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 Massime della sentenza

 

 

CORTE DI CASSAZIONE Civile Sez. III, 31/05/2006 (Ud. 13/03/2006), Sentenza n. 12995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


CORTE DI CASSAZIONE Penale,
Sez. III,  4/7/2006 (Ud 11/05/2006), Sentenza n. 22924

(Pres. G. Fiduccia, Rel. L. A. Scarano)

 

Omissis


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO


Con atto di citazione notificato in data 22 novembre 1993 la società Cafa coop. a r.l. proponeva opposizione avverso il decreto emesso dal Presidente del Tribunale di Bolzano in data 22 ottobre 1993 su richiesta della società 4 Emme Service s.p.a., con cui le si ingiungeva di pagare la complessiva somma di L. 71.054.900, oltre ad interessi al tasso annuo del 13% ed alle spese del procedimento, convenendo la detta società 4 Emme Service s.p.a. avanti al Tribunale di Bolzano, ove instava per la revoca del provvedimento monitorio con condanna della medesima al risarcimento dei danni sofferti in dipendenza del cedimento di una colonna e del conseguente abbassamento della copertura da quest'ultima montata al suo capannone per la vendita di frutta in Merano.


Radicatosi il contraddittorio, istruita la causa con acquisizione dell'accertamento tecnico preventivo a suo tempo esperito e della prodotta documentazione non ché con espletamento di C.T.U, con sentenza del 12 marzo 2002 il Tribunale di Bolzano, qualificato il rapporto intercorso tra le parti come contratto d'appalto e ritenuta ricorrere nel caso l'ipotesi di cui all'art. 1673 c.c., revocava l'opposto decreto ingiuntivo presidenziale e rigettava tutte le altre domande proposte dalle parti.


Interposto gravame dalla società Cafa coop. a r.l.,con sentenza del 10 gennaio 2005 la Corte d'Appello di Trento, movendo dall'accertata qualificazione del rapporto in termini di contratto d'appalto, esclusa l'ipotesi di cui all'art. 1673 c.c. ravvisata dal giudice di prime cure e ritenuta nel caso integrata la responsabilità della società appaltatrice 4 Emme Service s.p.a., in riforma dell'impugnata sentenza condannava quest'ultima al risarcimento dei danni in favore della Cafa coop. a r.l. nella misura di euro 147.412, 94, con interessi al tasso legale dal 4 novembre 1993 al saldo, oltre che alla rifusione delle spese del doppio grado di giudizio.


Avverso tale sentenza della corte di merito ricorre ora per cassazione la società 4 Emme Service s.p.a, sulla base di 5 motivi, illustrati da memoria.


Resiste con controricorso la Cafa coop. a r.l.


Con il 10 motivo di ricorso la società ricorrente denunzia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 163, 3° co. n. 2, e 164, 2° co., c.p.c. ( nella formulazione anteriore a quella introdotta dall'art. 9 L. n.
353 del 1990 ).


Lamenta avere la corte di merito erroneamente disatteso la nullità dell'atto di appello in quella sede dedotto in ragione dell'omessa indicazione dell'organo o ufficio di essa società appellata avente la rappresentanza in giudizio, la conseguente inammissibilità dell'impugnazione (comportante il passaggio in giudicato della sentenza di l° grado) non potendo nemmeno considerarsi sanata dalla sua costituzione in giudizio, avvenuta ben al di là della scadenza del termine per impugnare, atteso che l'art. 164, 2° co., c.p.c (nella previgente formulazione nel caso applicabile) faceva espressamente salvi i diritti quesiti anteriormente alla costituzione.


La doglianza è infondata.


Come questa Corte ha già avuto modo di affermare (v. Cass., 6/8/2003, n. 11900; Cass., 1°/8/2000, n.10089 ; Cass., 20/1271999, n. 14313) ed anche recente mente ribadire (v. Cass., 5/9/2005, n. 17771), non è necessaria la precisa indicazione del titolare dell'organo dell'ente convenuto in giudizio, bastando invero un'indicazione generica ed anche il solo riferimento al legale rappresentante pro tempore del medesimo (v. Cass., 4/8/1995, n. 8554), l'omessa o erronea indicazione dell'organo della persona giuridica convenuta che ne ha la rappresentanza in giudizio determinando la nullità dell'atto introduttivo solo ove si traduca in incertezza assoluta sull'identificazione della stessa, secondo l'apprezzamento del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità in presenza di congrua motivazione, risolvendosi negli altri casi in una mera irregolarità sanabile con la costituzione della parte convenuta, in persona del legale rappresentante (v. Cass., 6/8/2003, n. 11900).


Orbene, nessuna incertezza si è nel caso determinata in ordine all'identificazione della società Cafa Coop. a r.l. quale controparte della società 4 Emme Service s.p.a., come confermato dall'effettivo corso di svolgimento del giudizio de quo.


Con il 2° motivo di ricorso la società ricorrente denunzia violazione e/o falsa applicazione dell'art. 342, 1° co., c.p.c. (in relazione agli artt. 163, 3° co. nn. 3 e 4, e 346 c.p.c.).


Lamenta non essere al riguardo sufficiente, diversamente da quanto ritenuto dalla corte di merito, riproporre le istanze istruttorie ritenute superflue in prime cure, essendo viceversa necessario censurare il giudizio di esaustività dell'istruttoria a mezzo delle C.T.U. in via preventiva e nel corso del giudizio di 1° grado espletate. Consulenze tecniche ove, nel ritenersi «assai meno probabile» la causa generatrice del danno dedotta dalla Cafa Coop. a r.l., si era <<già tenuto conto di tutte le circostanze che dalle prove avversarie avrebbero dovuto emergere» nei termini esposti dal CTP, invero disattesi dal giudice di 1° grado che aveva condiviso quanto affermato dal CTU. Essendo in ogni caso necessario da parte della coop. Cafa allora appellante indicare specificamente quali conseguenze sarebbero scaturite dall'accettazione delle tesi del CTP diverse da quelle del CTU.


Deduce ulteriormente che la S.C., quale giudice anche del fatto nell'esaminare la denunziata violazione, può invero «agevolmente constatare la completezza delle indagini condotte dal primo C.T.U., sotto il profilo di un accurato e completo esame di tutte le tesi in campo, sicché non poteva l'appellante limitarsi ad una mera riproposizione di istanze istruttorie, senza dare all'appello un preciso contenuto di critica dell'iter valutativo contenuto (anche de relato) nella sentenza appellata>>.


