AmbienteDiritto.it - Rivista giuridica - Electronic Law Review - Tutti i diritti sono riservati - Copyright © - AmbienteDiritto.it
Testata registrata presso il Tribunale di Patti Reg. n. 197 del 19/07/2006
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. IV, 21/04/2006 (UD.29/11/2005), Sentenza n. 14180
Pubblica 
Amministrazione - Appalto di opere pubbliche comunali - Omicidio colposo - 
Sindaco e Assessore - Responsabilità - Presupposti - Reati omissivi impropri.
In tema di opere pubbliche da eseguire nel Comune, il Sindaco assume, la 
posizione di committente, e tre presupposti costituiscono la sua fonte di 
responsabilità collegata ad una posizione di garanzia, per così dire limitata 
dalla presenza dell'appaltatore, ma non certamente esclusa. Tali fonti di 
responsabilità sono la conoscenza del pericolo, l’evitabilità dell'evento 
lesivo, e l'omesso intervento di eliminazione del pericolo, trattandosi di reati 
omissivi impropri (Cass. 18.11.1997 n. 478). Ne consegue che il Sindaco e 
l'Assessore competente assumono, nei reati colposi, una posizione di garanzia 
nel caso che non adottino alcun provvedimento urgente atto ad eliminare una 
situazione di pericolo di cui sono consapevoli. Essendo infatti dotati di poteri 
autoritativi sia per allestire un intervento atto ad eliminare il pericolo, 
ovvero per disporre le cautele necessarie, non si ravvisa la colpa omissiva 
impropria ex art. 40, 2° comma, c.p., solo nei casi in cui non si abbia 
conoscenza di tale situazione di pericolo, ovvero non si abbia la possibilità 
concreta, anche con la normale diligenza, di porre in atto i rimedi utili per 
sanare la fonte del medesimo pericolo. Presidente M. Battisti, Relatore S. 
Visconti. CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. IV, 21/04/2006 (UD.29/11/2005), 
Sentenza n. 14180
Appalti - Appalto di opere pubbliche comunali - Omicidio colposo - Pericolo 
sui luoghi dei lavori - Veste di committente assunta dal sindaco - Posizione di 
garanzia - Responsabilità - Sussistenza - Condotta omissiva - Poteri 
autoritativi. Nel caso di affidamento in appalto dell’esecuzione di opere 
pubbliche comunali, la veste di committente assunta dal sindaco non è 
incompatibile col mantenimento della posizione di garanzia in riguardo alle 
situazioni di pericolo, da lui conosciute, esistenti nell’area interessata dai 
lavori dati in appalto e temporaneamente sospesi dall’impresa appaltatrice, 
perché egli è titolare di poteri autoritativi che gli consentono di supplire 
all’eventuale inerzia o all’impossibilità concreta di agire sollecitamente da 
parte dell’appaltatore. Va dunque affermata l’esistenza del nesso causale, 
materiale e psichico, tra la condotta omissiva del sindaco, che non interviene 
per eliminare la fonte del pericolo o per apprestare adeguate protezioni, 
ripari, cautele e le opportune segnalazioni in modo da impedire l’uso dell’area 
da parte di privati, e la morte del soggetto che, inconsapevole del pericolo, 
rimane esposto alle letali insidie. Presidente M. Battisti, Relatore S. 
Visconti. CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. IV, 21/04/2006 (UD.29/11/2005), 
Sentenza n. 14180 
Appalti - Opere pubbliche comunali - Reati colposi - Responsabilità - Datore 
di lavoro - Direttore dei lavori - Committente - Qualificazione e responsabilità 
- Effettività delle mansioni ricoperte. In tema di reati colposi, sussiste 
la rilevanza dell'effettività delle mansioni ricoperte, ai fini 
dell'attribuzione della "posizione di garanzia" (Cass. 16.6.2004 n. 40169, - 
conforme Cass. 7.11.1990 n. 7600). Infatti, sarebbe illogico sancire un 
principio astratto di responsabilità, almeno esclusiva (ben può esserlo 
concorrente), in ogni settore del diritto penale, e anche nel campo dei reati 
colposi, qualora l’individuazione del datore di lavoro, del direttore dei 
lavori, dell'appaltatore e del committente, oltre eventualmente delle persone, 
che in modo del tutto "formale", ricoprono tali incarichi, non sia poi estesa a 
coloro che effettivamente esercitino i poteri inerenti a tali mansioni. La 
qualificazione e la responsabilità, non competono soltanto ai soggetti forniti 
di formali investiture, ma a chiunque si trovi in una posizione tale da porlo in 
condizioni di dirigere l’attività lavorativa, e di renderlo così destinatario 
sia delle specifiche norme di sicurezza del lavoro, sia dell'obbligo generico di 
adottare le cautele necessarie (prudenza, diligenza, perizia) per salvaguardare 
l'incolumità dei dipendenti e anche di terze persone estranee all'attività 
lavorativa. Presidente M. Battisti, Relatore S. Visconti. CORTE DI CASSAZIONE 
PENALE Sez. IV, 21/04/2006 (UD.29/11/2005), Sentenza n. 14180
Procedure e varie - Beneficio della sospensione condizionale della pena - 
Limiti - Cumulazione di pena patteggiata - Art. 444 c.p.p. Il beneficio 
della sospensione condizionale della pena, se già concesso per pena patteggiata, 
non può essere reiterato in relazione a successiva sentenza, anche se di 
patteggiamento, per fatto anteriormente commesso, dalla quale derivi 
l'applicazione di una pena detentiva che, cumulata con la precedente, superi i 
limiti fissati dall'art. 163 c.p.p. (Cass. sentenza n. 31 del 
22.11.2000-3.5.2001; conformi Cass. 2.4.2003 n. 25734; Cass. 24.6.2003 n. 35728; 
Cass. 12.7.2004 n. 35891). Diversamente interpretando, ai già previsti vantaggi 
derivanti dall'emissione di una sentenza ex art. 444 c.p.p. (riduzione della 
pena; benefici di cui all'art. 445 c.p.p. in caso di pena inferiore a due anni), 
si aggiungerebbe quello di una permanente impunità anche in caso di plurime 
violazioni della legge penale, accertate in procedimenti diversi, che non può 
certo corrispondere alla volontà del legislatore. Presidente M. Battisti, 
Relatore S. Visconti. CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. IV, 21/04/2006 (UD.29/11/2005), 
Sentenza n. 14180 
Procedure e varie - Rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale - Giudizio 
d'appello - Presupposti. Nel giudizio d'appello la rinnovazione 
dell'istruttoria dibattimentale, prevista dall'art. 603 comma primo cod. proc. 
