezza solo successivamente all’assunzione della prova, questa non può essere utilizzata nei suoi confronti, salvo che la ripetizione dell’atto sia divenuta impossibile.

Dunque, l’estensione prevista dall’art. 403, co. 1-bis, cod. proc. pen., è correlata a due presupposti cumulativi: l’acquisizione di indizi di colpevolezza nei confronti del soggetto solo successivamente all’incidente probatorio e l’impossibilità di ripetere l’atto probatorio. Quanto al primo presupposto, è stato opportunamente chiarito che esso richiede la sussistenza di specifici elementi indizianti e non di meri sospetti (Sez. 1, n. 41142 del 17/07/2017, dep. 2018, Rv. 273971). Applicando tali principi al caso di specie, i giudici hanno correttamente rilevato che l’incidente probatorio era stato disposto per lo svolgimento di accertamenti tecnici su luoghi e cose soggetti a modificazioni, e che lo smantellamento definitivo del cantiere, rimasto nelle condizioni in cui si trovava al momento dell’infortunio, era avvenuto il 13 marzo 2014, rendendo impossibile la ripetizione della perizia. Per quanto concerne la dedotta condizione di indagati in senso sostanziale, prospettata dai suddetti ricorrenti, occorre osservare che i ricorsi di Ie.Sa., Ag.Pa. e Be.Al., non contengono alcuna allegazione idonea a raffigurare l’esistenza di indizi a loro carico, tali da giustificare la necessaria iscrizione, sin dal momento in cui è stato disposto l’incidente probatorio.

La motivazione addotta dal giudice di merito è immune da vizi logici.

È condivisibile l’argomentazione secondo cui, nella fattispecie esaminata, la notitia criminis non poteva considerarsi integrata dal mero verificarsi dell’infortunio o dalla posizione ricoperta dal soggetto, né dal sorgere di mere ipotesi o sospetti. Era invece necessario il concorso di specifici elementi indiziari idonei a stabilire un nesso tra una condotta e l’evento lesivo, non potendo la sola indicazione del ruolo rivestito giustificare l’attribuzione della qualità sostanziale di indagato. Inoltre, è stato opportunamente sottolineato in sentenza che, tra gli imputati, soltanto Ma.Sa. aveva allegato circostanze a sostegno della propria eccezione relativa alla tardiva iscrizione, producendo atti investigativi dai quali emergeva che il suo nome e le sue generalità erano stati segnalati dalla Polizia giudiziaria al Pubblico Ministero affinché venisse sottoposto anche ad eventuali intercettazioni. Logicamente motivata appare la valutazione secondo cui la scelta del Pubblico Ministero di non procedere all’iscrizione dei già menzionati ricorrenti, pur a seguito delle indicazioni della Polizia Giudiziaria, non poteva dirsi frutto di indebito ritardo o di omissione, bensì di pertinente valutazione discrezionale.

Specificamente, in ordine alla posizione di Ma.Sa., è stato osservato che l’elemento addotto a sostegno dell’eccezione – una segnalazione della Polizia Giudiziaria per eventuali intercettazioni – non appariva sufficiente, trattandosi di una mera proposta investigativa non necessariamente correlata all’esistenza di elementi indizianti specifici. Nel valutare il dedotto vizio di natura processuale, che consente a questa Corte il giudizio sul fatto, deve aggiungersi che non risulta neppure allegato che alla richiesta della Polizia Giudiziaria di procedere a intercettazioni sia stato dato seguito, circostanza che conferma come tale segnalazione non fosse indicativa della sussistenza di elementi indizianti. Ciò tanto più alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale chi ha assunto il ruolo di RSPP “in quanto consulente del datore di lavoro privo di potere decisionale, risponde dell’evento in concorso con il datore di lavoro, solo se abbia commesso un errore tecnico nella valutazione dei rischi dando un suggerimento sbagliato od omettendo di segnalare situazioni di rischio colposamente non considerate” (Sez. 4, n. 49761 del 17/10/2019, Rv. 277877). Dunque, il solo svolgimento delle relative funzioni non basta a giustificare la doverosa iscrizione.

Rimangono assorbite le questioni relative alla nullità derivata e all’impossibilità di recuperare il contenuto probatorio mediante l’esame del perito, che presuppone – necessariamente l’invalidità o l’inutilizzabilità degli elementi acquisiti durante l’incidente probatorio. Tale presupposto, tuttavia, non ricorre nella presente fattispecie per le considerazioni già esposte.

2. La quantificazione della pena costituisce un’ulteriore questione comune che merita trattazione unitaria. Benché sollevata specificamente da Ber. Ca.Be. nel quinto motivo e da Fab. Za.Fa. nel sesto, essa si estende a tutti i soggetti che hanno ricevuto analogo trattamento ai sensi dell’art. 587 cod. proc. pen.

Entrambi i ricorrenti hanno dedotto la violazione dell’art. 69 cod. pen. nel bilanciamento tra circostanze eterogenee, sostenendo che il Tribunale aveva erroneamente assunto come pena base quella prevista per il reato aggravato (anni 2); infatti, essendo stata riconosciuta la prevalenza delle attenuanti, la diminuzione avrebbe dovuto essere operata sulla cornice edittale del reato base. Si è osservato che la Corte di appello non ha fornito alcuna motivazione su tale specifica doglianza, limitandosi a confermare il trattamento sanzionatorio, senza confrontarsi con i principi giurisprudenziali consolidati in materia di bilanciamento.

Il motivo è fondato.

Il procedimento determinativo della pena stabilisce una sequenza logica precisa: il giudice deve preliminarmente operare il giudizio di comparazione tra circostanze e, qualora questo si concluda per l’equivalenza, escludere completamente dalla valutazione le circostanze del reato; se invece accerti la prevalenza di alcune circostanze su altre, dovrà considerare esclusivamente quelle prevista per procedere alla determinazione finale della sanzione. 

Nel caso di specie, la pena base corrispondeva a quella prevista per l’omicidio colposo semplice – quindi privo di circostanze – poiché la sentenza d’appello aveva riconosciuto le attenuanti generiche come prevista rispetto alle aggravanti contestate. L’accoglimento del ricorso per la violazione dei criteri di determinazione della pena deve necessariamente estendersi, ai sensi dell’art. 587 cod. proc. pen., anche agli altri imputati che, pur non avendo specificamente impugnato il trattamento sanzionatorio, hanno subito il medesimo errore nella applicazione dei principi di cui all’art. 69 cod. pen. 

La ratio dell’effetto estensivo risiede nel garantire parità di trattamento agli imputati che si trovano in situazioni giuridiche sostanziali identiche o interdipendenti, evitando che errori oggettivi nella determinazione della pena possano produrre disparità di trattamento tra coimputati del medesimo reato. Nel caso di specie, l’errore commesso dal giudice di appello nell’assumere come pena base quella del reato aggravato anziché quella del reato semplice, in presenza di attenuanti previste, costituisce un vizio di natura oggettiva che non presenta carattere esclusivamente personale. L’errore metodologico nella sequenza determinativa della pena, consistente nell’inversione dell’ordine logico-valutativo previsto dall’art. 69 cod. pen., rappresenta una violazione di legge che prescinde dalle specifiche condizioni soggettive dei singoli imputati e attiene invece alla corretta applicazione dei criteri legali di commisurazione della sanzione.

L’estensione dell’effetto favorevole dell’annullamento opera automaticamente in applicazione del principio del favor rei, senza necessità di specifica richiesta da parte degli imputati non ricorrenti, ricorrendone le condizioni costituite da: natura oggettiva del motivo, accoglimento del ricorso e assenza di giudicato incompatibile (Sez. 3, n. 364 del 17/09/2019, dep. 09/01/2020, Rv. 278392). Nel giudizio di rinvio, pertanto, la Corte d’Appello dovrà procedere alla rideterminazione della pena per tutti gli imputati coinvolti, assumendo, secondo la sequenza prevista dall’art. 69 cod. pen., come pena base quella del reato semplice, per poi operare la diminuzione in ragione della riconosciuta prevalenza delle circostanze attenuanti.

3. Definite le questioni di carattere generale comuni a tutti i ricorrenti, occorre ora esaminare le ulteriori specifiche doglianze sollevate da ciascuno di essi, le quali, pur inserendosi nello stesso quadro sistematico, presentano profili di peculiarità che richiedono una valutazione distinta e puntuale.

4. Ricorsi di Ber. Ca.Be., amministratore delegato di RA.GE (Bio Raffineria di Gela) Spa, e di Za.Fa., responsabile per la gestione dei progetti di RA.GE Spa

4.1 I ricorrenti Ca.Be. e Za.Fa. hanno proposto rispettivamente cinque e sei motivi di ricorso, contestando principalmente la ritenuta responsabilità del committente, nonostante la valida nomina del Responsabile dei Lavori, l’assenza di concrete ingerenze nella gestione della sicurezza del cantiere e l’affidamento incolpevole sulla apparente inesistenza di situazioni di pericolo.

La disamina dei motivi di ricorso in cui sono contenute le predette censure (I- II e IV motivo per Ca.Be. e V per Za.Fa.) deve essere preceduta da una premessa sui riferimenti normativi e giurisprudenziali relativi alla disciplina della responsabilità del committente e del responsabile dei lavori. La disciplina della sicurezza nei cantieri temporanei o mobili è contenuta nel Titolo IV del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, che ha sostituito il previgente D.Lgs. 14 agosto 1996, n. 494.

L’art. 89, co. 1, lett. a) e c), D.Lgs. 81/2008, definisce rispettivamente committente “il soggetto per conto del quale l’intera opera viene realizzata, indipendentemente da eventuali frazionamenti della sua realizzazione”; responsabile dei lavori, il “soggetto che può essere incaricato dal committente per svolgere i compiti ad esso attribuiti dal presente decreto; nel campo di applicazione del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e successive modificazioni, il responsabile dei lavori è il responsabile del procedimento”.

L’art. 90 del D.Lgs. 81/2008 stabilisce gli obblighi del committente o del responsabile dei lavori, tra cui: nominare il coordinatore per la progettazione e il coordinatore per l’esecuzione dei lavori (co. 3); comunicare alle imprese affidatarie e alle imprese esecutrici il nominativo del coordinatore per la progettazione e del coordinatore per l’esecuzione dei lavori (co. 4); verificare l’idoneità tecnico-professionale delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi (co. 9, lett. a).

Norma cardine è rappresentata dall’art. 93, co. 1, del D.Lgs. 81/2008, che nella formulazione attuale – modificata dal D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106 – stabilisce: “Il committente è esonerato dalle responsabilità connesse all’adempimento degli obblighi limitatamente all’incarico conferito al responsabile dei lavori”. La novella del 2009 ha eliminato il secondo periodo che, nella versione originaria, prevedeva: “In ogni caso il conferimento dell’incarico al responsabile dei lavori non esonera il committente dalle responsabilità connesse alla verifica degli adempimenti degli obblighi di cui agli articoli 90, 92, co. 1, lettera e), e 99”. Come chiarito nella Relazione di accompagnamento al D.Lgs. 106/2009, la modifica deriva dalla necessità di rettificare la precedente formulazione, la quale impediva che la nomina del responsabile dei lavori potesse comportare un passaggio di responsabilità.

La giurisprudenza di legittimità ha progressivamente definito i contorni della responsabilità del committente e delle condizioni a cui è ricollegabile l’efficacia liberatoria connessa alla nomina del responsabile dei lavori. In ordine alla posizione di garanzia originaria del committente, è stato affermato che in materia di infortuni sul lavoro in un cantiere edile, il committente rimane il soggetto obbligato in via principale all’osservanza degli obblighi imposti in materia di sicurezza, atteso che l’effetto liberatorio si verifica solo a seguito della nomina del responsabile dei lavori e nei limiti dell’incarico conferito a quest’ultimo (Sez. 4, 27/09/2011, n. 47476, Ferrario, n.m.). 

È stato poi ribadito che a carico del responsabile dei lavori grava una posizione di garanzia connessa ai compiti di sicurezza non solo nella fase genetica dei lavori, laddove vengono redatti i piani di sicurezza, ma anche durante il loro svolgimento, ove è previsto che debba svolgere un’attività di sorveglianza del loro rispetto (Sez. 4, 14/01/2020, n. 3742, Barbieri, Rv. 278035). In ordine alle condizioni per l’esonero effettivo del committente, è stato precisato che il medesimo, quale soggetto che normalmente concepisce, programma, progetta e finanzia un’opera, è titolare ex lege di una posizione di garanzia che integra ed interagisce con quella di altre figure di garanti legali (datori di lavoro, dirigenti, preposti), e può designare un responsabile dei lavori, con un incarico formalmente rilasciato accompagnato dal conferimento di poteri decisori, gestionali e di spesa, che gli consenta di essere esonerato dalle responsabilità, sia pure entro i limiti dell’incarico medesimo (Sez. 3, 31/01/2018, n. 14359, Focardi, n.m.).

È stato sottolineato che il legislatore non ha predeterminato gli effetti della nomina del responsabile dei lavori, avendo stabilito espressamente che l’area di esonero della responsabilità del committente dipende dal contenuto e dall’estensione dell’incarico conferito (“limitatamente all’incarico conferito)” e che risulta insufficiente la mera nomina del responsabile dei lavori senza specificazione delle competenze affidategli (Sez. 4, del 12/02/2025, n. 14012 , Zambelli, in motivazione, a pag. 6). 

In sintesi, l’esenzione del committente dalle responsabilità che la legge gli impone si verifica solo a seguito della nomina del responsabile dei lavori e nei limiti dell’incarico conferito a quest’ultimo”; inoltre, alla nomina del responsabile dei lavori si deve imprescindibilmente accompagnare un atto di delega, con il quale si attribuiscano al predetto responsabile dei lavori poteri decisionali, cui sono connessi evidenti oneri di spesa o, più in generale, la determinazione della sfera di competenza attribuitagli (Sez. 4, 14/03/2008, n. 23090, P.M. in proc Scarfone, Rv. 240377). 

Qualora ricorrano le descritte condizioni, sul responsabile dei lavori gravano tutte le funzioni proprie del datore di lavoro in materia di sicurezza, essendo egli chiamato a svolgere un ruolo di super-controllo consistente, tra l’altro, nella verifica che i coordinatori dei lavori adempiano agli obblighi su loro incombenti (Sez. 4, 9/05/2018, n. 40921, Ghidini, n.m., pagina 8, par. 6). Per rendere effettiva la funzione di controllo, si è sottolineato che il sovraordinato ruolo di responsabile dei lavori non può essere attribuito al datore di lavoro dell’impresa esecutrice, poiché una tale eventualità riprodurrebbe, ad un più alto livello di responsabilità, l’inconcepibile identificazione tra controllore e soggetto controllato per ciò che riguarda la sicurezza del cantiere (Sez. 4, 20 maggio 2015, n. 34818, Lanari e altri, pag. 16, par. 11).