Con il 3° motivo la società ricorrente denunzia violazione del divieto di domande nuove in appello art. 345 c.p.c. ); tardività e carenza di specificità del motivo (artt. 325, 342 c.p.c.); violazione del contraddittorio; violazione della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato ( art. 112 c.p.c. ).


Lamenta in particolare al riguardo la violazione del divieto dei nova, avendo la corte di merito pronunziato in ordine all'art. 1673 c.c. senza che vi fosse sul punto impugnazione, l'appello risultando invero in centrato -pur senza deduzione di motivi specifici-, sull'ammissione di prove dedotte in prime cure e sulla richiesta di nuova CTU.


I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati in quanto intrinsecamente connessi, sono infondati.


Va anzitutto premesso che il collegio ritiene di conformarsi, non condividendo il contrario avviso al riguardo recentemente espresso da altra sezione di questa Corte ( v. Cass., 22 febbraio 2005, n. 3538).

Nello stesso senso (v. peraltro già Cass., 14 luglio 1992, n.8503. V. anche Cass., 15 aprile 1994, n. 3549), al prevalente orientamento maturato in giurisprudenza di legittimità secondo cui allorquando viene, come nel caso, censurato il difetto dì specificità dei motivi d'impugnazione, risultando dedotto un error in procedendo è consentito al giudice di legittimità l'esame diretto degli atti, spettando alla Corte di Cassazione interpretare autonomamente l'atto di appello per accertare se al giudice di secondo grado sia stato devoluto l'esame del punto controverso (così Cass., Sez. Un., 29 gennaio 2000, n. 16. Conformemente v. Cass., 5 aprile 2005, n. 7055; Cass., 27 gennaio 2004, n. 1456; Cass., 20 agosto 2003, n. 12218; Cass., 24 luglio 2003, n. 11497; Cass., 27 febbraio 2001, n. 2908. E in tal senso v. gia Cass., 30 maggio 1983, n. 3712).


E' ben vero che il giudizio di appello è una revisio prioris instantiae (v. la citata Cass., Sez. Un., 29 gennaio 2000, n. 16, e successive conformi; Cass., 24 marzo 2000, n. 3539; Cass., 9 agosto 2000, n. 9867; Cass., 19 dicembre 2000, n. 15950; Cass., 23 marzo 2001, n. 4190; Cass., 7 maggio 2002, n. 6542; Cass., 28 maggio 2003, n. 8501; Cass., 8 agosto 2002, n. 11935; Cass., 12 agosto 2003, n. 12218; Cass., 28 novembre 2003, n. 18229), e non già un iudicium novum (secondo il più liberale orientamento che si ricollega alla definizione dell'appello come mezzo di impugnazione rivolto ad ottenere non il controllo della decisione di primo grado ma una nuova pronuncia sul diritto fatto valere con la domanda originaria, e considera l'enunciazione della censura come finalizzata alla delimitazione dell'ambito del riesame richiesto al giudice di appello, con conseguente attenuazione dell'onere della specificazione dei motivi, specialmente quando la sentenza di primo grado sia impugnata totalmente: (v.Cass., 16 maggio 1997, n. 4368; Cass., 21 gennaio 1987, n. 554; Cass., 21 gennaio 1987, n. 553) . E che la cognizione del giudice rimane circoscritta alle questioni dedotte dall'appellante attraverso l'enunciazione di specifici motivi (v. Cass., 28 novembre 2003, n. 18229), sicché l'inammissibilità del gravame da tale violazione derivante non è sanabile nemmeno per effetto del
l'attività difensiva spiegata nel corso del giudizio (v. Cass., Sez. un., 29 gennaio 2000, n. 16; Cass., 30 luglio 2001, n. 10401; Cass., 20 agosto 2003, n. 12218).


Condivisibile è altresì l'assunto secondo cui la specificità dei motivi esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell'appellante, dirette ad incrinare il fonda mento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che le sorreggono; ragion per cui, alla parte volitiva dell'appello, deve sempre accompagnarsi una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice (v. Cass., Sez. Un., 29 gennaio 2000, n. 16; Cass., 20 agosto 2003, n. 12218; Cass., 28 novembre 2003, n. 18229; Cass., 22 dicembre 2004, n. 23742; Cass., 29 ottobre 2004, n. 20987; Cass., 11 maggio 2004, n. 8926; Cass., 2 febbraio 2005, n. 2041).


Né può d'altro canto ritenersi sufficiente che l'atto d'appello consenta di individuare genericamente le statuizioni concretamente impugnate, non potendo condividersi l'interpretazione, invero recentemente sostenuta da altra sezione di questa Corte (v. Cass., 3 gennaio 2005, n. 21), secondo cui il requisito della "sommaria esposizione dei fatti" richiesto dall'art. 342 c.p.c. può intendersi soddisfatto anche <<dal complesso delle argomentazioni svolte a sostegno dei motivi di appello».


E' tuttavia indubbio che, non potendo essere stabilito in termini generali ed assoluti (v. Cass., 23 ottobre 2003, n. 15936; Cass., 6 aprile 2004, n. 6761;Cass., 12 agosto 1997, n. 7524), il grado di specificità dei motivi va valutato in correlazione con il tenore della motivazione della sentenza impugnata (v. Cass., 29 ottobre 2004, n. 20987; Cass., 23 ottobre 2003, n. 15936; Cass., 15 aprile 1998, n. 3805; Cass., 10 settembre 1997, n. 8297; Cass., 23 luglio 1997, n. 6893; Cass., 21 febbraio 1997, n. 1599; Cass., 30 maggio 1995, n. 6066; Cass., Sez. Un., 6 giugno 1987, n.4991), e deve considerarsi integrato quando alle argomentazioni ivi contemplate vengono contrapposte quelle dell'appellato in modo da incrinarne il relativo fondamento logico-giuridico, come nell'ipotesi in cui, pur non procedendo all'esplicito esame dei passaggi argomentativi della sentenza, l'appellante svolga i motivi di impugnazione in termini incompatibili con la complessiva argomentazione della decisione impugnata, in tal caso l'esame dei singoli passaggi argomentativi risultando in effetti inutile (v. Cass., 10 maggio 2005, n. 9793; Cass., 6 aprile 2004, n. 6761; Cass. 23 ottobre 2003, n. 15936).