pen., è subordinata alla verifica dell'incompletezza dell'indagine 
dibattimentale e alla conseguente constatazione del giudice di non poter 
decidere allo stato degli atti senza una rinnovazione istruttoria; tale 
accertamento è rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in 
sede di legittimità se correttamente motivata" (Cass. 5.12.2003 n. 4981; 
conformi Cass. 19.2.2004 n. 18660; Cass. 2.12.2002 n. 68). Peraltro, le 
condizioni per ricorrere all'istituto della rinnovazione dell'istruttoria 
dibattimentale, hanno carattere eccezionale da utilizzare solo nel caso che non 
si possa decidere senza l'assunzione della prova richiesta (Cass. sezioni unite 
24.1.1996 n. 2780; Cass. 22.3.1999 n. 9531; Cass. 26.4.2000 n. 8106). Presidente 
M. Battisti, Relatore S. Visconti. CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. IV, 
21/04/2006 (UD.29/11/2005), Sentenza n. 14180 
Procedure e varie - Principio di correlazione tra accusa e sentenza - 
Violazione - Nullità a regime intermedio - Disciplina. La violazione del 
principio di correlazione tra accusa e sentenza integra una nullità a regime 
intermedio che, in quanto verificatasi in primo grado, può essere dedotta fino 
alla deliberazione della sentenza del grado successivo (Cass. sezioni unite n. 
1475 del 24.11.1984, conforme Cass. 9.11.1992 n. 11651). Ne consegue che detta 
violazione non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità 
(Cass. 22.2.2005 n. 10094; e tra le tante conformi Cass. 26.4.1999 n. 8639; 
Cass. 14.5.1997 n. 7957; Cass. 19.9.1995 n. 10685; Cass. 15.7.1993 n. 8712). 
Presidente M. Battisti, Relatore S. Visconti. CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 
IV, 21/04/2006 (UD.29/11/2005), Sentenza n. 14180
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. IV, 
21/04/2006 (UD.29/11/2005), Sentenza n. 14180
(Presidente M. Battisti, Relatore S. Visconti)
	
	
	Omissis
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
In data 9 luglio 1998, nell'isola di Lipari, MERLINO Giovanni, trovandosi 
nell'area del cantiere per la esecuzione di alcuni lavori di completamento della 
Piazza S. Onofrio e di sottobanchinamento della Salita S. Giuseppe, si 
appoggiava ad una ringhiera in ghisa, apparentemente collocata a protezione 
dello strapiombo sulla scogliera, ma che, non essendo stati fissati i montanti 
in modo stabile, cedeva alla sollecitazione dell'appoggio, per cui il MERLINO 
precipitava sulla scogliera, derivandone la morte.
Il procedimento penale per omicidio colposo (art. 589 c.p.) veniva instaurato 
nei confronti di: PELLE Antonio, ritenuto il direttore dei lavori; di 
GIACOMANTONIO Michele, Sindaco del Comune di Lipari; di BARCA GAETANO, Assessore 
si Lavori pubblici dello stesso Comune; di MANGANO Rosario, condirettore dei 
lavori; di FONTE Alberto, capo settore ai LL.PP. del Comune di Lipari; di AVENI 
Giovanni, legale rappresentante dell'Impresa Aveni s.a.s., appaltatrice dei 
lavori.
Esaurite le indagini preliminari e il giudizio di primo grado, all'esito di 
quello di appello la Corte territoriale di Messina, confermava le condanne del 
PELLE a mesi otto di reclusione, e del GIACOMANTONIO e del BARCA a mesi quattro 
di reclusione, essendo state già concesse le attenuanti generiche di cui 
all'art. 62 bis c.p., con il beneficio della sospensione condizionale della pena 
solo agli ultimi due, condannando altresì tutti gli imputati in solido alla 
rifusione delle spese sostenute dalle costituite parti civili EIKE Lorenz e 
MERLINO Marco. Per ciò che concerne gli altri tre iniziali indagati, l'AVENI non 
risulta neppure rinviato a giudizio, il MANGANO stato assolto in primo grado, 
con conferma in appello, il FONTE è stato assolto dalla Corte di Appello.
Essendo pacifica la dinamica dell'incidente, nei vari gradi del giudizio erano 
state soprattutto affrontate le posizioni personali degli attuali ricorrenti, 
questioni procedurali, l'eventuale concorso della vittima, il diniego della 
concessione della sospensione condizionale della pena al PELLE.