In ipotesi di nomina del RDL, la stessa giurisprudenza ha fornito utili specificazioni per l’accertamento delle corresponsabilità del committente. È stato così precisato che, qualora il committente si ingerisca di fatto nell’organizzazione o nell’esecuzione dei lavori, o sia a conoscenza di situazioni di pericolo agevolmente e immediatamente percepibili senza intervenire, la sua responsabilità può comunque configurarsi (Sez. 4, 23 aprile 2025, n. 18169, Mischi, Rv. 288004; Sez. 4, n. 27296 del 2/12/2016, Vettor, Rv. 270100)

4.2 Nel caso di specie, dalle decisioni di merito emerge che la condotta attribuita ai ricorrenti Ca.Be. e Za.Fa., nella loro veste di rappresentante e incaricato della società committente, si è articolata nelle seguenti attività.

Ber. Ca.Be., amministratore delegato di RA.GE Spa, ha provveduto alla nomina del Responsabile dei Lavori, conferendo dapprima l’incarico all’ing. Be.Al. di SGS Ser. S. r.l. in data 30 dicembre 2011; e poi, all’ing. Mo.Ma. di SGS Ser. Srl in data 2 ottobre 2012. Dall’atto di nomina emerge che l’incarico conferito al Responsabile dei Lavori era comprensivo di tutte le fasi di realizzazione dell’opera e includeva specificamente gli obblighi che, senza tale nomina, sarebbero gravati sul committente. 

Il Responsabile dei lavori ha partecipato a riunioni sulla sicurezza, tra cui quella dell’8 novembre 2012, durante la quale è stato esaminato il verbale di sopralluogo del 26 ottobre 2012 in cui l’assistente del CSE attestava il “corretto stoccaggio delle tubazioni” nell’area “Isola 6”. Come evidenziato dalla stessa procedura RA.GE HSE 0017, in capo al committente si manteneva una sfera di vigilanza limitata alla verifica che il responsabile dei lavori ottemperasse agli adempimenti di cui all’art. 90 D.Lgs. n. 81/2008. 

Za.Fa., responsabile per la gestione dei progetti, rivestiva il ruolo di “project leader” per la gestione del contratto di appalto relativo al miglioramento tecnologico della linea P2, con funzioni di coordinamento tecnico-gestionale del progetto. Egli ha partecipato ad alcune riunioni di sicurezza insieme a Ca.Be., senza tuttavia assumere un ruolo direttivo autonomo nelle decisioni relative alla sicurezza; ha apposto la propria firma esclusivamente sul quadro A del permesso di lavoro n. omissis, quale richiedente il permesso stesso, mentre altri soggetti (Ag.Pa.) hanno verificato le misure di prevenzione e autorizzato le lavorazioni.

Non emerge alcuna investitura formale di Za.Fa. con specifici poteri e doveri in materia di sicurezza sul lavoro, rimanendo il suo ruolo circoscritto agli aspetti tecnico-gestionali del progetto.

4.3. Sulla base delle suddette circostanze, confrontate con il quadro normativo e giurisprudenziale richiamato, emerge che la motivazione della Corte di appello incorre nei vizi denunciati dai ricorrenti.

Il collegio di merito ha ritenuto sussistente la responsabilità di Ca.Be. e di Za.Fa., quali esponenti della ditta committente, sulla base di una presunta ingerenza nella gestione della sicurezza del cantiere, ma tale conclusione appare priva di adeguata dimostrazione. Come è stato correttamente eccepito, sono stati erroneamente qualificati come “ingerenze” comportamenti che rientrano nella normale attività di vigilanza residuale del committente o in attività meramente gestionali. 

In linea generale, l’ingerenza rilevante ai fini della responsabilità del committente non s’identifica con qualsiasi atto o comportamento posto in essere da quest’ultimo, ma deve considerarsi in una attività di concreta interferenza sul lavoro altrui tale da modificarne le modalità di svolgimento e da stabilire comunque con gli addetti ai lavori un rapporto idoneo ad influire sull’esecuzione degli stessi.

Va altresì sottolineato che il dovere di sicurezza gravante sul datore di lavoro opera anche in relazione al committente, dal quale non può tuttavia esigersi un controllo pressante, continuo e capillare sull’organizzazione e sull’andamento dei lavori; ne consegue che, ai fini della configurazione della responsabilità del committente, occorre verificare in concreto quale sia stata l’incidenza della sua condotta nell’eziologia dell’evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l’esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell’appaltatore o del prestatore d’opera, alla sua ingerenza nell’esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d’opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità da parte del committente di situazioni di pericolo (Sez. 4, n. 18169 del 23/04/2025, Rv. 288004; sez. 4, n. 44131 del 15/07/2015, Rv. 264974).

Nel caso di specie, le condotte contestate ai ricorrenti non integrano la nozione di ingerenza, come sopra delineata. Non è tale la mera partecipazione alle riunioni di coordinamento, trattandosi di attività prevista dalla stessa procedura aziendale e compatibile con l’obbligo residuale di vigilanza sull’operato del responsabile dei lavori. La sottoscrizione del permesso di lavoro da parte di Za.Fa. in qualità di “richiedente” rientra nelle normali procedure amministrative e non integra assunzione diretta di responsabilità sulla sicurezza, essendo altri soggetti deputati alla verifica e all’autorizzazione delle misure preventive.

Non emerge dalle argomentazioni contenute in sentenza che i committenti abbiano impartito direttive specifiche o modificato le modalità operative previste nei piani di sicurezza.

Al contrario, la gestione della sicurezza è rimasta affidata ai soggetti specificamente investiti dei compiti, e precisamente al responsabile dei Lavori, ai coordinatori per la sicurezza e datori di lavoro delle imprese esecutrici.

Coglie nel segno la censura difensiva laddove osserva che la Corte di appello non ha adeguatamente valutato l’efficacia della nomina del Responsabile dei Lavori, che risulta essere stata formale e specifica, con atto scritto contenente l’indicazione precisa degli obblighi trasferiti; con il conferimento di reali poteri decisionali ai soggetti nominati (ingegneri di comprovata esperienza); e mediante un incarico i riguardava tutte le fasi di realizzazione dell’opera.

Non è stata fornita adeguata risposta alla tesi difensiva, logicamente ineccepibile, secondo la quale la partecipazione ad alcune riunioni di sicurezza, inclusa quella dell’8 novembre 2012 durante la quale fu esaminato il verbale di sopralluogo del 26 ottobre 2012 attestante il “corretto stoccaggio delle tubazioni” nell’area “Isola 6”, non può considerarsi indicativa di una percezione del pericolo, dal momento che l’attestazione di conformità da parte dell’assistente del CSE rappresentava una conferma della regolarità delle operazioni.

In sintesi, la Corte di appello non ha fornito adeguata risposta argomentativa a specifiche doglianze, tra l’altro discostandosi dalle conclusioni del perito ing. Ro. il quale aveva riconosciuto che, con la nomina del responsabile dei lavori il committente originario era esonerato dalle responsabilità connesse all’adempimento degli obblighi limitatamente all’incarico conferito.

4.4 In ordine alla posizione di Za.Fa., occorre aggiungere che, come correttamente eccepito in ricorso con i motivi da 1 a 4, la Corte distrettuale ha ravvisato un’ipotesi di responsabilità per mancato impedimento dell’evento, prescindendo dalla verifica della sussistenza di una posizione di garanzia, non essendo stata individuata la fonte normativa della stessa, e non verificati gli effettivi poteri impeditivi. La responsabilità è stata fondata sul mero svolgimento di un ruolo nell’ambito dell’appalto, senza il necessario approfondimento sulla fonte dell’obbligo giuridico di impedire l’evento.

La motivazione ha sostanzialmente eluso tali censure, equiparando genericamente la posizione di Za.Fa. a quella del committente, senza tuttavia individuare una specifica fonte di obblighi penalmente rilevanti in capo al project leader. 

La sentenza impugnata deve essere pertanto annullata con rinvio, in relazione alle posizioni di Ca.Be. e Za.Fa., per valutare l’efficacia della nomina del Responsabile dei Lavori alla luce dei principi giurisprudenziali consolidati e della concreta ripartizione degli obblighi emergenti dalla documentazione contrattuale, specificando inoltre le ragioni idonee a giustificare la ravvisabilità di una posizione di garanzia in capo allo Za.Fa.

4.5 Il terzo motivo di ricorso resta assorbito.

4.6 I motivi concernenti il trattamento sanzionatorio (V per Ca.Be. per Za.Fa.), sono stati già esaminati al punto 2 del Considerato in diritto, cui si rinvia.

5. Ricorsi di Mo.Ma. e di Ie.Sa., dipendenti della S.G.S. Ser., con le funzioni di responsabile dei lavori dal 2/10/2012 il primo e di coordinatore per la sicurezza per l’esecuzione il secondo.

Preliminarmente si osserva che i primi due motivi, relativi alla mancata estromissione delle parti civili, alla dedotta inutilizzabilità della perizia assunta in incidente probatorio e alle conseguenti nullità derivate, sono stati già esaminati ai precedenti punti 1.1 e 1.2 del Considerato in diritto.

5.1 L’esame degli ulteriori motivi di ricorso deve essere preceduta da una premessa sul quadro normativo e giurisprudenziale relativo al ruolo del responsabile dei lavori.

La responsabilità penale del responsabile dei lavori ex art. 89, co. 1, lett. c), D.Lgs. 81/2008, si inserisce nel contesto del modello plurisoggettivo della sicurezza introdotto dal Testo Unico, che ha superato la tradizionale impostazione incentrata sulla figura del datore di lavoro, e che ha collocato la suddetta figura, come efficacemente descritto dalla dottrina, nella posizione di alter ego del committente.

La qualificazione comporta che il responsabile dei lavori non svolga mere funzioni di supporto tecnico, ma assuma una posizione di garanzia derivata, caratterizzata da autonomia decisionale nell’ambito delle competenze delegate.

La natura derivata di questa posizione di garanzia richiede un accertamento specifico dell’effettiva assunzione delle funzioni delegate. L’art. 90 D.Lgs. 81/2008 delinea un sistema articolato di obblighi che si sviluppano lungo l’intero arco temporale dell’opera, partendo dalla fase di progettazione sino a quella di esecuzione. Tra questi viene in rilievo l’obbligo di verifica dell’idoneità tecnico-professionale delle imprese (art. 90, co. 9, lett. a). Questo obbligo non si limita a una verifica meramente documentale, ma richiede una valutazione sostanziale delle capacità operative delle imprese affidatarie, estendendosi alle concrete capacità di gestione della sicurezza.

Di particolare rilievo è l’obbligo di vigilanza sull’attuazione delle misure di prevenzione. Il responsabile dei lavori deve assicurare che le misure di sicurezza previste nei piani vengano effettivamente implementate e mantenute nel tempo. Incidentalmente si osserva che quest’obbligo assume particolare rilevanza quando si verifichino eventi novativi – come nel caso in esame l’incendio del 16. 10.2012 – che richiedano una rivalutazione delle condizioni di sicurezza. Tutto ciò serve a evidenziare come questa figura occupi una posizione centrale nel sistema prevenzionistico dei cantieri, caratterizzata da una responsabilità che va oltre il mero controllo formale per estendersi alla gestione sostanziale degli aspetti di sicurezza.

Il medesimo soggetto ha anche il compito di nominare i coordinatori per la sicurezza e di vigilare sul loro operato, senza tuttavia sostituirsi nelle loro funzioni tecniche specialistiche. Riguardo al Coordinatore per la Sicurezza in fase di Esecuzione (CSE), la giurisprudenza di legittimità ha consolidato il principio secondo cui il medesimo riveste una posizione di garanzia caratterizzata da “alta vigilanza” sul cantiere.

Egli, come correttamente evidenziato dalla Corte di Appello, deve farsi carico della generale configurazione di quelle lavorazioni che comportano un rischio interferenziale, attraverso l’espletamento di una funzione di alta vigilanza, salvo l’obbligo di adeguare il piano di sicurezza in relazione all’evoluzione dei lavori e di sospendere, in caso di pericolo grave e imminente, direttamente riscontrato ed immediatamente percettibile, le singole lavorazioni fino alla verifica degli avvenuti adeguamenti da parte delle imprese interessate (Sez. 4, n. 24915 del 10/06/2021, Rv. 281489; Sez. 4, n. 14179 del 10/12/2020, dep. 15/04/2021, Rv. 281014).

Inoltre, ha il compito di controllo sul POS, non limitato alla regolarità formale dello stesso e alla astratta fattibilità delle lavorazioni con i mezzi ivi indicati, ma si estende alla verifica della compatibilità di tale lavorazione con le concrete caratteristiche degli strumenti forniti e delle protezioni apprestati dall’impresa (Sez. 4, n. 2845 del 15/10/2020, dep. 25/01/2021, Rv. 280319).

5.2 Tanto premesso, con specifico riferimento ai ricorrenti Mo.Ma., Responsabile dei Lavori, e Ie.Sa., Coordinatore per la Sicurezza in fase di Esecuzione, infondato è il terzo motivo, formulato sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione in relazione all’applicabilità al caso di specie delle norme contenute nel Titolo IV del D.Lgs. 81/2008.

La Corte di Appello ha fornito logica e approfondita motivazione nell’affermare l’applicabilità del Titolo IV all’area “Isola 6”, basandosi su consolidati principi giurisprudenziali.

È stato richiamato il costante insegnamento della giurisprudenza compendiato nella motivazione di secondo cui nella nozione di luogo di lavoro, rilevante ai fini della sussistenza dell’obbligo di attuare le misure antinfortunistiche, rientra ogni luogo in cui venga svolta e gestita una qualsiasi attività implicante prestazioni di lavoro (Cass. sez. 4, n. 44654 del 22.9.2022, Rv. 283751). È stato ulteriormente precisato che nel predetto ambito rientra non soltanto il cantiere, ma anche ogni altro luogo in cui i lavoratori siano necessariamente costretti a recarsi per provvedere ad incombenze inerenti all’attività che si svolge nel cantiere (Cass. n. 28780 del 19.5.2011, Rv. 250760).

Sulla base di tali principi, in sentenza si è correttamente affermato che l’identificazione di un’area come cantiere non può prescindere dal dato fattuale, cioè dall’effettiva utilizzazione di un’area per un’attività lavorativa funzionale alle finalità del cantiere, respingendo l’argomentazione secondo cui tale qualificazione dipenderebbe da fonti formali o convenzionali, dalla sussistenza o dalla validità di un permesso di lavoro, dal fatto che sia stata o meno ricompresa nel piano di sicurezza e coordinamento.

L’argomentazione del ricorso sulla tassatività dell’elenco di cui all’Allegato X è stata implicitamente respinta nelle decisioni impugnate che hanno chiarito come le attività di stoccaggio e movimentazione, specificamente contemplate nel contratto sottoscritto da RA.GE e P. E.C., rientrassero a pieno titolo nelle attività di cantiere.

5.3 Ugualmente infondato è il quarto motivo, con cui si eccepisce il vizio di motivazione per travisamento della prova in ordine alle cause dell’incidente.

Per quanto riguarda Ie.Sa., il motivo è infondato perché la Corte ha fornito adeguata e approfondita motivazione nella ricostruzione delle cause dell’incidente, basandosi sulle risultanze peritali dell’ing. Ro. e respingendo le argomentazioni difensive. Dopo la dettagliata disamina della dinamica dell’evento, è stato evidenziato che il cedimento della catasta non era stato previsto e non considerato prevedibile da alcuno dei soggetti che doveva attendere ai compiti di organizzazione del lavoro e di verifica.