In particolare, la specificità dei motivi di appello di cui all'art. 342 c.p.c. deve essere valutata in base all'imprescindibile raffronto tra le ragioni della doglianza, esposte nell'atto introduttivo del giudizio di secondo grado, e quelle che nella sentenza sorreggono il punto oggetto dell'impugnazione.


E' pertanto inammissibile l'appello con cui la parte non prenda in esame la motivazione della sentenza impugnata e non ne fornisca adeguata critica (v. Cass., 28 novembre 2003, n. 12218; Cass., 21 aprile 1994, n. 3809; Cass., Sez. Un., 6 giugno 1987, n. 4991).


Né soddisfa il requisito di specificità l'atto d'appello che si basi sul mero rinvio alle argomentazioni svolte nel precedente grado di giudizio (v. Cass., 13 settembre 2004, n. 18353), non essendo ammissibile nemmeno il mero rinvio all'esposizione delle argomentazioni ad un momento successivo del giudizio o addirittura alla comparsa conclusionale (v. Cass., Sez. Un., 29 gennaio 2000, n. 16; Cass., 30 luglio 2001, n. 10401; Cass., 20 agosto 2003, n. 12218).


Può al riguardo risultare peraltro sufficiente anche la specifica riproposizione delle stesse difese già disattese dal giudice di prime cure (v. Cass., 7 giugno 2005, n. 11781).


In conclusione, l'indicazione dei motivi di appello richiesta dall'art. 342 c.p.c. (e nel rito del lavoro dall'art. 434 c.p.c.) non deve necessariamente consistere in una rigorosa e formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell'appello, richiedendosi un'esposizione chiara ed univoca, anche se sommaria, sia della domanda rivolta al giudice del gravame sia delle ragioni della doglianza, all'interno della quale i motivi di gravame, per risultare idonei a contrastare la motivazione della sentenza impugnata, devono essere più o meno articolati, a seconda della maggiore o minore specificità nel caso concreto della medesima ( v. Cass., 1° aprile 2004, n. 6403 ), potendo sostanziarsi pure nelle stesse argomentazioni addotte a suffragio della domanda disattesa dal primo giudice v. Cass., 22 dicembre 2004, n. 23742 ).


Nel caso in esame, nell'accogliere la domanda formulata dall'odierna controricorrente cooperativa Cafa, il giudice di prime cure, nel revocare il decreto ingiuntivo opposto emesso su richiesta della odierna ricorrente soc. 4 Emme, e nel qualificare il contratto de quo (con decisione non impugnata sul punto) come contratto di «<appalto d'opera, e più precisamente, "appalto di modificazione"», è invero pervenuto alla decisione di fare applicazione dell'art. 1673 c.c., a tale stregua rigettando (tra l'altro) la domanda di risarcimento dei danni proposta dalla cooperativa Cafa.


Nell'interposto atto di gravame quest'ultima, come invero espressamente e correttamente indicato dalla corte di merito nel rigettare l'eccezione ex art. 342 c.p.c. dalla soc. 4 Emme già avanti ad essa sollevata, ha sostanzialmente contestato tale conclusione, dal Tribunale di Bolzano assunta (oltre che disattendendo altre istanze istruttorie) aderendo alle risultanze della disposta c.t.u., là dove ha addotto che le stesse erano state dal giudice valutate in modo tale da non poter individuare la vera causa del crollo e pervenire alla (auspicata) pronunzia in termini di responsabilità della società appaltatrice per l'accaduto con conseguente condanna della medesima al risarcimento dei danni.


Nell'atto di appello risulta altresì espressamente affermato che «la relazione del consulente tecnico d'ufficio avrebbe sicuramente avuto un contenuto diverso se fossero state assunte le prove orali a conferma delle perizie tecniche prodotte», nel qual caso «il consulente tecnico d'ufficio avrebbe potuto prendere in considerazione l'intero andamento dei lavori d'innalzamento».


Ancora, si lamenta avere il c.t.u. [[completamente disatteso il fatto che durante i lavori d'innalzamento eseguiti dai tecnici della 4 Emme Service SpA sono sorti problemi e vizi e sono state addirittura constatate crepe nel terreno ove si trovava la colonna in questione>>.


Si perviene infine a richiedere -come già in primo grado- la rinnovazione della c.t.u. (istanza dal giudice del gravame poi accolta).


Orbene, ponendosi debitamente in correlazione il passo della motivazione della sentenza di primo grado dedicato all'argomento con le suindicate censure, al di là di una certa genericità di formulazione delle medesime emerge invero evidente il tenore di contrapposizione e doglianza in termini di relativa incompatibilità con la complessiva argomentazione della decisione impugnata, ed altresì il carattere di sufficiente specificità là dove viene criticato lo snodo motivazionale ove il giudice di primo grado afferma di non poter ravvisare la [[responsabilità per quanto successo il giorno 19.4.1993 in capo all'opposta» e che <<le pretese risarcitorie dell'opponente Cafa risultano destituite di fondamento».


Discende da quanto sopra l'infondatezza della censura anche sotto il profilo della sostanzialmente dedotta violazione dell'art. 345 c.p.c, atteso che l'applicabilità nella specie dell'art. 1673 c.c. affermata dal giudice di prime cure risulta censurata laddove nel motivo d'impugnazione di merito ci si duole del mancato accoglimento della domanda di responsabilità della controparte. Con conseguente condanna al risarcimento dei danni.


Con il 4° motivo la società ricorrente denunzia [[violazione della L. 5 novembre 1971, n. 1086 (recante "Norme per la disciplina delle opere di conglomerato cementizio armato normale e precompresso ed a struttura metallica) e del D.M. attuativo 16 giugno 1976 (recante "Norme tecniche per la esecuzione delle opere in cemento armato normale e precompresso e per le strutture metalliche"), e successivi. Contraddittorietà, il logicità della motivazione su un punto decisivo della controversia».


Lamenta che la corte d'appello abbia fatto propria la causa del sinistro (l'anomalia del vuoto nella con formazione del terreno sotto la colonna n. 15) indicata dal giudice di 1° grado (sulla base delle esperite c.t.u.), erroneamente attribuendogliene la relativa responsabilità ed affermando che avrebbe dovuto, nella sua qualità di appaltatrice, farsi carico di una progettazione idonea ad impedire i rischi connessi «<ad un non perfetto adagiarsi della pavimentazione al terreno sottostante, o al cedimento di un puntello», nonché espletare le operazioni di sollevamento in modo più attento ed accurato al fine di consentire di ovviare ad eventuali difficoltà.