La Corte di Appello non ha accolto i motivi di impugnazione proposti da PELLE 
Antonio, il primo dei quali riguardava appunto la circostanza che egli, 
all'epoca dell'evento, aveva cessato di ricoprire, anche di fatto, la carica di 
direttore dei lavori, per essere stato sostituito nell'incarico dal 
rappresentante del Genio Civile. La Corte territoriale ha, invece, ritenuto che, 
pur essendovi un precedente accordo di massima sul punto, nella riunione del 
2.6.1998, di poco pia di un mese antecedente al sinistro, si convenne, con 
l'adesione dell'imputato, che il subentro avrebbe dovuto essere preceduto dalla 
contabilizzazione dei lavori eseguiti e dalla redazione della perizia di 
variante, ad opera del PELLE, che continuò a qualificarsi direttore dei lavori, 
svolgendo i relativi compiti. Pertanto, dovendosi avere riguardo alle funzioni 
di concreto esercitate piuttosto che alla qualifica formale rivestita, il 
giudice di appello ha ritenuto di disattendere il motivo di gravame, e così 
anche il successivo motivo di appello, con il quale era stata richiesta 
l'assoluzione quanto meno ai sensi dell'art. 530, 2° comma, c.p.p..
In ordine al terzo motivo con il quale si eccepiva la nullità dell'istruttoria 
dibattimentale per omesso esame dell'imputato, la Corte di merito ha ritenuto 
non esservi stata alcuna richiesta di tale esame.
Il giudice di appello ha poi disatteso la richiesta di riapertura 
dell'istruttoria dibattimentale con l'esame, ai sensi dell'art. 507 c.p.p., di 
AVENI Giovanni, essendo la situazione probatoria sufficientemente chiara, e non 
sussistendo i presupposti di cui all'art. 603 c.p.p..
Infine, è stata respinta l'istanza di concessione del beneficio della 
sospensione condizionale della pena, avendo il PELLE già riportato una condanna 
ad anni uno e mesi sei di reclusione per vari reati in continuazione, e 
ritenendosi di non diminuire la condanna a mesi otto di reclusione, tenuto conto 
della condotta particolarmente riprovevole dell'imputato.
Per ciò che concerne le posizioni del GIACOMANTONIO e del BARCA, rispettivamente 
Sindaco e Assessore ai LL.PP. del Comune di Lipari, all'epoca del fatto, la 
Corte di merito ha, in primo luogo, specificato che i predetti imputati non 
erano stati chiamati a rispondere di omissione di un generico dovere di 
vigilanza in relazione alle cariche ricoperte, bensì di non essersi attivati 
malgrado la specifica conoscenza della situazione di pericolo che ha determinato 
l'evento letale, essendo risultato dalle dichiarazioni del MANGANO e dei MAUGERI 
(titolare di altra impresa che stava eseguendo lavori nell'isola), che di tale 
situazione si era parlato il giorno stesso del sinistro, rappresentandosi il 
pericolo costituito dalla ringhiera.
Esaminando poi il primo motivo di appello, la Corte di Messina ha ritenuto non 
condivisibile l'argomento difensivo secondo il quale nella citata riunione era 
stato demandato all'impresa appaltatrice dei lavori di provvedere 
tempestivamente ad eliminare la situazione di pericolo, ed era imprevedibile che 
gli incaricati avessero rinviato l'intervento al giorno successivo.
Il giudice di appello ha rilevato che era ben noto che i lavori erano sospesi da 
alcuni giorni, il cantiere era chiuso, e gli operai non si trovavano in loco, 
per cui era prevedibile il rinvio al giorno successivo. Sul punto si precisa che 
dalla sentenza di appello risulta che la riunione fu tenuta nel pomeriggio, ed 
il MERLINO precipitò sulla scogliera poche ore dopo. La sentenza impugnata ha 
citato, poi, una serie di provvedimenti autoritativi che l'Autorità Comunale 
avrebbe potuto adottare, come l'immediata chiusura della piazza, il 
transennamento della zona pericolosa, il piantonamento della stessa, o quanto 
meno assicurarsi che l'impresa e il direttore dei lavori avessero adempiuto 
all'incarico affidato. Il completo disinteresse della situazione configura, 
pertanto, ad avviso del giudice di merito, evidente manifestazione di negligenza 
ed imprudenza, ed una chiara violazione degli obblighi inerenti alle cariche 
ricoperte.
La Corte territoriale ha anche disatteso il secondo motivo di appello, inerente 
all'evitabilità dell'incidente se il MERLINO, usando una normale diligenza, 
avesse evitato di appoggiarsi alla ringhiera, munita di un nastro bicolore, 
indicativo di una situazione di precarietà, rilevando che era ignota la causa 
dell'appoggio, che poteva anche essere un malore o altra causa sconosciuta, e 
soprattutto che l'eventuale colpa concorrente della vittima non vale ad 
escludere la responsabilità di chi ha omesso di adottare le misure idonee ad 
evitare l'incidente.
PELLE Antonio ha proposto ricorso per cassazione, chiedendo l'annullamento della 
citata sentenza di appello, e, in subordine, la riduzione della pena, con 
concessione del beneficio della sospensione condizionale.
Con il primo motivo, il ricorrente ha dedotto il difetto di motivazione in 
relazione all'art. 589 c.p., assumendo che, con delibera del 14.5.1998, la 
Giunta Comunale gli aveva revocato l'incarico di direttore dei lavori, affidato 
al Genio Civile, conferendogli quello di consulente della D.L.. Pertanto, da 
tale data il ricorrente non ricopriva l'incarico né formale né sostanziale di 
direttore dei lavori, e gli atti amministrativi contabili relativi all'attività 
svolta fino alla revoca dell'incarico, ivi compresa la perizia tecnico contabile 
affidatagli alla riunione del 2.6.1998, erano proprio la prova della cessazione 
dall'incarico.
Con il secondo motivo di gravame, il ricorrente ha dedotto la violazione di 
norma sostanziale e il difetto di motivazione in ordine al diniego di 
concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, non essendo 
mai stato condannato in precedenza, ed essendo frutto di un patteggiamento 
l'applicazione della pena concordata di anni uno e mesi sei di reclusione per 
reati societari. Inoltre, era eccessiva la definizione di una "condotta 
particolarmente riprovevole" per un omesso controllo, che egli non aveva potere 
di esercitare, ed essendo stato richiesto l'intervento della società appaltante.