La sentenza ha chiarito che le attività di saldatura dei tubi erano state trasferite in “Isola 6” prima che venisse svolta alcuna formale valutazione dei rischi e senza procedere alla revisione del piano operativo di sicurezza e al piano di sicurezza e coordinamento. Quanto alla presunta non percepibilità dei vizi della catasta, i giudici di merito hanno motivato che le condizioni del terreno di appoggio, i dislivelli, lo stato delle tubazioni, lì collocate da sette anni, erano evidenti a tutti; inoltre, dalla relazione sul flusso di movimentazione emergeva che, nella misura di circa un settimo della loro metratura, le tubazioni accatastate si erano rivelate inutilizzabili perché frattanto corrose o danneggiate.

Sulla questione dei permessi di lavoro sollevata nel ricorso, è stato efficacemente sottolineato che “quando nel verbale di riunione mensile di sicurezza dell’8.11.2012, al quale partecipa anche Ca.Be., risulta esaminato il verbale di sopralluogo a firma dell’ing. Ag.Pa. nel quale egli attesta (come si è visto, falsamente) il corretto stoccaggio delle tubazioni e si pongono le basi per autorizzare l’attività di saldatura”, il sistema di controlli aveva già fallito.

In ordine alla posizione di Mo.Ma., oltre alle suddette argomentazioni immuni da vizi logici, la Corte distrettuale ha specificatamente motivato che lo stesso responsabile dei lavori, nell’assumere l’incarico, avrebbe avuto l’onere di riesaminare e rivalutare anche alla luce delle eventuali mutate esigenze le condizioni di sicurezza previste dai piani, e non potendo lamentare di non avere avuto segnalazione dell’esigenza di procedere ad ulteriori verifiche, posto che l’evento dell’incendio del 16.10.2012 avrebbe dovuto comportare scelte sulla sospensione o sulla prosecuzione dei lavori.

La motivazione è immune da vizi logici e non superata dalle censure dei ricorrenti

5.4 Il quinto e il sesto motivo, con cui si contestano il vizio di violazione di legge e il difetto di motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità dei ricorrenti connessa al ruolo svolto, sono aspecifici rispetto al nucleo fondamentale della argomentazione contenuta in sentenza.

In ordine alla posizione di Mo.Ma., il motivo non vale a contrastare la ragione principale e sufficiente per cui la Corte ha logicamente ritenuto la responsabilità del medesimo ricorrente con specifico riferimento al suo ruolo di responsabile dei lavori e alle circostanze del caso. Egli, sottolineano i giudici di merito, non solo non si curò di segnalare le carenze del PSC già evidenziate, ma non intervenne tempestivamente quando, dopo l’incendio del 16.10.2012, i lavori di saldatura furono trasferiti in “Isola 6”. È stato inoltre specificato che il Mo.Ma., nell’assumere l’incarico, avrebbe avuto l’onere di riesaminare e rivalutare anche alla luce delle eventuali mutate esigenze le condizioni di sicurezza previste dai piani, non potendo accampare a sua scusa di non avere avuto segnalazione dell’esigenza di procedere ad ulteriori verifiche.

Specificamente, in sentenza è stato chiarito che, a seguito del sopralluogo svolto da Ag.Pa. in “Isola 6”, dal quale emergeva che era già in atto un’attività che richiedeva una variazione dei piani di sicurezza, sarebbe stato dovere del Responsabile dei lavori immediatamente sospendere quelle attività fino alle doverose verifiche e alla validazione dei piani. Cosa che il Mo.Ma. non fece inserendosi con tale sua omissione nella catena causale che ha condotto all’evento infausto.

Per quanto riguarda la posizione di Ie.Sa., i giudici di merito, con doppia pronuncia conforme, hanno fornito logica e dettagliata motivazione nell’individuare la responsabilità del medesimo, confutando specificamente le argomentazioni difensive. La Corte distrettuale ha posto in evidenza lo svolgimento di un’attività di cantiere nel quale il coordinatore non aveva consapevolezza di come in concreto venivano attuate le prescrizioni di sicurezza nel coordinamento tra le attività di impresa, specie dopo un evento traumatico come l’incendio del 16.10.2012.

Specificamente sulla validazione del POS, la stessa Corte ha motivato che la validazione della revisione del POS risultata del tutto inadeguata, e ancora di più di prima, rispetto all’analisi dei rischi derivanti dalle condizioni dell’area in cui veniva autorizzata l’attività di saldatura; segno di un controllo del tutto inadeguato ai fini della sicurezza, a cui è conseguito l’infortunio al dipendente Ro.Fr.

La sentenza ha chiarito che, per quanto il ruolo del ricorrente fosse di alta vigilanza, e non connotato dal dovere di puntuale controllo delle lavorazioni momento per momento, egli avrebbe dovuto farsi carico della generale configurazione di quelle che comportavano un rischio interferenziale, aggiungendo che il compito di controllo sul POS non era limitato alla regolarità formale dello stesso, estendendosi alla verifica della compatibilità di tale lavorazione con le concrete caratteristiche degli strumenti forniti e delle protezioni apprestati dall’impresa.

In sintesi, come è stato logicamente affermato nelle decisioni impugnate, ciò che doveva considerarsi immediatamente percepibile era il fatto che la movimentazione di cataste, collocate in aree aperte dal 2005, e sulle quali non risultava già effettuata alcuna attività specifica di analisi o di manutenzione, comportava rischi ‘residenti’ di cui i predetti – nel rispettivo ruolo di responsabile dei lavori il Mo.Ma., e di coordinatore per la sicurezza per l’esecuzione Ie.Sa. – avrebbero dovuto preoccuparsi, ma di cui nessuno dei due si fece carico. Questa logica conclusione non risulta adeguatamente contrastata con le suesposte censure che, sul punto, risultano aspecifiche e perciò inammissibili.

6. Ricorsi di Be.Al., dipendente di SGS Ser. e responsabile dei lavori fino al 2/10/2012, e di Patrizio Ag.Pa., assistente del coordinatore della sicurezza per l’esecuzione.

6.1 Le doglianze puntualmente riferite ai ricorrenti Be.Al. e Patrizio Ag.Pa., sono dirette a contestare l’erronea ricostruzione delle loro posizioni di garanzia e la conseguente illegittima affermazione di responsabilità penale da parte della Corte di appello.

I motivi di ricorso si palesano fondati per entrambi i ricorrenti, ancorché per ragioni giuridiche distinte che impongono un’analisi differenziata delle rispettive posizioni soggettive.

6.2 Quanto alla posizione dell’ingegnere Be.Al., risulta pacificamente accertato che questi aveva cessato dall’incarico di Responsabile dei Lavori il 2 ottobre 2012, e perciò in data antecedente all’incendio del 16 ottobre 2012, al trasferimento delle attività in “Isola 6” e all’incidente del 28 novembre 2012.

Al medesimo era subentrato Mo.Ma. nel ruolo di responsabile dei lavori, carica che quest’ultimo ricopriva tanto al momento dell’incendio quanto al verificarsi del sinistro mortale. La Corte distrettuale ha tuttavia configurato una responsabilità basata sull'”innesco della catena causale”, affermando che l’originaria omissione di ogni valutazione della pericolosità della catasta costituisce l’innesco della catena causale sulla quale il successivo inopinato trasferimento dell’attività di saldatura sviluppa le ulteriori e più prossime tappe che conducono il decorso all’evento di reato.

Il riferimento è all’orientamento di questa Sezione, per il quale se più sono i titolari della posizione di garanzia ovvero dell’obbligo di impedire l’evento, ciascuno è per intero destinatario dell’obbligo di tutela impostogli dalla legge e, in particolare, ciascuno per andare esente da responsabilità non può invocare neppure l’esaurimento del rapporto obbligatorio, fonte dell’obbligo di garanzia e l’eventuale subingresso in tale obbligo di terzi, ove il perdurare della situazione giuridica si riconduca alla condotta colpevole dei primi (cfr. sez. 4 n. 46515 del 19/05/2004, Fracasso e altri, Rv. 230398.

Nel caso di specie, tuttavia, la difesa ha correttamente evidenziato che il perdurare della situazione di pericolo non è riconducibile alla condotta del Be.Al. È stato dedotto, con argomenti non superati dai giudici di merito, che l’evento scatenante che ha modificato l’assetto organizzativo del cantiere, anche a livello di rischio categoriale, era del tutto estraneo alla sfera di controllo del Be.Al., allorquando costui era nell’esercizio delle sue funzioni.

Tra la cessazione dell’incarico di Be.Al. e l’incidente sono intervenute molteplici deliberazioni autonome da parte di altri soggetti che hanno determinato, per il Be.Al., l’interruzione della catena decisionale: quella di sospendere i lavori dopo l’incendio, quella di riprenderli in altra area, riferibili con certezza a soggetti diversi dallo stesso ricorrente, e dopo la cessazione del suo incarico. 

In proposito è utile richiamare il principio più volte affermato da questa Sezione, secondo cui, in tema di reati omissivi colposi gli obblighi impeditivi e di controllo che derivano dalla posizione di garanzia, ancorché non vengano meno per il solo fatto che vi siano altri soggetti gravati da autonomi e concorrenti analoghi obblighi, permangono fino a quando non si esaurisce il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia (Sez. 4, n. 24372 del 09/04/2019 – Rv. 276292; Sez. 4, n. 46849 del 03/11/2011 – Rv. 252149).

Né può assumere rilevanza la partecipazione di Be.Al. alla riunione del 15 novembre 2012, quando si decise di utilizzare “Isola 6″ per attività di cantiere. Invero, alla partecipazione non corrispondeva la contestuale investitura di una posizione di garanzia in capo a Be.Al., ormai cessata a seguito del subentro di un nuovo responsabile dei lavori, con la perdita di ogni potere decisionale. Per completezza, si osserva che la Corte distrettuale ha pure richiamato l’argomentazione con cui il Tribunale aveva assolto l’ingegnere Va.Gu. ” per non aver commesso il fatto per mancanza del profilo soggettivo di colpa, in quanto il pessimo stato della catasta, mentre lo stesso si trovava in servizio, era correlata ad una diversa situazione logistica in cui l’area era utilizzata solo come zona di stoccaggio e quindi non vi era prova che gli fosse addebitabile la scelta di utilizzarla per le successive attività”.

Emerge in modo palese l’ingiustificata disparità di trattamento riservata al Be.Al., per il quale non è stata addotta alcuna ragione che giustificasse l’inapplicabilità del medesimo principio. Va ricordato che egli aveva cessato le proprie funzioni ben prima che si verificassero i cambiamenti logistici: quattordici giorni prima dell’incendio che determinò lo spostamento delle attività e cinquantasette giorni prima del tragico incidente.

6.3 Per quanto concerne la posizione di Patrizio Ag.Pa., la Corte di appello non ha fornito motivazione giuridicamente sostenibile sulla configurazione di una posizione di garanzia in capo a un soggetto privo di investitura formale e di effettivi poteri.

La sentenza impugnata commette un errore categoriale, confondendo l’assistenza tecnica con l’assunzione di responsabilità gestoria. L’assistenza tecnica, anche qualificata, non determina automaticamente l’assunzione di una posizione di garanzia penalmente rilevante.

La Corte ha erroneamente applicato l’art. 299 del D.Lgs. 81/2008 oltre i suoi limiti normativi. La disposizione prevede che “le posizioni di garanzia relative ai soggetti di cui al presente decreto legislativo gravano altresì su colui il quale, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti ivi definiti”.

Nel caso di Ag.Pa. non ricorrono tuttavia i presupposti applicativi della norma.

Questi non risulta aver mai esercitato “in concreto” i poteri del CSE, avendo solo partecipato a sopralluoghi, su mandato del CSE titolare, e assistito a riunioni in veste meramente consultiva, senza mai assumere decisioni autonome in materia di sicurezza. Egli viene descritto come mero assistente del Coordinatore della sicurezza per l’esecuzione. Dalla decisione impugnata non emerge in alcun modo che Patrizio Ag.Pa. disponesse infatti di effettivi poteri connessi al ruolo di CSE, di capacità decisionale autonoma sulle misure di sicurezza, né di poteri sanzionatori o di sospensione dei lavori.

Si rammenta che l’art. 299 richiede l’esercizio di poteri giuridici, non la mera partecipazione ad attività tecniche. Assume inoltre rilievo decisivo la circostanza che l’art. 92, co. 2, del D.Lgs. 81/2008 stabilisce espressamente che il CSE “non può subappaltare le proprie funzioni”. Tale divieto è tassativo e inderogabile, rendendo giuridicamente impossibile la configurazione di una delega di funzioni dal CSE al proprio assistente.

L’interpretazione della Corte si discosta dalla menzionata disposizione normativa, configurando di fatto una delega vietata e pretendendo di derivarne conseguenze penali. L’impostazione della Corte di appello rischia di introdurre forme di responsabilità in assenza di effettive posizioni di garanzia, per il solo fatto di essere stati presenti nell’organizzazione, estendendola oltre i casi espressamente previsti dalla legge.

La decisione contrasta anche con la giurisprudenza di legittimità consolidata, secondo cui “In tema di infortuni sul lavoro, ai sensi dell’art. 299, D.Lgs. n. 81 del 2008, la posizione di garanzia grava anche su colui che, non essendone formalmente investito, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti al datore di lavoro e ad altri garanti ivi indicati, sicché l’individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono, quindi, rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione formale (Sez. 4, n. 18090 del 12/01/2017 Ud. (dep. 10/04/2017) Rv. 269803-01).

6.4 Tanto premesso, la motivazione della sentenza impugnata presenta vizi logici e giuridici insuperabili che impongono l’annullamento della pronuncia nei confronti di entrambi i ricorrenti. Per Be.Al., la cessazione dall’incarico prima degli eventi causalmente rilevanti, per Patrizio Ag.Pa., la veste di un mero assistente tecnico, impediscono la ravvisabilità di posizione di garanzia in capo agli stessi, escludendo la tipicità della condotta.

Sussistono pertanto le condizioni per l’annullamento senza rinvio ai sensi dell’art. 620, comma 1, lett. a) del codice di procedura penale. Come stabilito dalle Sezioni Unite Matrone (della Cassazione con sentenza n. 3464 del 2018, la Corte di cassazione pronuncia sentenza di annullamento senza rinvio quando ritiene superfluo il rinvio e può decidere la causa alla stregua degli elementi di fatto già accertati, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto (Sez. U, n. 3464 del 30/11/2017, dep. 24/01/2018, Rv. 271831-01).

Nel caso de quo, l’insussistenza del fatto risulta in modo evidente e incontrovertibile dalle risultanze processuali, senza necessità di nuove valutazioni probatorie. La sentenza deve pertanto essere annullata senza rinvio nei confronti di Be.Al. e Ag.Pa. perché il fatto non sussiste, attesa l’evidente insussistenza dei presupposti costitutivi del reato, in ragione dell’impossibilità di configurare posizioni di garanzia penalmente rilevanti in capo ai ricorrenti sulla base delle risultanze processuali acquisite.