Si duole non avere la corte d'appello a tale stregua considerato che le norme di cui alla L. 5 novembre 1971, n. 1086 e al D.M. attuativo 16 giugno 1976, indicano nel c.d. "coefficiente di sicurezza" l'unico criterio previsto e disciplinato al fine di tenere conto di imprevisti in sede di progettazione. Senza considerare che la causa del sinistro de quo risiede non già in un cedimento o in una pavimentazione non perfettamente adagiata sul terreno bensì nella presenza di un'insidia costituita dalla presenza di un vuoto nel terreno sotto la colonna n. 15, ove un laterizio residuato da precedenti lavorazioni aveva impedito un omogeneo distribuirsi del terreno.


Sostiene che non fosse nel caso «esigibile» l'osservanza di una cautela maggiore di quella da essa prestata, giacché la suddetta anomalia rivestiva il carattere della imprevedibilità. Altresì sottolineando
che «neppure la Corte si spinge ad affermare l'esigenza, quale attività preparatoria del sollevamento della copertura di un capannone, di un preventivo "scandaglio" del terreno, onde escludere la presenza di situazioni anomale nello stesso che possano pregiudicare la riuscita dell'operazione>.


<<Né si vede» aggiunge ulteriormente, «come la Corte avrebbe potuto affermare un simile principio, che dovrebbe allora applicarsi ovunque vi sia in gioco la statica delle costruzioni>>. Del resto «anche lì, ove è usuale ricorrere a indagini geognostiche, non si "scandaglia" un terreno, ma si praticano alcune perforazioni che diano conto delle "caratteristiche" dello stesso; anche in quei casi, cioè, non si va alla "ricerca" di "eventuali anomalie" determinate dal fortuito o dal fatto di terzi, ma si verifica l'idoneità del terreno, analizzandone ubicazione, conformazione, composizione, qualità chimico-fisiche, a fungere da sedime di costruzioni>>.


Illogica è, sostiene ancora, pure la rilevanza assegnata dalla corte di merito ad alcune circoscritte fessurazioni nella pavimentazione, in quanto irrilevanti agli effetti di una eventuale deformazione del calcestruzzo.


Del tutto ultroneo, deduce infine, è l'operato riferimento alle indicazioni emergenti dal proprio sito Internet, anche in considerazione del fatto che l'esperienza a tale stregua accreditatale ridonda a conforto dell'imprevedibilità dell'insidia del terreno.


Il motivo è infondato.


In tema di contratto di appalto, l'appaltatore è tenuto a realizzare l'opera a regola d'arte, osservando nell'esecuzione della prestazione la diligenza qualificata ai sensi dell'art. 1176, 2° co., c.c., quale modello astratto di condotta che si estrinseca (sia esso professionista o imprenditore) nell'adeguato sforzo tecnico, con impiego delle energie e dei mezzi normalmente ed obiettivamente necessari od utili, in relazione alla natura dell'attività esercitata, volto all'adempimento della prestazione dovuta ed al soddisfacimento dell'interesse creditorio, nonché ad evitare possibili eventi dannosi.


Anche laddove si attiene alle previsioni del progetto altrui, come nel caso in cui il committente abbia predisposto il progetto e fornito indicazioni sulla relativa realizzazione, l'appaltatore può comunque essere ritenuto responsabile per i vizi dell'opera qualora non abbia, nel fedelmente eseguire il progetto e le indicazioni ricevute, al primo segnalato eventuali carenze ed errori. Mentre va esente da responsabilità laddove il committente, pur reso edotto delle carenze e degli errori, gli richieda di dare egualmente esecuzione al progetto o gli ribadisca le indicazioni, in tale ipotesi risultando l'appaltatore ridotto a mero nudus minister ( cfr., da ultimo, Cass., 12/4/2005, n. 7515; Cass., 30/5/2003, n. 8813; Cass., 2/8/2001, n. 10550; Cass., 26/7/1999, n. 8075 ).

La responsabilità dell'appaltatore è pertanto da escludere solo nell'ipotesi ( nella specie invero non verificatasi ) in cui risulti costituire passivo strumento nelle mani del committente, direttamente e totalmente condizionato dalle istruzioni ricevute senza possibilità di iniziativa o vaglio critico. In ogni altro caso la prestazione dovuta dall'appaltatore viceversa implicando, come detto, anche il controllo e la correzione degli eventuali errori del progetto (v. Cass., 2/8/2001, n. 10550; Cass., 12/5/2000, n. 6088).


Con specifico riferimento all'attività di costruzione di opere edilizie, si è in giurisprudenza di legittimità in particolare affermato che in mancanza di diversa previsione contrattuale l'indagine sulla natura e consistenza del suolo edificatorio rientra propriamente tra i compiti dell'appaltatore (v. Cass., 16/11/1993, n. 11290; Cass., 18/3/1987, n. 2725), trattandosi di indagine, implicante una attività conoscitiva da svolgersi con l'uso di particolari mezzi tecnici, che al medesimo appaltatore -quale soggetto obbligato a realizzare l'opera commessagli- spetta assolvere mettendo a disposizione la propria organizzazione ( v. Cass., 7/9/2000, n. 11783 ).


Lo specifico settore di competenza in cui rientra l'attività esercitata richiede infatti la specifica conoscenza ed applicazione delle cognizioni tecniche che sono tipiche dell'attività necessaria per l'esecuzione dell'opera, onde si configura come onere dell'appaltatore predisporre un'organizzazione della sua impresa che assicuri la presenza di tali competenze per poter adempiere l'obbligazione di eseguire l'opera immune da vizi e difformità ( artt. 1667, 1668, 1669 c.c.) (cfr.Cass., 23/9/1996, n. 8395).


L'indagine sulla natura e consistenza dei suolo edificatorio rientra anch'essa tra gli obblighi del l'appaltatore, in quanto l'esecuzione a regola d'arte di una costruzione dipende dall'adeguatezza del progetto alle caratteristiche geologiche del terreno su cui devono essere poste le relative fondazioni. E poiché la validità di un progetto di una costruzione edilizia é condizionata dalla sua rispondenza alle caratteristiche geologiche del suolo su cui essa deve sorgere, il controllo da parte dell'appaltatore va esteso anche in ordine a tale aspetto.