Con il terzo motivo di ricorso è stata contestata la decisione di negare la 
riapertura dell'istruttoria dibattimentale, non essendo affatto chiare le 
risultanze processuali.
Con il quarto ed ultimo motivo é stata rinnovata l'eccezione di nullità 
dell'istruttoria dibattimentale per omesso esame dell'imputato.
Il GIACOMANTONIO e il BARCA hanno proposto ricorso per cassazione chiedendo 
l'annullamento della sentenza impugnata per i seguenti motivi.
Con il primo è stata dedotta la violazione degli artt. 521, 522, 604, 178, 179 e 
180 c.p.p. in relazione all'art. 24 Cost. per non avere il giudice di appello 
rilevato di ufficio la mancanza di correlazione tra contestazione e sentenza. I 
ricorrenti hanno dedotto che nel capo di imputazione era contestato un profilo 
di colpa specifico, e cioè il non essersi attivati dopo la segnalazione di 
pericolo del 20.3.1998 da parte di FONTE Alberto. Già nella sentenza di primo 
grado la responsabilità era stata ritenuta sia per colpa generica, per il 
mancato intervento, sia per colpa specifica, ma relativamente ai fatti del 
9.7.1998, per essersi limitati ad indire una riunione.
Secondo i ricorrenti tale violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p. andava 
rilevata di ufficio, costituendo nullità assoluta ed insanabile, non 
condividendosi la giurisprudenza prevalente di questa Corte che la ha ritenuta 
una nullità di ordine intermedio ex art. 180 c.p.p., con precisi termini di 
impugnazione, violandosi sia il principio del contraddittorio che Part. 24 
Cost..
I ricorrenti hanno anche eccepito l'illegittimità costituzionale dell'art. 180 
c.p.p., in relazione agli arti. 521, 522 e 604 c.p.p., nella parte in cui, pur 
prevedendo l'obbligo del giudice di appello di rilevare anche di ufficio la 
violazione del contraddittorio in ordine alla mancata correlazione tra accusa 
contestata e sentenza, non prevede la possibilità che l'imputato possa censurare 
con il ricorso per cassazione l'omissione di tale obbligo da parte del giudice.
Con il secondo motivo di impugnazione, i ricorrenti hanno eccepito la mancanza 
di motivazione in relazione agli arti 40 e 589 c.p..
Il GIACOMANTONIO e il BARCA hanno assunto di non essere stati mai a conoscenza 
del pericolo specifico, e di non essere rilevanti le dichiarazioni del MAUGERI e 
del MANGANO, e che di quest'ultimo non era stata comunque valutata dal giudice 
di appello la dedotta inattendibilità, per essere coimputato, nonché la 
contraddittorietà delle dichiarazioni rese.
Con il terzo motivo di gravame, i ricorrenti hanno rilevato la violazione degli 
arti. 40 e 589 c.p., in relazione all'art. 38 legge 8.6.1990 n. 142, nonché sul 
punto la mancanza di motivazione ovvero la sua manifesta illogicità.
In sintesi, i ricorrenti hanno assunto che l'avere appaltato i lavori, con 
consegna delle opere, trasmetteva gli obblighi di custodia e di vigilanza 
sull'appaltatore, esonerando dal controllo il pubblico committente. Ciò è 
confermato dai testi legislativi succedutisi in materia di appalto di opere 
pubbliche e riportati a pag. 12 del ricorso. Al Sindaco rimane solo il potere di 
urgenza, ma non quello di intervenire in sostituzione, qualora l'appaltatore 
ometta di ottemperare all'ordine impartitogli.
Secondo i ricorrenti, l'avere ottemperato, pur verbalmente, alla legislazione 
vigente, incaricandosi l'appaltatore di eseguire le opere necessarie, e non 
spettando loro (in particolare nel ricorso si parla del Sindaco) né di 
intervenire direttamente, né di verificare l'adempimento della disposizione, 
nessuna colpa si poteva attribuire ai pubblici amministratori.
Ma, secondo i ricorrenti, anche a volere ritenere che gli amministratori si 
dovevano porre il problema dell'idoneità dei mezzi a disposizione del titolare 
dell'impresa, l'aggiudicazione di un importante appalto in un grosso centro, 
quale Lipari, faceva sicuramente presupporre la capacità di eliminare la 
situazione di pericolo.
Con il quarto ed ultimo motivo di impugnazione, i ricorrenti hanno eccepito la 
violazione di legge ed il difetto di motivazione in relazione agli arti. 40, 41 
e 589 c.p., avendo il giudice di appello ritenuto che l'eventuale concorso di 
colpa della vittima non escludesse la responsabilità degli amministratori. I 
ricorrenti hanno invece sostenuto che la situazione di pericolo era percepibile 
con estrema facilità, chiarezza e prevedibilità, per cui la condotta del MERLINO 
si era posta non come concausa dell'evento, e dovendosi invece ritenere 
interrotto il nesso di causalità tra la causa remota e l'accaduto.
Motivi della decisione
Il ricorso di PELLE Antonio é infondato e va rigettato, trattandosi, peraltro, 
prevalentemente di mera reiterazione dei motivi di appello, in ordine ai quali 
la Corte territoriale ha correttamente motivato le ragioni per le quali non 
meritavano accoglimento.
Con il primo motivo, infatti, il ricorrente ha riproposto l'eccezione secondo la 
quale egli non era più direttore dei lavori all'epoca dell'incidente in cui morì 
il MERLINO. Va subito precisato che il ricorrente non contesta che il direttore 
dei lavori sia penalmente responsabile, ma elenca una serie di circostanze di 
fatto, dalle quali si dedurrebbe che egli non ricopriva più tale qualifica, né 
formalmente, né sostanzialmente, in data 9.7.1998, allorché la vittima cadde 
dall'alto sulla scogliera.