7. I ricorsi di Ca.Ni., legale rappresentante della ditta appaltatrice P.E.C. Srl, e di Gi.Ma., capo cantiere della stessa ditta.

Occorre preliminarmente rammentare che il primo motivo di ricorso, riguardante la mancata estromissione della parte civile, è stato già esaminato al punto 1.1 del Considerato in diritto, cui si rinvia.

7 .1. Il secondo motivo è infondato perché la Corte di appello ha fornito esauriente, logica e giuridicamente corretta motivazione sia sulla dinamica dell’infortunio sia sulla ricostruzione della catena causale e delle responsabilità, confutando puntualmente tutte le argomentazioni dei ricorrenti.

Un aspetto di particolare rilevanza è rappresentato dalla qualificazione giuridica dell’area “Isola 6” e dalla sua inclusione o meno nell’ambito di applicazione del Titolo IV del D.Lgs. n. 81/2008. I ricorrenti avevano sostenuto, e lo hanno ribadito in ricorso, che la suddetta area non rientrava nel cantiere soggetto alla normativa sulla sicurezza, invocando una lettura formalistica del Piano di Sicurezza e Coordinamento.

La Corte di merito ha respinto l’eccezione, richiamando il costante insegnamento della giurisprudenza, secondo cui nella nozione di “luogo di lavoro”, rilevante ai fini della sussistenza dell’obbligo di attuare le misure antinfortunistiche, rientra infatti ogni luogo in cui venga svolta e gestita una qualsiasi attività implicante prestazioni di lavoro, indipendentemente dalle finalità della struttura in cui essa si esplichi e dell’accesso ad essa da parte di terzi estranei all’attività lavorativa (Sez. 4, n. 44654 del 22/09/2022 , Rv. 283751, in motivazione a pag. 5, sub par. 4; sez. F. n. 45316 del 27/8/2019, Giorni Pietro, Rv. 277292).

L’orientamento rappresenta l’evoluzione di una giurisprudenza che ha progressivamente abbandonato interpretazioni eccessivamente formalistiche per abbracciare un approccio sostanzialista, fondato sulla reale funzione svolta dal luogo in relazione all’attività lavorativa. Come ha chiarito la Cassazione, in tema di infortuni sul lavoro, nella nozione di “luogo di lavoro”, rilevante ai fini della sussistenza dell’obbligo di attuare le misure antinfortunistiche, rientra ogni luogo in cui viene svolta e gestita una qualsiasi attività implicante prestazioni di lavoro e in cui il lavoratore deve o può recarsi per provvedere ad incombenze di qualsiasi natura in relazione alla propria attività Sez. 4, n. 43840 del 16/05/2018, Rv. 274265).

La Corte distrettuale ha correttamente applicato i suddetti principi al caso concreto, sottolineando che, senza alcun residuo dubbio, “Isola 6” era parte del cantiere mobile, come tale assoggettata alle norme di cui al Titolo IV T.U. n. 81/2008 non solo quando vi furono trasferite le attività di saldatura ma anche prima quando vi si svolgevano le sole attività di stoccaggio e movimentazione, peraltro specificamente contemplate nel contratto sottoscritto da RA.GE e P.E.C..

La conclusione appare logicamente ineccepibile e giuridicamente corretta, atteso che un’area dove vengono stoccate tubazioni destinate alla lavorazione e dalla quale le stesse vengono prelevate per essere condotte al sito di prefabbricazione costituisce parte integrante del ciclo produttivo e, quindi, del cantiere nel suo complesso.

Con riferimento alla ricostruzione della catena causale, con particolare riferimento all’individuazione delle cause remote dell’evento, anch’essa oggetto di rilievi difensivi, la Corte di merito ha evidenziato che l’originaria omissione di ogni valutazione della pericolosità della catasta costituì l’innesco della catena causale, successivamente sviluppato dall’inopinato trasferimento dell’attività di saldatura; nella filiera dei soggetti intervenuti nessuno si fece carico dell’analisi della stabilità della catasta e, nonostante il coinvolgimento di diversi attori imprenditoriali competenti nei rispettivi settori e l’adempimento di una serie di attività di verifica e reportistica, rispetto a questo tema le procedure di sicurezza risultarono insensibili.

La stessa Corte ha inoltre individuato nelle cause prossime dell’evento lo spostamento delle attività di saldatura nell’area “Isola 6” a seguito dell’incendio del 16.10.2012.

Il trasferimento, avvenuto prima che venisse svolta alcuna formale valutazione dei rischi e senza procedere ad una revisione del piano operativo di sicurezza e al piano di sicurezza e coordinamento, determinò un aggravamento del rischio preesistente.

L’argomentazione è priva di illogicità, in quanto idonea a dimostrare che l’evento derivò non da un caso fortuito, ma da scelte organizzative consapevoli, seppur inappropriate.

D’altro canto, va ricordato che, in tema di controllo sulla motivazione, alla Corte di cassazione è normativamente preclusa la possibilità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi e una tale preclusione è tanto più stringente quando le doglianze si risolvono, come nel caso di specie, in rilievi che, sollecitando una diversa lettura del materiale probatorio, attingono il merito della regiudicanda.

7.1.1 La sentenza impugnata ha risposto adeguatamente alle censure concernenti la contestata assunzione degli obblighi di sicurezza da parte degli esponenti dell’impresa affidataria.

La Corte di merito ha evidenziato che l’appaltatrice P.E.C. Srl aveva ricevuto in consegna tutto il cantiere e anche “Isola 6”, da considerarsi parte del cantiere; inoltre, aveva fatto proprio il Piano di sicurezza e coordinamento come già predisposto da RA.GE nella proposta contrattuale, nonostante contemplasse come specifica condizione l’utilizzazione della tubazione già acquistata ai fini della prefabbricazione e al contempo non prevedesse alcuna verifica sulle condizioni delle cataste costruite nel 2005.

L’argomentazione è ineccepibile perché dimostra come la ditta appaltatrice abbia deliberatamente accettato un Piano di Sicurezza lacunoso, pur essendo nelle condizioni di rilevarne le insufficienze. Non coglie nel segno la tesi sostenuta dai ricorrenti, secondo cui le modalità del nuovo accatastamento dei tubi costituissero causa sopravvenuta idonea a interrompere il nesso causale. La giurisprudenza ha precisato che “la causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento esclude il rapporto di causalità quando, pur inserendosi in un percorso causale ricollegato all’azione (od omissione) dell’agente, ha caratteristiche completamente atipiche, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale” (Cass. Pen., Sez. IV, n. 32424 del 10/07/2008).

Nel caso in esame, tuttavia, è stato logicamente ritenuto che il riaccatastamento dei tubi non presentava caratteristiche “completamente atipiche” o “assolutamente anomale”, trattandosi di operazioni che, seppur condotte in modo imprudente, rientravano nel possibile sviluppo delle lavorazioni di cantiere. E dunque, tale riaccatastamento non aveva interrotto la catena causale ma vi si erano innestate. In ogni caso, la tesi è aspecifica perché anche la seconda fase, successiva all’incendio del 16/10/2012, è stata correttamente ritenuta comunque riconducibile alla sfera di dominio della ditta appaltatrice.

I ricorrenti hanno poi sostenuto che la ditta P.E.C. era rimasta completamente estranea all’assegnazione dell’area “Isola 6” come luogo di lavoro dopo l’incendio del 16.10.2012.

La tesi difensiva è stata correttamente respinta dalla Corte per le seguenti ragioni.

In primo luogo, è stato evidenziato che l’incendio del 16.10.2012, che aveva reso inutilizzabile una parte significativa del cantiere, non poteva sfuggire all’attenzione dell’impresa affidataria, titolare della responsabilità complessiva della gestione del cantiere. È stato sottolineato che la ditta subappaltante aveva curato e verificato l’allestimento di cinque stazioni di prefabbricazione, quelle nella quali avrebbero operato i subappaltatori, e il compito del coordinamento rimaneva in capo a lei, circostanza che rende ancora più inverosimile l’ipotesi di una completa estraneità alle scelte operative del cantiere.

In ogni caso, la responsabilità è stata logicamente ricondotta alla omessa vigilanza.

La Corte di merito ha fornito motivazione articolata e giuridicamente corretta nell’individuare la responsabilità degli esponenti della P.E.C. per violazione dell’art. 97 D.Lgs. n. 81/2008.

È stato evidenziato che la ditta appaltatrice aveva ricevuto in consegna tutto il cantiere e anche l’Isola 6, da ritenersi parte del cantiere, aveva fatto proprio il Piano di sicurezza e coordinamento come già predisposto da RA.GE nella proposta contrattuale nonostante contemplasse come specifica condizione l’utilizzazione della tubazione già acquistata ai fini della prefabbricazione e al contempo non prevedesse alcuna verifica sulle condizioni delle cataste costruite nel 2005.

La subappaltante aveva curato e verificato l’allestimento di cinque stazioni di prefabbricazione, quelle nella quali avrebbero operato i subappaltatori, e il compito del coordinamento rimaneva in capo a lei. È stato significativamente osservato che le stesse prospettazioni dei ricorrenti, tendenti a valorizzare le autonome iniziative delle altre imprese coinvolte, riconoscono implicitamente l’omessa doverosa cooperazione e dell’omesso doveroso controllo sull’operato dell’impresa subappaltrice.

In sintesi, così facendo, la ditta appaltatrice si era disinteressata, trascurando i propri obblighi di vigilanza e controllo, allorquando la ditta subappaltatrice aveva proseguito le attività in “Isola 6”. La decisione è in linea con la normativa di settore e con i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di posizioni di garanzia nell’ambito della sicurezza sul lavoro nei cantieri, con particolare riferimento alle figure apicali delle imprese affidatarie e al preposto o al capo cantiere.

L’impresa affidataria, infatti, assume una posizione di garanzia qualificata nel sistema della sicurezza cantieristica, fondata su un duplice ordine di considerazioni: da un lato, la centralità del ruolo organizzativo e di coordinamento che essa svolge nell’economia complessiva del cantiere; dall’altro, la necessità di garantire un controllo effettivo sulle condizioni di sicurezza anche quando specifiche lavorazioni vengano subappaltate.

Il principio trova fondamento nell’art. 97 D.Lgs. n. 81/2008, che affidataria di verificare le condizioni di sicurezza dei lavori affidati e disposizioni e prescrizioni del piano di sicurezza e coordinamento.

7.1.2. Con specifico riferimento alla posizione dei soggetti ricorrenti, impone all’impresa l’applicazione delle si evidenzia che sul datore di lavoro dell’impresa affidataria gravano gli obblighi derivanti dall’articolo 26, e il dovere di verificare la congruenza dei piani operativi di sicurezza (POS) delle imprese esecutrici rispetto al proprio, prima della trasmissione dei suddetti piani operativi di sicurezza al coordinatore per l’esecuzione.

In linea con la suddetta previsione normativa, la giurisprudenza ha affermato che il datore di lavoro della impresa affidataria – così definita dall’art. 89 D.Lgs. l’impresa “titolare del contratto di appalto con il committente-, è tenuto a verificare l’idoneità tecnico professionale delle imprese subappaltatrici e dei lavoratori autonomi, con le modalità di cui all’Allegato XVII del D.Lgs. 81/2008 e a fornire agli stessi soggetti dettagliate informazioni sui rischi specifici del cantiere e sulle misure di prevenzione e protezione, nonché a coordinare gli interventi di prevenzione e protezione, cooperando alla loro applicazione e verificando le condizioni di sicurezza dei lavori ad essa affidati (Sez. 4, n. 7188 del 10/01/2018 Ud. (dep. 14/02/2018) Rv. 272221-01, in motivazione a pag. 7, par. 3).

In una fattispecie analoga, la giurisprudenza di legittimità ha confermato la validità della pronuncia di condanna nei confronti del titolare dell’impresa appaltatrice per il delitto di omicidio colposo. Il soggetto con la ditta subappaltatrice provvedere all’individuazione aveva infatti operante nel cantiere sotto la propria direzione omesso di adempiere agli obblighi di cooperazione, mancando di e valutazione dei rischi nonché all’attuazione delle necessarie misure di prevenzione e protezione. La condotta omissiva aveva consentito l’esecuzione dei lavori in assenza delle impalcature e opere provvisionali idonee a prevenire la caduta dall’alto dei lavoratori (Sez. 4 -, Sentenza n. 12440 del 07/02/2020 Ud. (dep. 20/04/2020) Rv. 278749-01).

In particolare, il dovere di controllo sulle condizioni di sicurezza, gravante sul legale rappresentante dell’impresa affidataria, non può considerarsi automaticamente trasferito per effetto del subappalto, dovendo invece permanere una responsabilità di vigilanza e controllo sulle condizioni generali di sicurezza del cantiere, assicurando che le imprese subappaltatrici operino nel rispetto delle prescrizioni di sicurezza ed eventualmente tempestivamente quando venga a conoscenza di situazioni di pericolo.

Tanto premesso, per quanto attiene specificamente alla posizione di Nicola Corte ha evidenziato come egli abbia omesso di esercitare ogni potere di vigilanza intervenire Ca.Ni., la sull’area di cantiere in “Isola 6” e la mancata segnalazione ed attualizzazione dei rischi anche nei confronti della ditta esecutrice, in violazione l’art. 97 TU81/2008 (come contestato in imputazione), il quale attribuisce espressamente al datore di lavoro della ditta affidataria di verificare le condizioni di sicurezza dei lavori affidati e l’applicazione delle prescrizioni contenute nel PSC.

La ricostruzione appare giuridicamente corretta.

È infatti evidente che il rappresentante legale dell’impresa affidataria non può invocare a propria discolpa l’estraneità alle scelte operative del cantiere quando tali scelte attengono a profili di sicurezza che rientrano nella sua sfera di competenza e responsabilità. Corretta è dunque la conclusione che il datore di lavoro dell’impresa affidataria, odierno ricorrente, non verificò adeguatamente le condizioni di sicurezza dei lavori affidati così contravvenendo al preciso obbligo previsto dalla norma sopra richiamata.

Per quanto concerne il ruolo rivestito da Gi.Ma., capocantiere della P.E.C. Srl, in linea generale va premesso che tale figura riveste una posizione di garanzia assimilabile a quella del preposto, con specifici obblighi di vigilanza e controllo. Come chiarito dalla giurisprudenza, il capo cantiere “assume la qualità di garante dell’obbligo di assicurare la sicurezza sul lavoro, tra cui rientra il dovere di segnalare situazioni di pericolo per l’incolumità dei lavoratori e di impedire prassi lavorative contra legem” (Sez. 4, n. 4340 del 24/11/2015, Rv. 265977; Sez. 4, Sentenza n. 9491 del 10/01/2013, Rv. 254403). 

La posizione del capo cantiere si caratterizza per la sua natura dinamica e operativa: egli deve essere presente sui luoghi di lavoro, deve osservare direttamente le modalità di svolgimento delle lavorazioni e deve segnalare ai superiori gerarchici di situazioni di rischio. La Corte distrettuale ha correttamente applicato i suddetti principi, evidenziando che la penale responsabilità per i fatti contestati al Gi.Ma. veniva ricavata dal fatto che egli era titolare di una specifica posizione di garanzia, in forza della regola contenuta nel paragrafo 5 del POS della P.E.C. Srl che espressamente prevedeva: ‘il Capo Cantiere deve vigilare affinché i lavori non vengano eseguiti con rischi particolari o non sufficientemente programmati”.