Ne consegue che l'appaltatore risponde per i difetti della costruzione derivanti (pure) da vizi ed inidoneità del suolo (v. Cass., 18/4/2002, n. 5632; Cass., 29/1/2002, n. 1154; Cass., 7/9/2000, n. 11783; Cass., 16/11/1993, n. 11290; Cass., 27/4/1993, n. 4921), anche laddove gli stessi siano ascrivibili alla imperfetta od erronea progettazione fornitagli dal committente, in tal caso prospettandosi l'ipotesi della responsabilità solidale con il progettista, a sua volta responsabile nei confronti del committente per inadempimento del contratto d'opera professionale ex art. 2235 c.c. (cfr. Cass., 23/9/1996, n. 8395).


Come in giurisprudenza di legittimità già posto in rilievo i limiti di tale responsabilità sono invero quelli generali in tema di responsabilità contrattuale, presupponendo questa l'esistenza della colpa lieve del debitore, e cioè il difetto dell'ordinaria diligenza. Si è al riguardo in qualche occasione altresì precisato che solo laddove nel caso concreto le condizioni geologiche non risultino accertabili con l'ausilio di strumenti, conoscenze e procedure "normali", l'appaltatore potrebbe andare esente da responsabilità per vizi e difformità della costruzione dipendenti dalla mancata o insufficiente considerazione dì quelle condizioni (v. Cass., 23/9/1996, n. 8395).


Al riguardo va peraltro precisato che la detta normalità va invero valutata avuto riguardo alla diligenza media richiesta, ai sensi dell'art. 1176, 2° co., c.c., dalla specifica natura e dalle peculiarità dell'attività esercitata (cfr. Cass., 20/7/2005, n.15255; Cass., 8/2/2005, n. 2538; Cass., 22/10/2003, n.15789; Cass., 28/11/2001, n. 15124; Cass., 21/6/1983, n. 4245).

L'appaltatore è infatti tenuto a mantenere il comportamento diligente dovuto per la realizzazione dell'opera commessagli, dovendo adottare tutte le misure e le cautele necessarie ed idonee per l'esecuzione della prestazione, secondo il modello di precisione e di abilità tecnica nel caso concreto richiesto idoneo a soddisfare l'interesse creditorio.


La diligenza si specifica invero, come posto in rilievo in dottrina, nei profili della cura, della cautela, della perizia e della legalità.


Quest'ultima in particolare consiste -sotto l'aspetto dell'integrità materiale- nella mancanza di vizi e nell'idoneità dell'opera all'uso.


La perizia si sostanzia invece nell'impiego delle abilità e delle appropriate nozioni tecniche peculiari dell'attività esercitata, con l'uso degli strumenti normalmente adeguati; ossia con l'uso degli strumenti comunemente impiegati, in relazione all'assunta obbligazione, nel tipo di attività professionale o imprenditoriale in cui rientra la prestazione dovuta.


Con specifico riguardo all'obbligazione dell'appaltatore, ai fini della verifica della esecuzione a regola d'arte dell'opera l'esattezza della prestazione deve essere allora verificata alla stregua dell'adeguato sforzo diligente tecnico, e dei risultati che normalmente si realizzano con l'impiego di tale sforzo.


Trattandosi di opere edilizie da eseguirsi su strutture o basamenti preesistenti o preparati dal committente o da terzi, l'appaltatore o il prestatore d'opera incaricato viola in particolare il dovere di diligenza stabilito dall'art. 1176 c.c. se non verifica, nei limiti delle comuni regole dell'arte, l'idoneità delle anzidette strutture a reggere l'ulteriore opera commessagli, e ad assicurare la buona riuscita della medesima, ovvero se, accertata l'inidoneità di tali strutture, procede egualmente all'esecuzione dell'opera (v. Cass., 9/2/2000, n. 1449; Cass., 18/3/1980, n.1781. Cfr. altresì Cass., 22/6/1994, n. 5981, Cass., 11/1/1989, n. 80; Cass., 7/4/1987, n. 3356; Cass., 25/7/1984, n. 4352; Cass., 20/1/1982, n. 3717).


Anche l'ipotesi della imprevedibilità di difficoltà di esecuzione dell'opera manifestatesi in corso d'opera derivanti da cause geologiche, idriche e simili, specificamente presa in considerazione in tema di appalto dall'art. 1664, 2° co., c.c. e legittimante se del caso il diritto ad un equo compenso in ragione della maggiore onerosità della prestazione, va in effetti valutata, si è sottolineato in giurisprudenza di legittimità, sulla base della diligenza media in relazione al tipo di attività esercitata (v. Cass., 23/11/1999, n. 12989).


Né si è mancato di sottolineare che ove l'appaltatore svolga anche i compiti di ingegnere progettista e di direttore dei lavori, l'obbligo di diligenza è ancora più rigoroso, essendo egli tenuto, in presenza di situazioni rivelatrici di possibili fattori di rischio, ad eseguire gli opportuni interventi per accertarne la causa ed apprestare i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell'opera senza difetti costruttivi (v. Cass., 18/4/2002, n. 5632).


La maggiore specificazione del contenuto dell'obbligazione non esclude infatti, come posto in rilievo in dottrina, la rilevanza della diligenza come criterio determinativo della prestazione per quanto attiene agli aspetti dell'adempimento.


I suindicati principi, applicabili anche con riferimento al caso in esame ed al tipo di attività posta in essere dall'impresa odierna ricorrente, risultano essere stati invero correttamente applicati dalla corte di merito che, movendo dall'accertata ( su di essa essendosi formato il giudicato ) qualificazione del rapporto che ne occupa in termini di appalto, correttamente ha escluso ricorrere nel caso l'ipotesi di cui all'art. 1673 c.c., ponendo al riguardo in rilievo come l'imponderabilità della accertata causa dell'evento dannoso ravvisata dal giudice di prime cure risulta in vero smentita anzitutto dal fatto che «la copertura del capannone è stata eretta da altra ditta, con il sistema originariamente previsto, con piena soddisfazione di entrambe le parti» per la relativa riuscita dal punto di vista tecnico.