La Corte di merito ha, invece, rilevato che la designazione del rappresentante 
del Genio Civile era un accordo di massima intervenuto tra quest'ultimo ente ed 
il Sindaco, e che la delibera del 14.5.1998 di revoca dell'incarico al PELLE, 
nominato consulente della direzione dei lavori, non era stata seguita 
dall'intervenuta accettazione da parte del Genio Civile. In particolare, poi, il 
PELLE continuò ad esercitare le funzioni di direttore dei lavori, e, alla 
riunione del 2.6.1998, si convenne, con l'adesione esplicita del PELLE, che il 
subentro del nuovo direttore sarebbe stato preceduto dalla contabilizzazione dei 
lavori precedenti e dalla redazione di una perizia di variante. Il ricorrente 
continuò, pertanto, ad esercitare le funzioni almeno sino all' 11.9.1998, 
allorché fu usata l'equivoca espressione "Dl in deroga alla revoca del 
14.5.1998", ritenuta dal giudice di merito strumentale, come si evince dalla 
circostanza che fu impiegata per la prima volta in epoca successiva al sinistro 
mortale.
Né va taciuto che il PELLE partecipò alla riunione del 9.7.1998, di poche ore 
antecedente rispetto all'evento letale.
Di fronte a tale logica e adeguata motivazione sul permanere dell'esercizio 
della funzioni di direttore dei lavori, almeno sostanzialmente, da parte del 
PELLE, non ha alcun rilievo la diversa interpretazione del ricorrente delle 
circostanze di fatto e delle risultanze processuali, attenendo ad una differente 
valutazione, non sindacabile in sede di legittimità, in presenza di motivazione 
congrua e logica (Cass. 24.9.2003 n. 18; conformi, sempre a sezioni unite Cass. 
n. 12/2000; n. 24/1999; n. 6402/1997), e cioè che proprio l'incarico di 
contabilizzare i lavori eseguiti sarebbe - secondo il ricorrente - prova della 
cessazione dell'incarico. Invece, tale contraria interpretazione delle 
risultanze processuali è anche non convincente, in quanto la presenza ad una 
riunione in cui si trattava delle ripresa dei lavori e di condizioni di 
sicurezza, non ha alcuna attinenza con la mera contabilizzazione delle opere 
eseguite.
La giurisprudenza di legittimità ha peraltro costantemente ritenuto, in tema di 
reati colposi, la rilevanza dell'effettività delle mansioni ricoperte, ai fini 
dell'attribuzione della "posizione di garanzia" (Cass. 16.6.2004 n. 40169,- 
conforme Cass. 7.11.1990 n. 7600). Infatti, sarebbe illogico sancire un 
principio astratto di responsabilità, almeno esclusiva (ben può esserlo 
concorrente), in ogni settore del diritto penale, e anche nel campo dei reati 
colposi, qualora la individuazione del datore di lavoro, del direttore dei 
lavori, dell'appaltatore e del committente, oltre eventualmente delle persone, 
che in modo del tutto "formale", ricoprono tali incarichi, non sia poi estesa a 
coloro che effettivamente esercitino i poteri inerenti a tali mansioni. La 
qualificazione e la responsabilità, non competono soltanto ai soggetti forniti 
di formali investiture, ma a chiunque si trovi in una posizione tale da porlo in 
condizioni di dirigere la attività lavorativa, e di renderlo così destinatario 
sia delle specifiche norme di sicurezza del lavoro, sia dell'obbligo generico di 
adottare le cautele necessarie (prudenza, diligenza, perizia) per salvaguardare 
l' incolumità dei dipendenti e anche di terze persone estranee all'attività 
lavorativa.
Con il secondo motivo di ricorso, il PELLE ha dedotto la violazione di legge per 
essergli stata negata la concessione del beneficio della sospensione 
condizionale della pena, essendo stato ritenuto riprovevole il suo 
comportamento, ed avendo riportato in passato una sentenza di condanna, mentre 
invece si trattava di sentenza di applicazione della pena su richiesta delle 
parti (art. 444 c.p.p.).
Va precisato che la pena concordata in passato è stata di anni uno e mesi sei di 
reclusione per reati di natura societaria e fallimentare, come ammesso dallo 
stesso ricorrente, per cui, sommando la pena precedente con quella attuale di 
mesi otto di reclusione, si supera il limite di due anni, previsto per la 
concessione del beneficio, a norma dell'art. 164, 4° comma, c.p., in relazione 
all'art. 163, 1° comma, c.p..
Va, pertanto, esaminato preliminarmente se, trattandosi di precedente sentenza 
di "patteggiamento", e non di condanna, la pena patteggiata vada calcolata ai 
fini del computo per la determinazione del limite massimo per la concessione del 
beneficio. Ritiene questo Collegio di aderire all'orientamento ormai costante 
della giurisprudenza di legittimità, conforme a quello espresso dalle sezioni 
unite di questa Corte con la sentenza n. 31 del 22.11.2000-3.5.2001, con la 
quale - nel formulare varie soluzioni per diverse fattispecie - è stato ritenuto 
che il beneficio della sospensione condizionale della pena, se già concesso per 
pena patteggiata, non può essere reiterato in relazione a successiva sentenza, 
anche se di patteggiamento, per fatto anteriormente commesso, dalla quale derivi 
l'applicazione di una pena detentiva che, cumulata con la precedente, superi i 
limiti fissati dall'art. 163 c.p.p. (conformi Cass. 2.4.2003 n. 25734; Cass. 
24.6.2003 n. 35728; Cass. 12.7.2004 n. 35891).
Diversamente interpretando, ai già previsti vantaggi derivanti dall'emissione di 
una sentenza ex art. 444 c.p.p. (riduzione della pena; benefici di cui all'art. 