L’argomentazione appare particolarmente convincente perché dimostra come l’addebito mosso al Gi.Ma. non sia stata ricavato da una mera responsabilità di posizione, ma da specifiche omissioni nell’esercizio dei compiti affidatigli. 

8. Ricorso di Pe.An., responsabile per la sicurezza di cantiere per conto di P.E.C. Srl

Riguardo al suindicato gravame deve disporsi l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per morte del reo, sopravvenuta alla presentazione del ricorso per cassazione, come attestato dal certificato depositato dalla difesa per l’udienza di discussione.

Invero la morte dell’imputato, “intervenuta successivamente alla proposizione del ricorso per cassazione, impone l’annullamento senza rinvio della sentenza, per estinzione del reato, con l’enunciazione della relativa causale nel dispositivo, risultando esaurito il rapporto processuale ed essendo preclusa ogni eventuale pronuncia di proscioglimento nel merito ex art. 129, comma secondo, cod. proc. pen.”, tanto più quando non risulti, dal testo del provvedimento impugnato l’evidenza di alcuna delle situazioni previste da tale ultima disposizione (Sez. 1, 9.6.2010, Lombardo, Rv. 247790; sez. 3, 12.5.2016 Patti, Rv. 267394).

9. Ricorso di Fi.Ro., legale rappresentante della Com. Sud a r.l., datrice di lavoro di Ro.Fr.

All’esame dei motivi di ricorso è utile premettere, in linea generale, che la posizione di garanzia del datore di lavoro nell’ambito della prevenzione degli infortuni sul lavoro costituisce uno dei cardini del sistema di tutela delineato dal D.Lgs. 81/2008 rispetto al nucleo essenziale degli obblighi prevenzionistici.

La giurisprudenza di legittimità ha costantemente affermato che il datore di lavoro riveste una posizione apicale nell’organizzazione aziendale che comporta una responsabilità orientata alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori. Come chiarito da questa Sezione in più pronunce, il datore di lavoro ha l’obbligo di adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei prestatori di lavoro, non occorrendo che sia integrata la violazione di specifiche norme dettate per la prevenzione degli infortuni stessi (Sez. 4, n. 9745 del 12/11/2020, dep. 2021, Rv. 280696-02).

È consolidato orientamento che il datore di lavoro non può limitarsi a una mera vigilanza formale o cartolare, ma deve esercitare una vigilanza effettiva e sostanziale sulle condizioni di sicurezza dei luoghi di lavoro. L’obbligo di vigilanza del datore di lavoro non può considerarsi assolto con la mera nomina di figure tecniche specializzate, dovendo egli mantenere un controllo effettivo sull’andamento delle attività lavorative e sulle condizioni di sicurezza, specie quando emergano elementi che possano ingenerare dubbi sulla sicurezza delle lavorazioni (Sez. 4 -, n. 35858 del 14/09/2021, Rv. 281855; Sez. 4, n. 50605 del 05/04/2013, Rv. 258125-01).

9.1 Alla luce dei richiamati principi, risulta infondato il primo motivo di ricorso con cui si lamenta la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. e) e b), cod. proc. pen., per vizio di motivazione ed erronea applicazione dell’art. 17 del D.Lgs. 81/2008.

Il motivo è infondato perché sul punto la Corte di appello ha fornito logica e approfondita motivazione che risponde compiutamente alle obiezioni del ricorrente. Come si è già ricordato, il datore di lavoro deve essere “vigile sul campo”, nel senso che non può accontentarsi delle rassicurazioni formali contenute nei documenti di sicurezza redatti da consulenti esterni, ma deve verificare personalmente, o attraverso i suoi più stretti collaboratori, le concrete condizioni di rischio presenti nell’ambiente di lavoro.

Questo principio assume particolare pregnanza quando si utilizzino attrezzature, strutture o materiali di datazione risalente che richiedono verifiche periodiche sulla loro integrità; si modifichino le modalità operative rispetto a quelle originariamente previste; emergano segnali di allarme (anche indiretti) che possano far dubitare dell’affidabilità delle valutazioni contenute nei documenti di sicurezza. Nel caso in esame, la sentenza in esame ha valorizzato il combinato disposto di tre fattori cataste risalenti al 2005, modifica delle lavorazioni con trasferimento delle attività di saldatura, presenza di indicatori di degrado), affermando che tutto ciò imponeva al datore di lavoro un dovere di vigilanza rafforzato che non poteva essere assolto attraverso il mero affidamento sui documenti predisposti da terzi.

In, proposito, sulla pretesa esclusione della responsabilità per effetto della nomina di figure tecniche specializzate, il ricorrente deduce erroneamente che la nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Ma.Sa.) e di altre figure, lo avesse esonerato da responsabilità, richiamando il principio secondo cui il datore di lavoro può assolvere all’obbligo di vigilare sull’osservanza delle misure di prevenzione adottate attraverso la preposizione di soggetti a ciò deputati.

La Corte distrettuale ha elaborato una risposta giuridicamente ineccepibile a tale deduzione, evidenziando, alle pagine 130 e seguenti, che gli obblighi di osservanza delle norme antinfortunistiche gravano su tutti coloro che esercitano i lavori e, quindi, anche sul subappaltatore interessato all’esecuzione di un’opera parziale e specialistica.

La motivazione si inserisce perfettamente nel solco giurisprudenziale consolidato secondo cui la delega di funzioni in materia di sicurezza non esonera il datore di lavoro dall’obbligo di vigilanza sull’operato del delegato e, soprattutto, non lo libera dalla responsabilità per quelle valutazioni di rischio che dovevano essere effettuate prima dell’affidamento dei compiti ai consulenti esterni. Nel caso in esame, è stato logicamente argomentato che “Isola 6” era un’area nella quale i dipendenti avrebbero dovuto svolgere attività gravida di rischi non solo generici ma anche specifici, legati in particolare alla movimentazione delle tubazioni.

Sul preteso carattere occulto dei vizi della catasta, il ricorrente insiste sulla tesi secondo cui i vizi della catasta non erano percepibili ad un esame visivo, richiamando le dichiarazioni del perito secondo cui “la stabilità non poteva essere valutata ad un esame visivo”. 

La Corte di merito ha logicamente replicato a tale obiezione, operando una distinzione fondamentale tra la valutazione tecnica puntuale della stabilità (che effettivamente richiedeva accertamenti specialistici) e la percezione dell’esistenza di un rischio che imponeva approfondimenti. Come efficacemente argomentato a pagina 120 della sentenza impugnata, ciò che doveva considerarsi immediatamente percepibile era il fatto che richiedere la movimentazione di cataste, collocate in aree aperte dal 2005, e sulle quali non risultava già effettuata alcuna attività specifica di analisi o di manutenzione, comportava rischi ‘residenti’ di cui bisognava farsi carico con ogni conseguente prescrizione. Questa argomentazione è giuridicamente ineccepibile perché distingue tra onere di percezione del rischio, gravante sul datore di lavoro e parametrato alla diligenza media richiesta dal ruolo, e onere di valutazione tecnica specifica, che può essere delegato a figure specializzate, ma solo dopo aver identificato l’esistenza del rischio da valutare. La Corte ha inoltre evidenziato, con fine ragionamento, che durante i lavori, come risulta dalla relazione P.E.C. sullo sviluppo del flusso della movimentazione delle tubazioni, una parte non fu utilizzata perché si rivelò usurata, dimostrando che il degrado dei materiali stoccati dal 2005 era un dato di fatto oggettivo che non poteva sfuggire ad una valutazione diligente.

9.2 Inammissibile, perché versato in fatto, è il secondo motivo, con cui si eccepisce il vizio di motivazione sul tema del riaccatastamento dei tubi.

Si rammenta che, come è stato reiteratamente affermato, il sindacato di legittimità sulla motivazione della decisione presenta limiti ben definiti. Il controllo affidato al giudice di legittimità deve infatti limitarsi – per espressa volontà legislativa – a verificare l’esistenza di un coerente apparato argomentativo nei diversi punti della decisione impugnata. Il sindacato non può estendersi alla valutazione dell’adeguatezza delle argomentazioni utilizzate dal giudice di merito per formare il proprio convincimento.

È preclusa alla Corte di cassazione qualsiasi “rilettura” degli elementi fattuali posti a fondamento della decisione, la cui valutazione spetta esclusivamente al giudice di merito. Non può pertanto configurare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa valutazione delle risultanze processuali, ritenuta dal ricorrente più appropriata (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone ed altri, Rv. 207944).

L’illogicità della motivazione, quale vizio sindacabile, deve inoltre presentare carattere di evidenza manifesta, secondo quanto previsto dall’art. 606, comma 1, lettera e) del codice di procedura penale.

Nel caso di specie, pur in presenza di censure in fatto, si rileva che la Corte distrettuale ha comunque fornito una motivazione logicamente coerente, affrontando e risolvendo le obiezioni del ricorrente secondo una metodologia immune da vizi. Il ricorrente contesta la ricostruzione operata dalla Corte circa il numero e le modalità del riaccatastamento dei tubi, sostenendo che, in base ai tempi di saldatura, non potevano essere stati riaccatastati più di sei tubi.

Nella sentenza impugnata, a pag. 113, è stato sottolineato che “nel periodo intercorso tra il 16.10.2012 e l’infortunio non si poterono svolgere lavori presso la radice Pontile… si svolse solo attività di saldatura e di movimentazione; gli spazi dell’Isola 6 erano più limitati e pertanto le attività di saldatura dovevano svolgersi in prossimità della catasta”. 

La motivazione procede poi con rigore logico, sottolineando che, a seguito dell’incendio, su “Isola 6”, a seguito dello spostamento delle lavorazioni, avvenne certamente un’operazione di riaccatastamento ad opera del personale dipendente della Com. Sud, in spazi più ristretti, prima che venisse svolta alcuna formale valutazione dei rischi e senza procedere alla revisione dei piani di sicurezza.

Questa impostazione metodologica è giuridicamente corretta perché si basa su dati oggettivamente accertati (l’avvenuto riaccatastamento di almeno alcuni tubi), sufficienti alla valutazione dell’incidenza causale. In proposito, sulla rilevanza causale del riaccatastamento, il ricorrente sostiene che tale operazione non avrebbe avuto rilevanza causale, essendo il peso complessivo della catasta rimasto invariato rispetto alla situazione originaria.

La Corte distrettuale ha risposto, evidenziando che “il perito ha mostrato su documentazione fotografica che i tubi poggiati nella parte superiore erano visibilmente sfalsati rispetto a quelli che si trovavano collocati nella parte inferiore. Questa collocazione non allineata può certamente avere contribuito a fare pressione e ad agevolare il cedimento”.

La motivazione spiega, in modo coerente, che non è il peso complessivo della catasta che rileva, ma la distribuzione delle forze e la modalità di carico sui sistemi di contenimento. Lo sfalsamento dei tubi, comportando una distribuzione non uniforme del peso, ha creato sollecitazioni concentrate sui punti di ancoraggio già compromessi.

Per le suddette ragioni è da escludere in radice la censura di manifesta illogicità della motivazione.

9.3 Ugualmente infondato è il terzo motivo, con cui si lamenta il vizio di motivazione sulla rilevanza della vetustà della catasta

Il ricorrente sostiene che la mera vetustà della catasta non potesse costituire di per sé indice di rischio, non essendo tale valutazione supportata da elementi tecnici specifici.

Il collegio di merito ha fornito una risposta articolata e convincente, che non fonda la responsabilità sulla sola vetustà, ma sulla combinazione di più fattori che imponevano una verifica approfondita. Come chiarito a pagina 107 della sentenza impugnata, la necessità di garantire manutenzione a quella catasta, spiegata attraverso valutazioni tecniche dal perito Ro., avrebbe potuto essere agevolmente compresa anche avvalendosi dei più semplici canoni della diligenza, non necessariamente professionale.

Questa argomentazione è giuridicamente ineccepibile perché non presuppone conoscenze tecniche specialistiche da parte del datore di lavoro; si basa su criteri di diligenza ordinaria applicabili a qualsiasi soggetto di media diligenza; considera il fattore temporale in relazione alle specifiche condizioni di esposizione (area aperta, agenti atmosferici).

Particolarmente efficace è la motivazione con cui la Corte distrettuale ha affermato che la responsabilità del ricorrente non si fonda su un singolo fattore, ma su più elementi che imponevano una vigilanza rafforzata, costituiti dalla vetustà dei materiali (sette anni di esposizione), dall’assenza di manutenzione documentata, dalla modifica delle modalità d’uso (da semplice stoccaggio a area di lavorazione); dalla presenza di indicatori di degrado (crescita di vegetazione, presenza di rifiuti).

In ordine al dedotto affidamento sulle valutazioni dei consulenti esterni che non avevano segnalato rischi specifici, la decisione impugnata ha fornito una replica esaustiva e immune da vizi logici, distinguendo tra affidamento legittimo perché giustificato da valutazioni tecniche su rischi effettivamente analizzati; e affidamento illegittimo, riposto su omissioni valutative consapevolmente condivise. Nel caso in esame, si è sottolineato che il Fi.Ro., pur non avendo avuto ricevuto indicazioni specifiche circa la stabilità della catasta, aderì colposamente ad un assetto delle prescrizioni che obliterava del tutto questa verifica.

10. Ricorso di Tu.Se., sostituto del preposto di cantiere.

10.1 Va premesso che la posizione di garanzia del preposto è delineata dall’art. 2, comma 1, lett. e) del D.Lgs. 81/08 che lo definisce come persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli, sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l’attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa. Il successivo art. 19 ne tratteggia gli obblighi che sono essenzialmente la vigilanza sulla osservanza della normativa e delle prescrizioni aziendali nonché sull’uso dei mezzi e dei dispositivi di protezione e il governo di situazioni rischiose, tramite la loro segnalazione ai lavoratori, al datore di lavoro ed al dirigente.

La suddetta norma, al comma 1, lettera f), impone al preposto l’obbligo specifico di “segnalare tempestivamente al datore di lavoro o al dirigente sia le deficienze dei mezzi e delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale, sia ogni altra condizione di pericolo che si verifichi durante il lavoro, delle quali venga a conoscenza sulla base della formazione ricevuta”. Principio pacifico nella giurisprudenza di legittimità è, dunque, quello per cui il preposto assume una posizione di garanzia ed è debitore di sicurezza nei confronti dei lavoratori ma solo con riferimento all’area di rischio che è chiamato a gestire in relazione alla natura e alla entità delle funzioni e dei poteri esercitati (Sez. 4, n. 10110 del 10/02/2023, Valetti; Sez. 4, n. 12251 del 19/06/2014, dep. 2015, De Vecchi, Rv. 263004).