Nell'impugnata sentenza risulta altresì espressamente sottolineato che la società appaltatrice ha operato addirittura sulla base di «un progetto basato su un prototipo» fatto <in collaborazione» con il professionista, il quale aveva elaborato l'opera, prevedente «oltre ad altri lavori, il sollevamento della copertura con struttura in acciaio di circa 3 metri per la realizzazione di un solaio intermedio a quota 4.50 metri per il deposito degli imballaggi>›, nonché richiedente «varie opere di preparazione e consolidamento ed opere di rinforzo», e consistente «nel sollevamento del tetto con impianto di 22 martelletti idraulici spingenti con comando a controllo elettronico centralizzato>>.


Viene altresì espressamente indicato come la società appaltatrice odierna ricorrente, dalla committente scelta in ragione della particolare esperienza e specializzazione nel settore nonché in quanto «depositarla della tecnologia avanzata per sollevare il tetto del capannone>›, fosse contrattualmente tenuta alla predisposizione dei martinetti e «al collegamento con l'unità oleodinamica»»; nonché alla «predisposizione dei sensori di controllo del movimento verticale»; al «sollevamento di un primo gradino gradino per circa un metro»; al « controlo costante e computerizzato di tutti i venti punti di sollevamento per carico massimo di tredici tonnellate a punto», con «monitoraggio continuo» della «complessa operazione di sollevamento del tetto» in oggetto («anche perché valutato a parte nel computo metrico estimativo e quindi opera specificamente promessa dalla quattro emme alla cafa>»).


Nell'impugnata sentenza si afferma essere rimasto del pari pacificamente accertato che ( benché il «monitoraggio a distanza» costituisse «uno dei punti di forza della quattro emme» ) nell'occasione invero «il promesso controllo continuo su punti di sollevamento non vi é stato», giacché «vi furono diversi momenti in cui sul posto non vi era nemmeno un rappresentante o dipendente della 4 emme» né «alcuno strumento che monitorava, anche in assenza di dipendenti e rappresentanti della quattro emme>>.


Né la società appaltatrice, che nel caso pacificamente non ha agito quale nudus minister e che «avrebbe potuto e dovuto accorgersi per tempo che qualcosa non andava», aveva invero preparato «alcun calcolo di emergenza», per l'ipotesi che «uno dei punti di appoggio per qualsiasi motivo fosse venuto a mancare>>.


A tale stregua le specifiche e particolari norme di settore evocate dai ricorrenti (la L. 5 novembre 1971, n. 1086 ed il relativo regolamento di attuazione D.M. 16 giugno 1976) non solo non possono ritenersi valere a ridurre o limitare la responsabilità dell'appaltatore, come dall'odierna ricorrente viceversa sostenuto ( in particolare là dove allega non avere la corte di merito tenuto conto che «<le disposizioni richieste ... le quali stabiliscono in via cogente e senza lasciar spazio a discrezionalità, criteri e modalità per progetti «c.d."coefficienti in sicurezza», e che i <<l'unico criterio previsto e disciplinato per tenere conto, a livello di progettazione, di imprevisti» ), ma esse vanno per converso intese nel senso che la relativa inosservanza viene a ridondare in termini di colpa grave dell'appaltatore [ cfr. Cass., 27/4/1993, n. 4921, ove, con riferimento alle norme contenute nella circolare del Ministero LL.PP. n. 3797 del 6 novembre 1967, si è affermato fare carico al direttore dei lavori verificare la rispondenza dello stato effettivo dei luoghi a quello descritto in progetto e, se appare necessario, eseguire saggi sui terreni di fondazione per prendere esatta cognizione dei suoli medesimi.

Ciò in quanto, ancorché dettate per gli appalti di opere pubbliche, tali disposizioni riflettono regole generali di comune prudenza, sicché la loro inosservanza integra una colpa grave che comporta la responsabilità (nel caso, del direttore dei lavori) nei confronti del committente ai sensi degli artt. 1176 e 2236 c.c. 1. La mancata rilevazione della «presenza di un blocco di laterizio residuato da precedenti lavorazioni>›, che aveva impedito «un omogeneo distribursi dei terreno», e che è rimasto nel caso accertato aver causato un «vuoto nei terreno sotto la colonna n. 15>» nel quale quest'ultima è, all'esito della perforazione della pavimentazione in calcestruzzo <<sprofondata» per per circa 25 cm., correttamente è stata dunque nell'impugnata sentenza ritenuta integrare l'inadempimento contrattuale della società appaltatrice odierna ricorrente, con conseguente affermazione della relativa responsabilità.


Con il 5° motivo di ricorso la società ricorrente denunzia, in via di subordine, «mancanza rispettivamente insufficienza della motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia>>.


Lamenta avere la corte di merito erroneamente «accertato il quantum risarcitorio di competenza di Cafa, sommando al danno emergente ( spese di ripristino di elementi della copertura danneggiati nel brusco abbassamento, maggiori spese, di sollevamento, costo del sostegno provvisorio, ecc. ) il danno indiretto, ossia l'asserito maggior costo di lavorazione della frutta con l'impianto vecchio...».


Deduce la mancanza di <<qualsiasi prova» al riguardo, in particolare in ordine all' «efficienza causale di quella temporanea inagibilità del capannone per fini produttivi», la mancanza cioè di prova del nesso causale tra l'evento e la temporanea inagibilità di fatto ( dal maggio al luglio del 1994 ) dei locali in questione, mancando all'epoca le licenze ed i permessi abilitanti all'uso dei locali secondo la destinazione produttiva emessi invero solamente il 15 gennaio 1997, data fino alla quale i medesimi non avrebbero potuto essere quindi utilizzati.


Si duole che sul «punto la sentenza è del tutto priva di motivazione».


Il motivo è infondato.


Osservato anzitutto che nel caso la rilevanza giuridica della licenza o concessione edilizia si esaurisce invero nell'ambito del rapporto pubblicistico tra pubblica amministrazione e privato ( richiedente o costruttore ), senza estendersi ai rapporti tra le parti del contratto in esame, con specifico riferimento al quantum del risarcimento liquidato va rilevato che nell'impugnata sentenza risulta offerta specifica e congrua motivazione in proposito ( p. 18 ), facendosi in particolare richiamo agli accertamenti peritali, e ponendosi in evidenza come gli stessi non siano stati in sede di appello nemmeno censurati sotto il profilo del «criterio seguito?>.


Deve allora al riguardo ribadirsi che il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c. si configura solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire la identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione.


La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce infatti al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge).