445 c.p.p. in caso di pena inferiore a due anni), si aggiungerebbe quello di una 
permanente impunità anche in caso di plurime violazioni della legge penale, 
accertate in procedimenti diversi, che non può certo corrispondere alla volontà 
del legislatore.
Si osserva, poi, che il giudizio di riprorevolezza della condotta del PELLE, 
altro motivo ritenuto ostativo dal giudice di merito, è insindacabile in sede di 
legittimità, essendo stato adeguatamente e logicamente motivato con il totale 
disinteresse per la situazione di grave pericolo, della quale il PELLE era 
perfettamente consapevole.
Con il terzo motivo di impugnazione, il ricorrente ha eccepito la violazione 
dell'art. 606 lett. d) c.p.p. per non avere la Corte territoriale disposto, su 
richiesta dell'appellante, la riapertura dell'istruttoria dibattimentale con 
l'esame, ex art. 507 c.p.p., di AVENI Giovanni, titolare dell'impresa esecutrice 
dei lavori, per accertare chi svolgeva effettivamente le mansioni di direttore 
dei lavori. Sul punto la Corte ha ineccepibilmente motivato il rigetto dell' 
istanza con la "chiarezza" della situazione probatoria, che non necessitava di 
alcuna integrazione istruttoria (pag. 8 sentenza impugnata).
Sul punto, va ricordato che "nel giudizio d'appello la rinnovazione 
dell'istruttoria dibattimentale, prevista dall'art. 603 comma primo cod. proc. 
pen., è subordinata alla verifica dell'incompletezza dell'indagine 
dibattimentale e alla conseguente constatazione del giudice di non poter 
decidere allo stato degli atti senza una rinnovazione istruttoria; tale 
accertamento è rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in 
sede di legittimità se correttamente motivata" (Cass. 5.12.2003 n. 4981; 
conformi Cass. 19.2.2004 n. 18660; Cass. 2.12.2002 n. 68).
Nella specie, il giudice di merito ha concluso sulla responsabilità del PELLE in 
termini di assoluta certezza sul punto qualificante, dedotto non solo da 
argomentazioni logiche, ma soprattutto da prove scritte, quali la partecipazione 
alle riunioni del 2.6.2998 e del 9.7.1998, e dalle stesse parziali ammissioni 
dell'imputato di avere proseguito alcune attività, ritenute dal giudice di 
appello specifiche del direttore dei lavori.
E' da escludere quindi che vi fossero le condizioni per ricorrere all'istituto 
della rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, ritenuto, peraltro, di 
carattere eccezionale, e da utilizzare solo nel caso che non si possa decidere 
senza l'assunzione della prova richiesta (Cass. sezioni unite 24.1.1996 n. 2780; 
Cass. 22.3.1999 n. 9531; Cass. 26.4.2000 n. 8106).
Con il quarto ed ultimo motivo di gravame, il PELLE ha - in modo del tutto 
generico, in violazione dell'art. 581 lett. c) c.p.p. - eccepito la "violazione 
dell'art. 606 lett. b - c - d" in quanto i giudici di primo e secondo grado non 
avevano dichiarato la nullità dell'istruttoria dibattimentale per il mancato 
esame dell'imputato, seppur ritualmente richiesto.
La Corte di merito ha già specificato che "non vi è prova di detta richiesta, 
che non risulta riportata a verbale". Nell'atto di appello, il ricorrente aveva 
già precisato che la richiesta non era stata riportata a verbale, ma è evidente 
che l'impugnazione su un fatto assolutamente non documentato avrebbe richiesto 
l'indicazione specifica della situazione dedotta, e non un genericissimo 
richiamo del motivo di appello, esso stesso del tutto generico, per cui il 
motivo di ricorso sul punto della decisione è addirittura inammissibile.
GIACOMANTONIO Michele e BARCA Gaetano, rispettivamente Sindaco e Assessore ai 
lavori pubblici del Comune di Lipari, hanno proposto i rispettivi ricorsi per 
cassazione con unico atto, per cui gli stessi vanno trattati congiuntamente.
Con il primo motivo di impugnazione i ricorrenti hanno dedotto la violazione 
degli artt. 521, 522, 604, 178, 179 e 180 c.p.p., per non avere il giudice di 
appello rilevato di ufficio la mancata correlazione tra contestazione e 
sentenza, che sarebbe consistita, anche da parte del giudice di prime cure, 
nell'attribuire ad essi, oltre il profilo di colpa specifico, riguardante il non 
essersi attivati dopo la segnalazione di pericolo del 20.3.1998 da parte di 
FONTE Alberto, anche altri profili di colpa generica, e quello specifico, di 
essersi limitato ad indire una riunione il 9.7.1998, senza adottare alcun 
provvedimento operativo.
Il motivo è infondato per più ragioni.
In primo luogo, dopo la remota sentenza a sezioni unite n. 1475 del 24.11.1984, 
con la quale era stata ritenuta la nullità assoluta e insanabile, e quindi 
rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del giudizio, della violazione di 
cui agli artt. 521 e 522 c.p.p. (conforme Cass. 9.11.1992 n. 11651), la 
giurisprudenza di legittimità si è orientata in modo univoco, tanto da non 
richiedere alcun altro intervento delle SS.UU., nel diverso senso, secondo il 
quale "la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza integra 
una nullità a regime intermedio che, in quanto verificatasi in primo grado, può 
essere dedotta fino alla deliberazione della sentenza del grado successivo. Ne 
consegue che detta violazione non può essere dedotta per la prima volta in sede 
di legittimità" (Cass. 22.2.2005 n. 10094; e tra le tante conformi Cass. 
26.4.1999 n. 8639; Cass. 14.5.1997 n. 7957; Cass. 19.9.1995 n. 10685; Cass. 
15.7.1993 n. 8712).