Il preposto, pertanto, non ha soltanto il compito di vigilare sull’osservanza delle disposte misure antinfortunistiche, ma anche l’incombenza di rendere edotto delle deficienze delle misure protettive colui che ha l’obbligo di provvedere alla relativa adozione (cfr. Sez. 4, sent. n. 7092 del 2022; Sez. 4, sent. n. 45575 del 2021; Sez. 4, sent. n. 4340 del 24 novembre 2015, Rv. 265977; Sez. 4, sent.n. 9491 del 10/01/2013 Ud. (dep. 27/02/2013) Rv. 254403-01). In sintesi, la responsabilità del preposto si articola su due livelli: la vigilanza sull’osservanza delle misure di sicurezza già predisposte e sull’uso corretto dei dispositivi di protezione; la segnalazione tempestiva al datore di lavoro delle situazioni di pericolo riscontrate e delle deficienze rilevate.

Quanto alla titolarità della funzione, vale il principio di effettività nell’individuazione del preposto (art. 299 D.Lgs. 81/2008).

La giurisprudenza ha costantemente affermato che la qualifica di preposto può derivare non solo da formale investitura, ma anche dall’esercizio di fatto delle relative funzioni (ex 53 multis, Sez. 4, n. 13525 del 26/11/2024, dep. 08/04/2025, Rv. 287904-01). Questo principio assume particolare rilievo quando, come nel caso in esame, il soggetto sottoscriva documenti attestanti il rispetto delle condizioni di sicurezza, assumendo così una responsabilità diretta nella rappresentazione della situazione di cantiere.

10.2 Tanto premesso in linea generale, risulta infondato il primo motivo di ricorso con cui si lamenta la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., per erronea applicazione dell’art. 2 co. 1 lett. e) D.Lgs. 81/2008.

Il ricorrente contesta la propria qualificazione come preposto e la conseguente attribuzione di responsabilità, sostenendo di essere stato “l’ultima ruota del carro” e di non aver avuto alcun potere decisionale.

La risposta contenuta in sentenza, basata sul principio di effettività sancito dall’art. 299 D.Lgs. 81/2008, è corretta. Come chiarito alle pagine 134 e seguenti della decisione in esame, egli per conto di Com. Sud svolgeva le funzioni di sostituto di preposto al cantiere e aveva il compito di sovraintendere alle attività lavorative di cantiere e di controllare la corretta esecuzione delle direttive anche in materia di sicurezza, con il connesso obbligo di rilevare le situazioni di rischio e tempestivamente segnalarle.

Particolarmente penetrante è l’analisi con cui la Corte ha evidenziato la specifica condotta attiva del ricorrente nell’avallare una rappresentazione non veritiera delle condizioni di cantiere. Come evidenziato, egli risulta avere sottoscritto diversi documenti (verbali di sopralluogo e permessi di lavoro) che hanno sostanzialmente avallato, con la formula ‘corretto stoccaggio, una rappresentazione delle condizioni di cantiere tranquillizzante, ma difforme dal vero.

Questa valutazione è giuridicamente ineccepibile perché trasforma la posizione del ricorrente da quella di soggetto meramente passivo (che subisce le decisioni altrui) a quella di soggetto attivo che, attraverso le proprie attestazioni, contribuisce a creare e mantenere una situazione di pericolo, omettendo le dovute segnalazioni.

Per completezza, è necessario precisare che le conclusioni raggiunte dalla Corte distrettuale trovano fondamento nella disciplina legislativa richiamata, anche anteriormente alle modifiche apportate dalla legge n. 215 del 17.12.2021. Quest’ultima, intervenendo in maniera significativa sulla figura del preposto, ha ulteriormente valorizzato e specificato le funzioni di vigilanza e intervento di tale figura, rafforzandone il ruolo nell’ambito del sistema di prevenzione degli infortuni sul lavoro. In particolare, la novella legislativa ha introdotto, tra l’altro, l’obbligo di individuare il preposto o i preposti per l’effettuazione delle attività di vigilanza (art. 18, comma 1, lett. b-bis) e ha precisato i poteri di intervento del preposto in caso di non ottemperanza alle disposizioni impartite (art. 19, comma 1, lett. a).

Le modifiche, pur non applicabili ratione temporis al caso di specie, si pongono in linea di continuità con l’interpretazione giurisprudenziale consolidata circa il ruolo e le responsabilità del preposto, confermando la centralità della funzione di vigilanza e segnalazione già sussistente nell’assetto normativo vigente all’epoca dei fatti, su cui si fonda la pronuncia di condanna nei confronti del Tu.Se. L’interpretazione adottata dalla Corte territoriale trova ampio riscontro nella giurisprudenza consolidata di questa Corte, in tema di colpa omissiva impropria, segnatamente, con riguardo alla verifica dell’imputazione causale dell’evento, e, in particolare, in materia di infortunistica sul lavoro, relativamente alla posizione del garante, per il quale può sussistere responsabilità penale, seppur privo di poteri decisionali e di spesa, quando l’evento lesivo sia riconducibile ad una situazione di pericolo che avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare (cfr. Sez. 4, n. 32195 del 15/7/2010, Scagliarini, RV. 248555).

10.2 Proseguendo nell’esame del primo complesso motivo di ricorso, si evidenzia che il ricorrente richiama le dichiarazioni del perito secondo cui i vizi della catasta non erano percepibili ad un esame visivo, sostenendo che ciò escluderebbe la sua responsabilità.

Anche sul punto, i giudici di merito hanno fornito una replica articolata che opera la medesima distinzione già evidenziata per il ricorso Fi.Ro. tra valutazione tecnica specialistica e percezione dell’esistenza di elementi di rischio, certamente non occulti (“le condizioni del terreno di appoggio, i dislivelli, i rifiuti intorno e arrugginiti, lo stato delle tubazioni, lì collocate da sette anni, erano evidenti a tutti, tanto più a Tu.Se. che aveva nel cantiere una precisa responsabilità e non mancava di esperienza”). Questa argomentazione è priva di vizi logici perché personalizza la valutazione tenendo conto dell’esperienza specifica del ricorrente; distingue tra vizi tecnici nascosti e segnali di degrado evidenti; valorizza il ruolo di vigilanza che il preposto aveva assunto di fatto.

10.3 Manifestamente infondato, in quanto meramente propositivo di censure in fatto, è il secondo motivo, con cui si lamenta il vizio di motivazione sulla valutazione del riaccatastamento.

La decisione impugnata affronta specificamente le obiezioni del ricorrente sul riaccatastamento dei tubi e sulla pretesa contraddizione circa le tipologie di tubi movimentati. È stato ben chiarito che quel tipo di movimentazione, avente ad oggetto tubi della maggior lunghezza a seguito della saldatura di due componenti, costituiva operazione certamente più delicata e complessa per le condizioni più anguste per l’espletamento delle lavorazioni che la nuova sede (Isola 6) comportava. Con ciò si è voluto significare che altro è la presenza statica di tubi da 24 metri in una catasta stabile (situazione originaria), altra cosa è la movimentazione attiva di tubi della stessa lunghezza in un’area non progettata per tali operazioni (situazione sopravvenuta).

In ordine al numero dei tubi movimentati, il motivo è anche aspecifico atteso che in sentenza viene spiegato che non è il peso complessivo della catasta che rileva, ma la distribuzione delle forze e la modalità di carico sui sistemi di contenimento. Lo sfalsamento dei tubi, comportando una distribuzione non uniforme del peso, ha creato sollecitazioni concentrate sui punti di ancoraggio già compromessi.

10.4 Infondato è il terzo motivo, con cui il ricorrente ripropone l’obiezione sulla non percettibilità dei rischi derivanti dalla vetustà della catasta.

La Corte di merito ha dato una risposta calibrata sul ruolo specifico del preposto, stigmatizzando il suo comportamento poiché, anziché adottare iniziative per segnalare la necessità di verificare i rischi o comunque esercitare le prudenze volte a ridurli, aveva aderito al complessivo atteggiamento di sottovalutazione condiviso da tutti i soggetti della filiera della sicurezza, a fronte di una sopravvenuta modificazione della logistica e delle condizioni di lavoro a seguito del trasferimento in “Isola 6”. Particolarmente attenta è l’analisi sulla irrilevanza delle rassicurazioni contenute nei documenti di sicurezza. È stato logicamente osservato che il preposto non può limitarsi ad una vigilanza meramente cartolare, ma deve esercitare una vigilanza sostanziale basata sull’osservazione diretta delle condizioni di lavoro.

11. Ricorso di Ma.Sa., responsabile del servizio di prevenzione e protezione di Com. Sud a r.l.

In via preliminare, si richiama l’attenzione sul fatto che i primi due motivi di ricorso, in ragione della loro analogia con le censure della medesima natura proposte da altri ricorrenti, hanno formato oggetto di esame al punto 1.2 del considerato in diritto, al quale si fa espresso rinvio per quanto in quella sede argomentato.

11.1 Per una corretta valutazione degli ulteriori motivi di ricorso di Ma.Sa., occorre richiamare i principi consolidati dalla giurisprudenza di legittimità sulla posizione di garanzia del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP), figura centrale nel sistema prevenzionistico delineato dal D.Lgs. 81/2008.

La Suprema Corte ha da tempo chiarito che il RSPP riveste una posizione peculiare nell’organizzazione aziendale della sicurezza, caratterizzata da un ruolo prevalentemente consultivo e tecnico-valutativo. È stato precisato che il soggetto incaricato della suddetta funzione può essere ritenuto responsabile, anche in concorso con il datore di lavoro, del verificarsi di un infortunio, ogni qual volta l’evento sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione faccia seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle iniziative idonee a neutralizzare tale situazione (Sez. 4, n. 24822 del 10.3.2021, Rv. 281433).

Il menzionato principio si fonda su una ratio di carattere sistematico: il RSPP, pur non disponendo di poteri decisionali diretti, è chiamato a svolgere una funzione di sentinella tecnica nell’ambito del sistema prevenzionistico aziendale. La sua responsabilità penale emerge quando, disponendo delle competenze tecniche necessarie, omette di rilevare situazioni di pericolo che rientrano nel suo ambito di osservazione professionale.

E tuttavia principio altrettanto consolidato che tale soggetto, in quanto consulente del datore di lavoro privo di potere decisionale, risponde dell’evento in concorso con il datore di lavoro solo se abbia commesso un errore tecnico nella valutazione dei rischi, dando un suggerimento sbagliato od omettendo di segnalare situazioni di rischio colposamente non considerate (Sez. 4, n. 49761 del 17.10.2019, Rv. 277877).

Questo orientamento riflette l’esigenza di evitare una responsabilizzazione eccessiva di figure puramente consultive, pur mantenendo ferma la necessità che l’expertise tecnica si traduca in un adeguato contributo alla sicurezza aziendale.

Nel contesto specifico dei cantieri temporanei e mobili, la posizione del RSPP si inserisce in un quadro normativo articolato che vede la presenza di molteplici figure garanti (coordinatori per la sicurezza, datori di lavoro delle imprese esecutrici, preposti), ciascuna con specifici ambiti di competenza. La responsabilità del RSPP in tale contesto deve essere valutata in relazione ai suoi specifici obblighi di collaborazione nella redazione del Piano Operativo di Sicurezza e di segnalazione delle situazioni di rischio che dovessero emergere nell’ambito delle sue competenze tecniche.

11.2 Ciò premesso, il terzo motivo di ricorso, incentrato sulla dedotta violazione delle norme sostanziali in materia di nesso causale, risulta infondato alla luce della motivazione logica e approfondita fornita dalla Corte di appello, immune dalle censure proposte dal ricorrente tanto sul versante della ricostruzione fattuale quanto su quello dell’inquadramento giuridico.

La doglianza relativa al presunto travisamento della posizione difensiva risulta destituita di fondamento.

Il collegio di merito ha dimostrato di aver compreso perfettamente la strategia difensiva del ricorrente, dando espressamente atto che nell’appello si sosteneva l’esclusiva causazione dell’evento da parte dell’attività di “riaccatastamento” posta in essere dopo il 16 ottobre, quale fatto nuovo e sopravvenuto capace di inaugurare un nuovo processo causale. Tuttavia, ha correttamente rigettato la proposta ricostruzione, evidenziando l’impossibilità di spezzare artificiosamente la catena causale attraverso l’isolamento delle singole condotte omissive dal contesto complessivo in cui si sono inserite.

Il principio fondamentale che emerge dalla pronuncia di merito risiede nella continuità funzionale delle competenze del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione.

Qualora un soggetto mantenga la supervisione sia della fase precedente sia di quella successiva all’evento critico (incendio), conserva il controllo complessivo su tutte le attività coinvolte; tale circostanza impedisce naturalmente la frammentazione delle responsabilità secondo criteri temporali.

La continuità si fonda sulla natura stessa dell’obbligo di segnalazione proprio del RSPP, che presuppone necessariamente una verifica autonoma e ininterrotta delle condizioni di rischio, non circoscrivibile a specifici momenti operativi quando le attività comportino evidenti profili di rischio nell’intero sviluppo degli accadimenti.

La Corte di merito ha aderito a una ricostruzione causale particolarmente accurata, basata su un approccio metodologicamente corretto che tiene conto tanto delle condizioni antecedenti quanto di quelle concomitanti.

L’argomentazione evidenzia innanzitutto come la responsabilità del RSPP non possa essere elusa invocando la compartimentazione delle competenze quando le attività rientranti nella sfera del subappaltatore di cui egli era consulente si svolgevano nell’ambito delle sue funzioni istituzionali. Più nel dettaglio, poiché il Piano Operativo di Sicurezza doveva essere calibrato sulle specifiche lavorazioni di competenza del subappaltatore – tra cui la movimentazione dei tubi accatastati in Isola 6 – il ricorrente non poteva ritenersi esentato dal verificare e segnalare condizioni di rischio della catasta.

In secondo luogo, la tesi difensiva relativa all’autonomia causale del riaccatastamento rivela priva di fondamento, essendo stato correttamente evidenziato come le operazioni di riaccatastamento si siano innestate su una situazione già compromessa dalle carenze originarie della catasta e dall’omessa valutazione dei rischi. Ne consegue che logica appare la motivazione contenuta in sentenza secondo cui l’intervento successivo non ha inaugurato un nuovo e autonomo processo causale, ma ha rappresentato lo sviluppo di una situazione di pericolo preesistente, la cui gestione rientrava nelle competenze continuative del RSPP secondo il principio della responsabilità funzionale unitaria sopra delineato.

11.3 Manifestamente infondato il quarto motivo, diretto a contestare la denegata richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale finalizzata all’espletamento di una nuova perizia, al fine di chiarire specifici aspetti tecnici relativi alle cause del crollo della catasta e alle responsabilità dei singoli soggetti.

Va premesso che il tema dei poteri istruttori del giudice di appello è stato ampiamente affrontato dal legislatore.