Ne deriva che alla cassazione della sentenza per vizi della motivazione può giungersi solamente quando tale vizio emerga dall'esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, che si rilevi incompleto, incoerente o illogico, e non già quando il giudice del merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore ed un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (v. da ultimo v. Cass., 20/3/2006, n. 6091; Cass., 20/10/2005, n. 20322; Cass. n. 8718 del 2005; Cass., 25/2/2004, n. 2803; Cass. 21 marzo 2001, n.4025; Cass., 8/8/2000, n. 10417; Cass., 8/8/2000, n.10414; Cass., Sez. Un., 11 giugno 1998, n. 5802; Cass., 22 dicembre 1997, n. 12960).


All'infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.


Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.


P.Q.M.


La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida in euro 20.100, di cui euro 20.000 per onorari, oltre a spese generali ed accessori come per legge.


Così deciso in Roma, 15/3/2006

M A S S I M E

 Sentenza per esteso

 

1) Appalto privato - Urbanistica e edilizia - Costruzione di opere edilizie - Accertamenti geologici - Difetti della costruzione derivanti da vizi ed inidoneità del suolo - Responsabilità dell'appaltatore - Responsabilità solidale con il progettista. Ai fini della costruzione di opere edilizie l'indagine sulla natura e consistenza del suolo edificatorio rientra, in mancanza di diversa previsione contrattuale, tra i compiti dell'appaltatore, trattandosi di indagine -implicante attività conoscitiva da svolgersi con l'uso di particolari mezzi tecnici- che al medesimo, quale soggetto obbligato, ai sensi dell’art. 1176, 2° co., c.c. a mantenere il comportamente diligente dovuto per la realizzazione dell'opera commessagli con conseguente obbligo di adottare tutte le misure e le cautele necessarie ed idonee per l'esecuzione della prestazione secondo il modello di precisione e di abilità tecnica nel caso concreto idoneo a soddisfare l'interesse creditorio, spetta assolvere mettendo a disposizione la propria organizzazione, atteso che lo specifico settore di competenza in cui rientra l'attività esercitata richiede la specifica conoscenza ed applicazione delle cognizioni tecniche che sono tipiche dell'attività necessaria per l'esecuzione dell'opera, sicché è onere del medesimo predisporre un'organizzazione della propria impresa che assicuri la presenza di tali competenze per poter adempiere l'obbligazione di eseguire l'opera immune da vizi e difformità. Ed atteso che l'esecuzione a regola d'arte di una costruzione dipende dall'adeguatezza del progetto alle caratteristiche geologiche del terreno su cui devono essere poste le relative fondazioni, e la validità di un progetto di una costruzione edilizia è condizionata dalla sua rispondenza alle caratteristiche geologiche del suolo su cui essa deve sorgere, il controllo da parte dell'appaltatore va esteso anche in ordine alla natura e consistenza del suolo edificatorio. Ne consegue che per i difetti della costruzione derivanti da vizi ed inidoneità del suolo - anche quando gli stessi sono ascrivibili alla imperfetta od erronea progettazione fornitagli dal committente- l'appaltatore risponde (in tal caso prospettandosi l'ipotesi della responsabilità solidale con il progettista, a sua volta responsabile nei confronti del committente per inadempimento del contratto d'opera professionale ex art. 2235 c.c.) nei limiti generali in tema di responsabilità contrattuale della colpa lieve, presupponente il difetto dell'ordinaria diligenza, potendo andare esente da responsabilità solamente laddove nel caso concreto le condizioni geologiche non risultino accertabili con l'ausilio di strumenti, conoscenze e procedure "normali" avuto riguardo alla specifica natura e alle peculiarità dell'attività esercitata. Presidente G. Fiduccia, Relatore L. A. Scarano. CORTE DI CASSAZIONE Civile Sez. III, 31/05/2006 (Ud. 13/03/2006), Sentenza n. 12995


2) Appalti - Limiti delle comuni regole dell'arte - Imprevedibilità di difficoltà di esecuzione dell'opera - Cause geologiche, idriche e simili - Committente - Diritto ad un equo compenso - Sussiste - Limiti. Nei casi di opere edilizie da eseguirsi su strutture o basamenti preesistenti o preparati dal committente o da terzi, l'appaltatore o il prestatore d'opera incaricato viola in particolare il dovere di diligenza stabilito dall'art. 1176 c.c. se non verifica, nei limiti delle comuni regole dell'arte, l'idoneità delle anzidette strutture a reggere l'ulteriore opera commessagli, e ad assicurare la buona riuscita della medesima, ovvero se, accertata l'inidoneità di tali strutture, procede egualmente all'esecuzione dell'opera (v. Cass., 9/2/2000, n. 1449; Cass., 18/3/1980, n.1781. Cfr. altresì Cass., 22/6/1994, n. 5981, Cass., 11/1/1989, n. 80; Cass., 7/4/1987, n. 3356; Cass., 25/7/1984, n. 4352; Cass., 20/1/1982, n. 3717). Nella specie, anche l'ipotesi della imprevedibilità di difficoltà di esecuzione dell'opera manifestatesi in corso d'opera derivanti da cause geologiche, idriche e simili, specificamente presa in considerazione in tema di appalto dall'art. 1664, 2° co., c.c. e legittimante se del caso il diritto ad un equo compenso in ragione della maggiore onerosità della prestazione, va in effetti valutata, sulla base della diligenza media in relazione al tipo di attività esercitata (v. Cass., 23/11/1999, n. 12989). Presidente G. Fiduccia, Relatore L. A. Scarano. CORTE DI CASSAZIONE Civile Sez. III, 31/05/2006 (Ud. 13/03/2006), Sentenza n. 12995