Ne consegue che i ricorrenti non possono legittimamente lamentarsi della 
circostanze che il giudice di appello non ha rilevato "di ufficio" la nullità 
sancita dall'art. 522 c.p.p.. D'altronde, va dato atto che nell'atto di 
impugnazione i ricorrenti hanno precisato di essere consapevoli che la 
giurisprudenza predominante (e va aggiunto, più recente) è orientata nel 
ritenere che si tratti di nullità a regime intermedio.
Inoltre, la dedotta nullità - quand'anche fosse stata tempestivamente dedotta - 
non si ravvisa affatto per due motivi.
Il primo è che il riferimento alla riunione del 9.7.1998 costituisce una mera 
precisazione dello svolgimento dei fatti e ulteriore prova a carico degli 
imputati per dimostrare la consapevolezza e la prevedibilità del pericolo; non 
si tratta quindi di una nuova e diversa contestazione, ma di una ulteriore 
risultanza istruttoria.
Il secondo motivo è che gli imputati hanno potuto ben difendersi da tale 
circostanza, essendo stata portata a loro conoscenza fin dall'inizio del 
procedimento. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità si è orientata nel 
senso espresso dalle sezioni unite con la sentenza n. 16 del 19.6.1996, e cioè 
che "per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei 
suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume 
l'ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un'incertezza 
sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti 
della difesa: ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del 
principio della correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto non va 
esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e 
sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è 
del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia 
venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto 
dell'imputazione" (conformi Cass. 22.3.1999 n. 2642; Cass. 19.11.1999 n. 13267; 
e recentemente Cass. 10.12.2003 n. 2443; Cass. 25.2.2004 n. 21094).
Da tali considerazioni consegue altresì l'irrilevanza nel presente giudizio 
della eccezione di incostituzionalità proposta per contrasto con l'art. 24 
Cost., in quanto, non essendovi stata alcuna violazione degli artt. 521 e 522 
c.p.p., la decisione del Giudice delle Leggi non avrebbe comunque influenza nel 
procedimento.
Del tutto infondato è poi il secondo motivo di ricorso, relativo alla presunta 
inattendibilità delle dichiarazioni rese dal MANGANO e dal MAUGERI. I ricorrenti 
hanno formulato una serie di valutazioni del tutto superflue sulla loro 
credibilità ai fini della decisione, in quanto nella sentenza impugnata la 
rilevanza delle dichiarazioni dei predetti MANGANO e MAUGERI è stata valorizzata 
esclusivamente per accertare che "nella riunione tenuta in municipio il giorno 
stesso in cui si verificò l'incidente si era rappresentata la situazione di 
pericolo costituita dalla ringhiera". I ricorrenti non indicano nessun motivo 
specifico che mini la credibilità dei dichiaranti, che al contrario vanno 
ritenuti attendibili, soprattutto il MANGANO, il quale era stato assolto solo 
all'esito del giudizio di primo grado, ed il cui provvedimento liberatorio era 
l'oggetto degli appelli da parte del Procuratore Generale presso la Corte di 
Appello di Messina e del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di 
Barcellona Pozzo di Gatto.
Come è facile valutare, l'affermazione che nella riunione del 9.7.1998 si parlò 
specificamente del pericolo rappresentato dalla ringhiera avrebbe potuto essere 
valutato anche negativamente per il MANGANO, presente alla riunione, per cui non 
si comprende in alcun modo quale sia l'interesse che avrebbe mosso il coimputato 
a fornire una dichiarazione mendace e compromettente per lui stesso, né la 
ragione della presunta inattendibilità viene chiarita dai ricorrenti.
Anche il terzo motivo di gravame è infondato. I ricorrenti hanno assunto la 
violazione degli artt. 40 e 589 c.p., in relazione all'art. 38 legge 8.6.1990 n. 
142, nonché la mancanza o manifesta illogicità della motivazione sul punto, 
assumendo che nei contratti di appalto, con la consegna delle opere, gli 
obblighi di custodia e di vigilanza sono trasmessi all'appaltatore, esonerando 
dal controllo il pubblico committente.
Ritiene il Collegio, in primo luogo, che la citata norma disciplina le I 
competenze del Sindaco come "ufficiale di governo", e cioè come rappresentante 
dello Stato nel Comune, e che non ha alcuna relazione con la fattispecie in 
esame, che va invece risolta, tenendo conto di situazioni concrete.
Non vi è dubbio che il Sindaco assumi, in tema di opere pubbliche da eseguire 
nel Comune, la posizione di committente, e che tre presupposti costituiscano la 
sua fonte di responsabilità collegata ad una posizione di garanzia, per così 
dire limitata dalla presenza dell'appaltatore, ma non certamente esclusa, tanto 
meno dalla norma indicata dal ricorrente. Tali fonti di responsabilità sono la 
conoscenza del pericolo, la evitabilità dell'evento lesivo, e l'omesso 
intervento di eliminazione del pericolo, trattandosi di reati omissivi impropri 
(Cass. 18.11.1997 n. 478).
Che il GIACOMANTONIO e il BARCA fossero a conoscenza sia di un pericolo generale 
derivante dallo stato di abbandono dell'area, sia della specifica pericolosità 
della ringhiera, è circostanza pacifica, risultando dalla sentenza di appello 
che i lavori erano sospesi fin dal 30.6.1998, e cioè ben nove giorni prima 
dell'incidente mortale, e che nel pomeriggio dello stesso 9.7.1998, poche ora 
prima della morte del MERLINO, si era tenuta una riunione in cui tali situazioni 
erano state evidenziate. Proprio la sospensione dei lavori da alcuni giorni 
lasciava intuire che l'impresa aveva abbandonato l'area, e che non avrebbe 
potuto provvedere a riprenderne il controllo prima del giorno successivo alla 
riunione del 9.7.1998, dovendo ovviamente reperire gli operai, rilevato altresì 
che la sospensione dei lavori era prevista per la durata di tre mesi, e cioè dal 
30.6.1998 al 30.9.1998.