Nella procedura introdotta nel 1989, improntata al modello accusatorio, la formazione diretta della prova dinanzi al giudice di primo grado ha trovato definitiva consacrazione con la riforma, nel 1999, dell’art. 111 della Costituzione, in forza del quale può dirsi che la raccolta in forma dialettica delle prove è divenuto il metodo epistemologico costituzionalmente obbligato. E, nella scelta se preservare intatta la tradizionale configurazione dell’appello, con una attività istruttoria limitata a una funzione integrativa, coerentemente con un giudizio di secondo grado inteso come mero controllo dell’accertamento effettuato nella fase precedente, che si presume completo, ovvero optare per un giudizio di appello autoreferenziale, dotato di propria autonomia, un novum iudicium e non un mero riesame critico, ha prevalso la soluzione di mantenere la sostanziale funzione di controllo di quanto in precedenza avvenuto, di modo che l’appello continua a essere strutturato come giudizio tipicamente cartolare e scritto.

Nel giudizio di appello ordinario è, dunque, tendenzialmente esclusa l’assunzione delle prove, limitandosi il giudice a decidere sul materiale formatosi in primo grado; la rinnovazione parziale del dibattimento, prevista dall’art. 603 cod. proc. pen. solo in presenza di specifiche condizioni, rappresenta un passaggio meramente eventuale e straordinario nello svolgimento del giudizio di appello e non costituisce, sul piano normativo, un presupposto indispensabile per giungere a un epilogo decisorio del tutto alternativo a quello del processo di primo grado.

E dato che la previsione di un secondo grado di giurisdizione di merito trova la sua giustificazione proprio nell’opportunità di una verifica piena della correttezza delle valutazioni del giudice di primo grado, ne deriva l’affermazione di principio, ripetuta nella giurisprudenza della Corte regolatrice, per cui il giudice di appello che intenda procedere alla rinnovazione del dibattimento è tenuto ad esplicitarne le ragioni. In particolare, il giudice deve rendere conto del corretto uso del potere discrezionale derivante dalla acquisita consapevolezza di non poter decidere allo stato degli atti; il contenuto esplicativo del provvedimento adottato è, peraltro, l’unico profilo sul quale si può esplicare il sindacato di legittimità (Sez. 5, n. 23580 del 19/02/2018, Campion, Rv. 273326 -01; Sez. 3, n. 7680 del 13/01/2017, Loda, Rv. 26937301).

Con riguardo alla perizia, poi, le Sezioni Unite con la sentenza Pavan hanno chiarito che l’omessa rinnovazione della prova peritale acquisita in forma dichiarativa da parte del giudice di appello che proceda, sulla base di un diverso apprezzamento della stessa, nella vigenza dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., alla riforma della sentenza di assoluzione, determina una nullità di ordine generale a regime intermedio della sentenza, denunciabile in sede di giudizio di legittimità a norma dell’art. 606, comma 1 lett. c), cod. proc. pen., mentre la pronuncia di riforma adottata sulla base della rivalutazione della relazione del perito, acquisita in forma puramente cartolare, è sindacabile per vizio di motivazione ex art. 606, comma 1 lett. e), cod. proc. pen., sempre che la prova negata, confrontata con le ragioni addotte a sostegno della decisione, sia di natura tale da potere determinare una diversa conclusione del processo (Sez. U, n. 14426 del 28/01/2019, Rv. 275112-03).

Ben diverso risulta il compito del giudice di appello qualora, da un lato, non ritenga necessaria la rinnovazione dell’istruttoria e, dall’altro, non intenda pervenire a diversa valutazione dell’esito peritale. In tale ipotesi, che è quella che interessa il caso in esame connotato dalla doppia conformità, non sussiste alcun obbligo di rinnovazione delle prove o delle indagini peritali e non sussiste alcun obbligo motivazionale quando la struttura argomentativa della motivazione della decisione di secondo grado si fondi su elementi sufficienti per una compiuta valutazione in ordine alla responsabilità (ex multis, Sez. 6, n. 2972 del 04/12/2020, dep. 2021, G., Rv. 280589-01; Sez. 6, n. 11907 del 13/12/2013, dep. 2014, Coppola, Rv. 259893-01; Sez. 6, n. 30774 del 16/07/2013, Trecca, Rv. 257741-01).

Alla luce dei predetti principi, esaminando, dunque, la sentenza impugnata, conforme alla sentenza di primo grado, si osserva che in essa i giudici di appello hanno motivatamente condiviso le valutazioni peritali; contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, i giudici di appello non hanno trascurato le doglianze difensive, come si desume dal fatto che le hanno puntualmente riportate in sentenza; ciò nonostante, hanno spiegato, con motivazione esente da vizi, per quali ragioni alcune considerazioni avessero rilievo dirimente nel senso di avvalorare la ricostruzione sopra descritta. Alle pagine 105 e 106 della sentenza impugnata, diversamente da quanto censurato dal ricorrente, è stata data risposta alla sollecitazione difensiva, essendo stato rilevato che le richieste di rinnovazione dell’istruttoria riguardavano profili sui quali ulteriori approfondimenti non sarebbero stati decisivi, essendo tutti gli elementi rilevanti già stati sottoposti alle valutazioni delle parti e del giudice. In particolare, è stato evidenziato che: il perito era stato ampiamente escusso in sede dibattimentale, fornendo chiarimenti su tutti gli aspetti tecnici rilevanti; i consulenti di parte avevano avuto ampia possibilità di confrontarsi con le valutazioni del perito e di offrire ricostruzioni alternative; il quadro probatorio risultava già completo e sufficiente per la decisione.

I giudici hanno inoltre osservato che i prospettati mezzi istruttori non presentavano carattere di novità e avrebbero comportato solo l’acquisizione o l’ulteriore vaglio di giudizi tecnici già ampiamente esplorati nel corso del giudizio di merito. L’argomentazione in esame è pienamente conforme ai parametri sopra indicati; di conseguenza, le obiezioni sollevate in proposito si rivelano manifestamente infondate.

11.4 Il quinto motivo è infondato perché sul punto la Corte ha logicamente motivato, dimostrando una corretta interpretazione del quadro normativo di riferimento e un’adeguata applicazione dei principi giurisprudenziali consolidati.

Il ricorrente contesta l’interpretazione data dalla Corte al ruolo del RSPP, sostenendo che esso sarebbe limitato ad un ambito meramente consultivo e che non comporterebbe obblighi autonomi di verifica e segnalazione. L’impostazione difensiva rivela però una concezione riduttiva e non conforme all’evoluzione normativa e giurisprudenziale. L’art. 33 del D.Lgs. 81/2008 attribuisce infatti al servizio di prevenzione e protezione compiti di “individuazione dei fattori di rischio, valutazione dei rischi e individuazione delle misure per la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro”. Tali funzioni presuppongono necessariamente un’attività di analisi tecnica che non può essere meramente recettiva, ma deve comportare un contributo professionale qualificato.

Il ricorrente tenta di scaricare ogni responsabilità sui coordinatori per la sicurezza, sostenendo che l’analisi dei rischi di accatastamento doveva essere svolta esclusivamente nell’ambito del PSC. La prospettazione tradisce però una visione frammentaria del sistema prevenzionistico, che invece si basa su principi di coordinamento e integrazione tra i diversi documenti di sicurezza. La Corte di merito ha opportunamente evidenziato che “proprio perché il POS va calibrato sulle specifiche lavorazioni di competenze del subappaltante e tra queste vi era la movimentazione dei tubi accatastati in Isola 6, Ma.Sa. non poteva ritenersi esentato dal verificare e segnalare se le condizioni della catasta riservassero rischi” (pag. 134).

Questa considerazione coglie un aspetto fondamentale del sistema: il POS non è un mero adempimento formale che si limita a recepire le prescrizioni del PSC, ma deve contenere un’analisi specifica dei rischi connessi alle particolari modalità operative dell’impresa esecutrice. Quando il PSC presenta lacune (come nel caso in esame, dove non era stata considerata l’area Isola 6), il POS deve supplire a tali carenze attraverso un’adeguata valutazione dei rischi specifici. La giurisprudenza, con specifico riferimento al responsabile del servizio di prevenzione e protezione, ha chiarito che un soggetto con un incarico relativo alla sicurezza di cantiere, ancorché consulenziale rispetto al datore di lavoro, concorre con lui nella responsabilità per un evento derivante da violazioni di regole antinfortunistiche ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare (Sez. 4, n. 24822 del 10/03/2021, Rv. 281433).

In linea con i predetti principi, logica appare la motivazione dei giudici di merito, secondo cui le lavorazioni affidate alla Com. Sud comportavano necessariamente la movimentazione di tubazioni accatastate da anni in condizioni di cui non era stata verificata la stabilità. Tale circostanza era agevolmente desumibile dalla natura stessa delle lavorazioni e dal contesto operativo, che avrebbero dovuto indurre un tecnico qualificato, qual è il RSPP, a approfondimenti sulla effettiva stabilità della catasta senza necessità di specifiche comunicazioni. 

11.5 Il sesto motivo è infondato perché sul punto la Corte ha fornito logica motivazione, dimostrando una corretta applicazione dei principi in materia di colpa e un’adeguata valutazione dell’elemento soggettivo.

Il ricorrente contesta la configurazione della colpa specifica ex art. 33 D.Lgs. 81/2008, sostenendo che la norma non potrebbe trovare applicazione in assenza di specifiche comunicazioni sui processi lavorativi.

La Corte distrettuale ha correttamente inquadrato la condotta del Ma.Sa. nell’ambito della colpa specifica, evidenziando che la carenza accertata è quella relativa all’omessa analisi; anche ad ammettere che vi potesse essere un’apparente stabilità era preciso onere di chi doveva valutare i rischi accertare le modalità di costruzione della catasta e valutare le ovvie ricadute dell’esposizione ad usura nel trascorrere del tempo (pag. 135). In effetti, la violazione dell’art. 33 D.Lgs. 81/2008 non si sostanzia in un mero inadempimento formale, ma nella violazione dell’obbligo sostanziale di svolgere un’adeguata analisi tecnica dei rischi. La norma richiede infatti “individuazione dei fattori di rischio” e “valutazione dei rischi”, attività che presuppongono un approccio proattivo e non meramente recettivo.

Un aspetto particolarmente significativo della motivazione della Corte riguarda la valutazione della prevedibilità dell’evento. Il ricorrente ha tentato di negare tale prevedibilità, sostenendo che rischi derivanti dalla catasta non erano evidenti alla data di redazione del POS. In sentenza è stato però correttamente evidenziato come la prevedibilità non debba essere valutata con riferimento al momento specifico dell’evento, ma alla situazione complessiva che si presentava al momento della condotta omissiva. Nel caso in esame, era oggettivamente prevedibile che una catasta di tubi di notevoli dimensioni, esposta per anni agli agenti atmosferici, potesse presentare problemi di stabilità, specialmente in presenza di lavorazioni che ne comportavano la movimentazione.

In sentenza viene inoltre illustrata una valutazione articolata della rimproverabilità soggettiva, evidenziando come l’adempimento del Ma.Sa. sia stato “meramente cartolare e tralaticio”. L’argomentazione è immune da vizi, atteso che la condotta del ricorrente non può essere giustificata dall’affidamento sulle valutazioni altrui (in particolare del coordinatore per l’esecuzione), atteso che il soggetto che riveste il ruolo di RSPP è chiamato a fornire un contributo tecnico autonomo e qualificato. L’aver meramente trasposto valutazioni altrui senza un approfondimento critico costituisce di per sé una violazione degli obblighi professionali.

12. I ricorsi proposti in materia di responsabilità amministrativa degli enti ex D.Lgs. 231/2001.

13. Bio Raffineria di Gela Spa

13.1 Il ricorso proposto da Bio Raffineria di Gela Spa si fonda su censure che investono sia la sussistenza del reato presupposto sia i profili specifici della responsabilità dell’ente.

I motivi primo e terzo del ricorso si fondano sulle medesime questioni già esaminate nei punti da 4.1 a 4.4 del Considerato in diritto e, per identiche ragioni, devono ritenersi fondati.

Le corrispondenti censure relative alle posizioni di Ca.Be. e Za.Fa. hanno determinato l’annullamento con rinvio delle rispettive condanne per il reato presupposto.

Ai sensi dell’art. 5 del D.Lgs. n. 231/2001, la responsabilità amministrativa dell’ente è subordinata all’accertamento di un reato commesso nell’interesse o a vantaggio dello stesso, da parte di soggetti che agiscono per suo conto. Di conseguenza, l’annullamento del reato presupposto comporta necessariamente l’identica statuizione sulla responsabilità dell’ente stesso.

Le ragioni che hanno giustificato l’annullamento con rinvio del reato presupposto si estendono quindi automaticamente all’accertamento dell’illecito amministrativo che su di esso si fonda. Assorbiti gli ulteriori motivi.

14. SGS Ser. Srl

14.1 Il primo motivo di ricorso solleva due questioni: l’ammissibilità della costituzione di parte civile nei confronti dell’ente responsabile secondo il decreto legislativo 231/2001 e il presunto difetto nella costituzione del rapporto processuale con l’ente stesso in qualità di responsabile civile.

Entrambe le eccezioni si rivelano prive di fondamento. La Corte di merito ha chiarito con precisione che le condanne al risarcimento hanno coinvolto l’ente non come soggetto nei cui confronti si è costituita parte civile, ma esclusivamente come responsabile civile. Questo aspetto è cruciale: mentre la giurisprudenza consolidata esclude la possibilità di costituirsi parte civile direttamente contro un ente sottoposto al regime del decreto 231/2001, nulla impedisce che lo stesso ente possa essere chiamato in causa come responsabile civile o che, qualora sia già presente nel procedimento, nei suoi confronti venga estesa la domanda risarcitoria.

La Corte di cassazione ha effettivamente stabilito che nel processo penale instaurato per accertare la responsabilità amministrativa di un ente ai sensi del decreto 231/2001, la costituzione di parte civile non è ammissibile. L’esclusione deriva da una precisa scelta del legislatore, che non ha previsto tale istituto nella normativa di riferimento (Sez. 5, n. 21868 del 09/04/2024, Rv. 286387; Sez. 6, n. 2251 del 05/10/2010, dep. 2011, Rv. 248791). Tuttavia, non è affatto escluso che una parte civile, regolarmente costituitasi nei confronti degli imputati, accusati di aver agito anche nell’interesse dell’ente, possa avanzare una richiesta risarcitoria verso l’ente medesimo. In tal caso, l’ente viene considerato responsabile civile per i danni causati dai propri dipendenti e risulta quindi obbligato in solido al risarcimento che si sta accertando nel processo penale.

Per quanto riguarda le modalità procedurali, la citazione del responsabile civile secondo l’articolo 83 del codice di procedura penale rappresenta un requisito imprescindibile solo quando l’ente non è ancora parte del procedimento e deve esservi richiamato. Al contrario, quando il responsabile civile è già presente nel giudizio, è sufficiente che le parti interessate formulino un’espressa richiesta nei termini stabiliti dall’articolo 83 del codice di procedura penale, specificatamente rivolta all’ente e nell’ambito del medesimo procedimento, al più tardi entro il dibattimento (Sez. 4, n. 46991 del 12/11/2015, Rv. 265664; Sez. 4, n. 3273 del 27/09/2012, dep. 22/01/2013, Rv. 255209).

14.2. Fondato è il secondo motivo di ricorso, con cui si contesta il difetto di motivazione in ordine al requisito dell’interesse o del vantaggio dell’ente secondo i criteri sopra delineati.