3) Procedura e varie - Giudice di legittimità - Difetto dì specificità dei motivi d'impugnazione - Esame diretto degli atti - Indicazione dei motivi di appello - Giurisprudenza. In giurisprudenza di legittimità allorquando viene, censurato il difetto dì specificità dei motivi d'impugnazione, risultando dedotto un error in procedendo è consentito al giudice di legittimità l'esame diretto degli atti, spettando alla Corte di Cassazione interpretare autonomamente l'atto di appello per accertare se al giudice di secondo grado sia stato devoluto l'esame del punto controverso (così Cass., 14 luglio 1992, n.8503, V. anche Cass., 15 aprile 1994, n. 3549)Cass., Sez. Un., 29 gennaio 2000, n. 16. Conformemente v. Cass., 5 aprile 2005, n. 7055; Cass., 27 gennaio 2004, n. 1456; Cass., 20 agosto 2003, n. 12218; Cass., 24 luglio 2003, n. 11497; Cass., 27 febbraio 2001, n. 2908. E in tal senso v. gia Cass., 30 maggio 1983, n. 3712 ). E' ben vero che il giudizio di appello è una revisio prioris instantiae (v. la citata Cass., Sez. Un., 29 gennaio 2000, n. 16, e successive conformi; Cass., 24 marzo 2000, n. 3539; Cass., 9 agosto 2000, n. 9867; Cass., 19 dicembre 2000, n. 15950; Cass., 23 marzo 2001, n. 4190; Cass., 7 maggio 2002, n. 6542; Cass., 28 maggio 2003, n. 8501; Cass., 8 agosto 2002, n. 11935; Cass., 12 agosto 2003, n. 12218; Cass., 28 novembre 2003, n. 18229), e non già un iudicium novum (secondo il più liberale orientamento che si ricollega alla definizione dell'appello come mezzo di impugnazione rivolto ad ottenere non il controllo della decisione di primo grado ma una nuova pronuncia sul diritto fatto valere con la domanda originaria, e considera l'enunciazione della censura come finalizzata alla delimitazione dell'ambito del riesame richiesto al giudice di appello, con conseguente attenuazione dell'onere della specificazione dei motivi, specialmente quando la sentenza di primo grado sia impugnata totalmente: (v.Cass., 16 maggio 1997, n. 4368; Cass., 21 gennaio 1987, n. 554; Cass., 21 gennaio 1987, n. 553). E che la cognizione del giudice rimane circoscritta alle questioni dedotte dall'appellante attraverso l'enunciazione di specifici motivi (v. Cass., 28 novembre 2003, n. 18229), sicché l'inammissibilità del gravame da tale violazione derivante non è sanabile nemmeno per effetto del l'attività difensiva spiegata nel corso del giudizio (v. Cass., Sez. un., 29 gennaio 2000, n. 16; Cass., 30 luglio 2001, n. 10401; Cass., 20 agosto 2003, n. 12218). Né può d'altro canto ritenersi sufficiente che l'atto d'appello consenta di individuare genericamente le statuizioni concretamente impugnate, non potendo condividersi l'interpretazione, (v. Cass., 3 gennaio 2005, n. 21), secondo cui il requisito della "sommaria esposizione dei fatti" richiesto dall'art. 342 c.p.c. può intendersi soddisfatto anche <<dal complesso delle argomentazioni svolte a sostegno dei motivi di appello». E' tuttavia indubbio che, non potendo essere stabilito in termini generali ed assoluti (v. Cass., 23 ottobre 2003, n. 15936; Cass., 6 aprile 2004, n. 6761;Cass., 12 agosto 1997, n. 7524), il grado di specificità dei motivi va valutato in correlazione con il tenore della motivazione della sentenza impugnata (v. Cass., 29 ottobre 2004, n. 20987; Cass., 23 ottobre 2003, n. 15936; Cass., 15 aprile 1998, n. 3805; Cass., 10 settembre 1997, n. 8297; Cass., 23 luglio 1997, n. 6893; Cass., 21 febbraio 1997, n. 1599; Cass., 30 maggio 1995, n. 6066; Cass., Sez. Un., 6 giugno 1987, n.4991), e deve considerarsi integrato quando alle argomentazioni ivi contemplate vengono contrapposte quelle dell'appellato in modo da incrinarne il relativo fondamento logico-giuridico, come nell'ipotesi in cui, pur non procedendo all'esplicito esame dei passaggi argomentativi della sentenza, l'appellante svolga i motivi di impugnazione in termini incompatibili con la complessiva argomentazione della decisione impugnata, in tal caso l'esame dei singoli passaggi argomentativi risultando in effetti inutile (v. Cass., 10 maggio 2005, n. 9793; Cass., 6 aprile 2004, n. 6761; Cass. 23 ottobre 2003, n. 15936). In particolare, la specificità dei motivi di appello di cui all'art. 342 c.p.c. deve essere valutata in base all'imprescindibile raffronto tra le ragioni della doglianza, esposte nell'atto introduttivo del giudizio di secondo grado, e quelle che nella sentenza sorreggono il punto oggetto dell'impugnazione. E' pertanto inammissibile l'appello con cui la parte non prenda in esame la motivazione della sentenza impugnata e non ne fornisca adeguata critica (v. Cass., 28 novembre 2003, n. 12218; Cass., 21 aprile 1994, n. 3809; Cass., Sez. Un., 6 giugno 1987, n. 4991). Né soddisfa il requisito di specificità l'atto d'appello che si basi sul mero rinvio alle argomentazioni svolte nel precedente grado di giudizio (v. Cass., 13 settembre 2004, n. 18353), non essendo ammissibile nemmeno il mero rinvio all'esposizione delle argomentazioni ad un momento successivo del giudizio o addirittura alla comparsa conclusionale (v. Cass., Sez. Un., 29 gennaio 2000, n. 16; Cass., 30 luglio 2001, n. 10401; Cass., 20 agosto 2003, n. 12218). Può al riguardo risultare peraltro sufficiente anche la specifica riproposizione delle stesse difese già disattese dal giudice di prime cure (v. Cass., 7 giugno 2005, n. 11781). Sicché, l'indicazione dei motivi di appello richiesta dall'art. 342 c.p.c. (e nel rito del lavoro dall'art. 434 c.p.c.) non deve necessariamente consistere in una rigorosa e formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell'appello, richiedendosi un'esposizione chiara ed univoca, anche se sommaria, sia della domanda rivolta al giudice del gravame sia delle ragioni della doglianza, all'interno della quale i motivi di gravame, per risultare idonei a contrastare la motivazione della sentenza impugnata, devono essere più o meno articolati, a seconda della maggiore o minore specificità nel caso concreto della medesima (v. Cass., 1° aprile 2004, n. 6403), potendo sostanziarsi pure nelle stesse argomentazioni addotte a suffragio della domanda disattesa dal primo giudice v. Cass., 22 dicembre 2004, n. 23742). Presidente G. Fiduccia, Relatore L. A. Scarano. CORTE DI CASSAZIONE Civile Sez. III, 31/05/2006 (Ud. 13/03/2006), Sentenza n. 12995

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