14.2.1 In linea generale, si rammenta che i termini “interesse” e “vantaggio” non costituiscono un’endiadi, ma rappresentano criteri distintivi che operano su piani diversi.

Come precisato dalla giurisprudenza, in tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche e delle società, l’espressione normativa “nel suo interesse o a suo vantaggio” non contiene un’endiadi, perché i termini hanno riguardo a concetti giuridicamente diversi, potendosi distinguere un interesse “a monte” per effetto di un indebito arricchimento, prefigurato e magari non realizzato, in conseguenza dell’illecito, da un vantaggio oggettivamente conseguito con la commissione del reato, seppure non prospettato ex ante (Sez. 2, n. 3615 del 20 dicembre 2005, D’Azzo, Rv. 232957).

L’inserimento dell’art. 25-septies (Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro) ha posto il problema della compatibilità del modello di imputazione obiettiva previsto dall’art. 5 con il paradigma dei delitti colposi, in cui l’evento è involontario. Al riguardo, la giurisprudenza ha elaborato il criterio per cui, nei delitti colposi, l’interesse o vantaggio per l’ente non deve riferirsi alla commissione dell’evento del reato, ma deve riguardare unicamente la condotta. È chiaro, infatti, che un interesse per l’ente può essere ottenuto dalla violazione delle norme antinfortunistiche solamente al momento della condotta ed al netto dell’evento, ad esempio grazie al risparmio di spesa o alla accelerazione e massimizzazione della produzione.

Come chiarito dalle Sezioni Unite, in tema di responsabilità amministrativa degli enti derivante da reati colposi di evento, i criteri di imputazione oggettiva sono alternativi e concorrenti tra di loro e devono essere riferiti alla condotta anziché all’evento. L’interesse è il criterio soggettivo (indagabile ex ante) consistente nella prospettazione finalistica, da parte del reo-persona fisica, di arrecare un interesse all’ente mediante il compimento del reato, a nulla valendo che poi tale interesse sia stato concretamente raggiunto o meno.

Dal punto di vista prettamente probatorio, il connotato della sistematicità delle violazioni rappresenta un indizio dell’esistenza dell’elemento finalistico della condotta dell’agente. Tuttavia, è ravvisabile il criterio dell’interesse anche in relazione a una trasgressione isolata dovuta a un’iniziativa estemporanea, allorché altre evidenze fattuali dimostrino il collegamento finalistico tra la violazione e l’interesse dell’ente (Sez. 4, n. 12149 del 24/03/2021, Rodenghi, Rv. 28077701; Sez. 4, n. 29584 del 22/09/2020, F.lli Cambria Spa, Rv. 27966001). Il vantaggio è criterio oggettivo (da valutare ex post), legato all’effettiva realizzazione di un profitto in capo all’ente quale conseguenza della commissione del reato (Sez. 5, n. 10265 del 28 novembre 2013, Banca Italease Spa, Rv. 258575).

Ricorre il requisito del vantaggio quando la persona fisica, agendo per conto dell’ente, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche e, dunque, ha realizzato una politica d’impresa disattenta alla materia della sicurezza del lavoro, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto o della produzione (Sez. 4, n. 2544 del 17/12/2015, Gastoldi).

In caso di violazioni occasionali, occorre la prova dell’oggettiva prevalenza delle esigenze della produzione e del profitto su quella della tutela della salute dei lavoratori quale conseguenza delle cautele omesse, nonché dell’effettivo, apprezzabile vantaggio, consistente nel risparmio di spesa o nella massimizzazione della produzione, che può derivare anche I dall’omissione di una singola cautela e dalla conseguente riduzione dei tempi di lavorazione (Cass. 22256-21 Canzonetti RV 281276).

14.2.2 Nel caso in esame, la Corte territoriale si è limitata ad affermare genericamente che i dipendenti, con le loro omissioni, avevano consentito alla società di mantenere l’incarico ricevuto, sottolineando che “questa scelta, condivisa a livello apicale in SGS Ser., trovava ragione nell’interesse di assicurarsi e mantenere una commessa ricevuta da un committente che si voleva così compiacere”.

Tuttavia, l’argomentazione con cui si è cercato di individuare il requisito dell’interesse, come rilevato dalla ricorrente, è apparente. Nel caso di specie, l’elemento non risulta dimostrato, essendo priva di significato dimostrativo di un interesse concreto, l’intenzione di compiacere la committenza. Il mero “compiacere”, privo di qualsiasi specificazione circa la natura e l’entità dell’utilità perseguita, si risolve in una formula vuota e generica, inidonea a soddisfare l’esigenza probatoria che il requisito dell’interesse impone. 

Inoltre, non sono state adeguatamente valutate le seguenti circostanze. Gli imputati Mo.Ma. e Ie.Sa. erano dipendenti con contratto di lavoro subordinato, privi di posizioni apicali tali da poter assumere decisioni nell’interesse della società. La sentenza omette di indicare quale documento processuale o quale testimonianza abbia provato che le condotte fossero state condivise dal Consiglio di amministrazione dell’epoca, unico organo effettivamente apicale della società.

Il contratto di consulenza non prevedeva clausole penali che potessero generare vantaggi economici dall’omissione di adempimenti sulla sicurezza. La decisione, sul punto, deve essere annullata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello.

15. Com. Sud a r. 1.

15.1 Il primo motivo di ricorso, con cui si contesta l’assoluto difetto di motivazione riguardo all’elemento della colpa di organizzazione, è fondato.

Va premesso che il fondamento della responsabilità dell’ente è costituito dalla c.d. “colpa di organizzazione”, che costituisce elemento tipico dell’illecito amministrativo e si distingue dalla colpa dei soggetti autori del reato. L’elemento in esame deve intendersi in senso normativo ed è fondata sul rimprovero derivante dall’inottemperanza, da parte dell’ente, all’obbligo di adottare le cautele organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli (Sez. Un., n. 38343 del 24 aprile 2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri Rv. 261114).

Questa Sezione ha recentemente affermato che, ai fini della configurabilità della responsabilità da reato degli enti, non sono ex se sufficienti la mancanza od inidoneità degli specifici modelli di organizzazione o la loro inefficace attuazione, essendo necessaria la dimostrazione della “colpa di organizzazione”, che caratterizza la tipicità dell’illecito amministrativo e che è distinta dalla colpa dei soggetti autori del reato (Cass. Sez. 4, n. 18413 del 15/02/2022 (Rv. 283247-01). I modelli di cui agli artt. 6 e 7 del D.Lgs. 231/2001 hanno natura e funzione diversa rispetto ai documenti di valutazione dei rischi di cui alla normativa antinfortunistica. Il sistema introdotto dal D.Lgs. 231/2001 impone alle imprese di adottare un modello organizzativo diverso e ulteriore a quello previsto dalla normativa antinfortunistica (Cass. Sez. 4, n. 18413 del 15/02/2022, Rv. 283247-01).

D’altro canto, l’assenza del modello, la sua inidoneità o la sua inefficace attuazione non sono ex se elementi costitutivi dell’illecito dell’ente. Tali sono, oltre alla compresenza della relazione organica e teleologica tra il soggetto responsabile del reato presupposto e l’ente, la colpa di organizzazione, il reato presupposto ed il nesso causale che deve correre tra i due. Come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, grava sull’accusa l’onere di dimostrare l’esistenza e l’accertamento dell’illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa della societas e l’aver agito nell’interesse di questa, nonché gli elementi indicativi della colpa di organizzazione dell’ente, che rendono autonoma la responsabilità del medesimo” (Cass. Sez. 6, n. 27735 del 18/02/2010, Scarafia, Rv. 247666).

In tale contesto sistematico, particolare rilevanza assume la previsione dell’art. 30, comma 5, del D.Lgs. 81/2008, che stabilisce una presunzione di conformità per i modelli di organizzazione aziendale definiti conformemente alle Linee guida UNI-INAIL o al British Standard OHSAS 18001: 2007. La disposizione introduce un meccanismo presuntivo di adeguatezza che, pur non determinando un’automatica efficacia esimente, costituisce un elemento di valutazione di particolare pregnanza nell’ambito dell’accertamento della colpa organizzativa.

15.1.1 Tanto premesso in linea generale, occorre osservare che il motivo di gravame coglie nel segno, laddove lamenta che la sussistenza del suddetto elemento, neppure contestato nella imputazione, non risulta logicamente argomentato.

Il primo profilo di criticità riguarda la sottovalutazione della certificazione del modello organizzativo.

La società COSMI) SUD aveva adottato un modello di organizzazione basato sullo standard BS OHSAS 18001: 2007, certificato il 24 febbraio 2011 da SGS Italia. La circostanza, pur non determinando automaticamente l’esenzione da responsabilità, doveva essere oggetto di una valutazione più approfondita alla luce della presunzione di conformità di cui all’art. 30, comma 5, del D.Lgs. 81/2008. La motivazione supera la rilevanza della certificazione con l’affermazione che “poco conta in questo contesto che il modello di organizzazione fosse basato sullo standard BS OHSAS 18001:2007 e fosse stato certificato”, dimostrando di non aver colto la portata della previsione . normativa in questione.

L’esistenza di un modello certificato secondo standard internazionali riconosciuti costituisce un elemento che deve essere superato da una compiuta dimostrazione dell’inadeguatezza sostanziale del sistema organizzativo adottato. Il secondo errore metodologico della motivazione risiede nella critica rivolta alle procedure di sicurezza PS 4.3.1. e 4.2.4, definite in termini di genericità o di mero monito.

Il nucleo del ragionamento contenuto nella sentenza è racchiuso nella seguente breve locuzione (a pag. 154, ultimo capoverso): “esse effettivamente hanno la formulazione letterale di mero monito (“nessun lavoratore si dovrà mai trovare a svolgere un lavoro che non sia stato oggetto di valutazione dei rischi… controllare qualsiasi cambiamento che può avere effetti o impatti sui pericoli e rischi per la salute “) e non contengono alcuna indicazione su come tali aspetti devono essere controllati “.

In realtà, il modello di organizzazione e gestione, per sua natura e struttura, non può e non deve scendere nel dettaglio operativo specifico, ma deve limitarsi a delineare i principi, le procedure generali e i flussi informativi necessari per prevenire la commissione di reati. La specificità operativa è demandata ai documenti di valutazione dei rischi, alle istruzioni operative e alle procedure tecniche di dettaglio, che costituiscono strumenti distinti e complementari rispetto al modello organizzativo.

Il modello organizzativo ex D.Lgs. 231/2001 ha una funzione di governance e di controllo dei processi decisionali, non di dettaglio tecnico-operativo. Le procedure ivi contenute devono necessariamente avere un carattere generale e sistematico, poiché la loro funzione è quella di assicurare che le decisioni operative vengano assunte secondo criteri di legalità e nel rispetto dei flussi informativi e di controllo predefiniti.

La critica mossa al modello per la loro formulazione “generica” equivale, quindi, a rimproverare al modello organizzativo di avere quella caratteristica che ne costituisce l’essenza e la ragion d’essere. Un modello organizzativo che scendesse nel dettaglio tecnico-operativo specifico non solo eccederebbe le proprie funzioni, ma risulterebbe inadeguato proprio sotto il profilo sistematico e organizzativo. La decisione oggetto di impugnazione va pertanto annullata, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello, per nuovo giudizio sul punto.

15.2 La seconda censura, vertente sulle eccezioni relative all’indeterminatezza del capo di imputazione e alla difformità tra fatto contestato e fatto accertato, è infondata.

La società Com. Sud Srl ha dedotto che l’imputazione sarebbe stata generica in quanto non avrebbe specificato quale fosse la “colpa in organizzazione” contestata all’ente ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001, limitandosi a formule generiche prive del necessario grado di determinatezza. Nell’affrontare tali eccezioni, i giudici di appello hanno appropriatamente richiamato i I consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di determinatezza dell’imputazione penale.

È stato correttamente evidenziato l’orientamento della Suprema Corte secondo cui “non sussiste alcuna incertezza sull’imputazione, quando questa contenga, con adeguata specificità, i tratti essenziali del fatto di reato contestato in modo da consentire un completo contraddittorio ed il pieno esercizio del diritto di difesa; la contestazione, inoltre, non va riferita soltanto al capo di imputazione in senso stretto, ma anche a tutti quegli atti che, inseriti nel fascicolo processuale, pongono l’imputato in condizione di conoscere in modo ampio l’addebito” (Sez. 5, n. 16993 del 02/03/2020, Rv. 279090; Sez. 2, n. 36438 del 21/07/2015, Rv. 264772).

In particolare, è stato logicamente osservato che il principio di determinatezza dell’imputazione non richiede una specificazione minuziosa di ogni singolo elemento fattuale, essendo sufficiente che dall’insieme degli atti processuali emerga con chiarezza la condotta rimproverata all’imputato e le circostanze di fatto e di diritto su cui si fonda l’accusa. È stato giustamente osservato che gli elementi di fatto e di diritto sui quali si fondavano le contestazioni erano stati ampiamente illustrati negli atti di indagine e messi a disposizione delle difese, le quali avevano potuto esercitare pienamente il loro diritto al contraddittorio.

15.3 Il terzo motivo, concernente la mancata estromissione della parte civile, è stato già esaminato al punto 1.1 del considerato in diritto, cui si rinvia.

16. In conclusione, alla luce delle esposte ragioni, si impone pertanto, l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata nei confronti di Pe.An., perché il reato è estinto per morte dell’imputato. Va pronunciato altresì l’annullamento nei confronti di Ca.Ni., Gi.Ma., Mo.Ma., Ie.Sa., Fi.Ro., Ma.Sa. e Tu.Se., limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio per nuovo giudizio sul punto e per la regolamentazione fra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità; per costoro, al rigetto nel resto dei ricorsi, consegue la dichiarazione la irrevocabilità della sentenza in ordine all’affermazione della penale responsabilità.

La decisione va altresì annullata, con rinvio per nuovo giudizio, nei confronti di Ca.Be., Za.Fa. e Bio Raffineria di Gela Srl, S.G.S. Ser. Srl e Com. Sud A R. L., ed invece annullata senza rinvio, per non aver commesso il fatto, nei confronti di Be.Al. e Ag.Pa.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Pe.An., perché il reato è estinto per morte dell’imputato.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Ca.Ni., Gi.Ma., Mo.Ma., Ie.Sa., Fi.Ro., Ma.Sa. e Tu.Se. limitatamente al trattamento sanzionatorio e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte dì appello di Caltanissetta, cui demanda altresì la regolamentazione fra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità. Visto l’art. 624 c.p.p. dichiara la irrevocabilità della sentenza in ordine all’affermazione della penale responsabilità dei predetti imputati.

Annulla la medesima sentenza nei confronti di Ca.Be., Za.Fa. e della Bio Raffineria di Gela Srl con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Caltanissetta.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Be.Al. e Ag.Pa. per non aver commesso il fatto.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di S.G.S. Ser. Srl e Com. Sud A R.L. con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Caltanissetta.

Rigetta nel resto i ricorsi di Ca.Ni., Gi.Ma., Mo.Ma., Ie.Sa., Fi.Ro., Ma.Sa. e Tu.Se.

Così è deciso in Roma il 13 maggio 2025. 

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