A ciò va aggiunto - sempre in relazione alla cognizione del pericolo, ma anche 
in ordine alla necessità dell'intervento - che la zona di pericolo era situata 
in una zona centrale dell'isola di Lipari, e che il 9 luglio è periodo di alta 
stagione per i turisti, oltre a valutare che Lipari è di gran lunga la più 
grande isola delle Eolie, per cui era evidente anche il pericolo per gli 
abitanti.
Da tutte tali circostanze si evince la piena cognizione da parte dei due 
imputati (anche se il ricorso tratta principalmente la posizione del Sindaco) 
del grave pericolo, e, trattandosi di pubblici amministratori, essi non possono 
assumere una posizione di esonero da responsabilità addirittura superiore a 
quella del privato committente, essendo peraltro dotati di poteri autoritativi 
che consentono loro di supplire I all'eventuale inerzia ovvero alla 
impossibilità concreta di agire sollecitamente da parte dell'appaltatore.
Premessa, pertanto, la conoscenza del pericolo, il pubblico amministratore non 
può assumere alcun atteggiamento omissivo, ma deve o intervenire direttamente,( 
tramite personale da lui incaricato per eliminare la fonte del pericolo stesso, 
ovvero apprestare adeguate protezioni, ripari, cautele ed opportune 
segnalazioni, in modo da impedire l'uso dell'area da parte di privati.
La Corte territoriale, con motivazione logica e adeguata, ha individuato la 
colpa omissiva, proprio nel non avere attuato a mezzo del personale 
amministrativo e della polizia municipale, provvedimenti come l'immediata 
chiusura dell'intera piazza, o il transennamento della zona pericolosa, o ancora 
il piantonamento della stessa, tutte misure facilmente realizzabili e idonee ad 
evitare con certezza il verificarsi di un incidente come quello occorso al 
MERLINO.
D'altronde, gli stessi ricorrenti ammettono che il Sindaco aveva comunque un 
potere di intervento di urgenza, e quale situazione, se non quella in esame, 
avrebbe meritato l'adozione di un tale potere, peraltro limitato nel tempo, in 
quanto, come risulta dalla sentenza impugnata, alla riunione del 9.7.1998, i 
presenti "convennero sugli interventi da eseguire e ne rinviarono l'esecuzione 
al giorno successivo". Anche sotto tale profilo, la Corte di merito ha 
individuato un ulteriore profilo di colpa, ritenendo che, quanto meno, i due 
amministratori avrebbero dovuto accertarsi che l'impresa e il direttore dei 
lavori si attivassero per adempiere all'incarico a loro affidato.
Sapendosi invece che questo intervento dell'appaltatore non veniva attuato 
immediatamente, spettava proprio a chi aveva i poteri autoritativi di adottare 
sull'area le misure autoritative indicate, e cioè in via decrescente la 
chiusura, il transennamento o il piantonamento della zona, tutti provvedimenti 
che avrebbero impedito al MERLINO di appoggiarsi alla ringhiera e poi 
precipitare nel vuoto.
Ne consegue che il Sindaco e l'Assessore competente assumono, nei reati colposi, 
una posizione di garanzia nel caso che non adottino alcun provvedimento urgente 
atto ad eliminare una situazione di pericolo di cui sono consapevoli. Essendo 
infatti dotati di poteri autoritativi sia per allestire un intervento atto ad 
eliminare il pericolo, ovvero per disporre le cautele necessarie, non si ravvisa 
la colpa omissiva impropria ex art. 40, 2° comma, c.p., solo nei casi in cui non 
si abbia conoscenza di tale situazione di pericolo, ovvero non si abbia la 
possibilità concreta, anche con la normale diligenza, di porre in atto i rimedi 
utili per sanare la fonte del medesimo pericolo.
Tale principio non è in contrasto con quanto affermato recentemente da questa 
stessa sezione della Suprema Corte con la sentenza n. 24030 del 27.2.2004, con 
la quale è stato ritenuto non responsabile un Sindaco per l'incidente mortale 
occorso ad un giovane caduto da un pennone della bandiera, sul quale si era 
arrampicato nel corso di una manifestazione nella piazza del Comune. In tale 
caso la presenza del pennone non costituiva di per sé alcuna fonte di pericolo 
prevedibile, e l'incauta condotta del giovane si è posta come causa unica 
dell'evento letale, essendo comportamento imprevedibile l'arrampicarsi su di 
esso.
Al contrario l'appoggiarsi ad una ringhiera rientra in un comportamento del 
tutto ordinario e prevedibile, per cui la sua conosciuta instabilità, unita 
peraltro alla cognizione di una insicurezza di tutta l'area, costituisce 
comportamento omissivo, causa dell'evento mortale, da parte di chi, pur 
potendolo fare, non ha adottato le cautele necessarie per impedire l'evento.
Da quanto esposto risulta infondato anche il quarto ed ultimo motivo di ricorso, 
secondo il quale l'evento sarebbe conseguenza esclusiva di una condotta 
altamente imprudente ed imprevedibile della vittima, che avrebbe dovuto 
facilmente individuare lo stato di pericolo, e non appoggiarsi alla ringhiera. 
Invero, i ricorrenti non indicano neppure specificamente quali fossero gli 
elementi idonei a fare riconoscere la situazione, ma si evince dalla lettura 
della sentenza impugnata che dovrebbe trattarsi di un nastro bicolore appoggiato 
sulla ringhiera.
Correttamente la Corte di merito ha ritenuto che l'eventuale concorso di colpa 
del danneggiato non esclude la responsabilità di chi ha omesso di adottare le 
misure di sicurezza. Indipendentemente da quanto sostenuto nella sentenza di 
appello sulla possibilità di un malore improvviso o di altra causa sconosciuta, 
anche il compimento di un atto consapevole ed imprudente della vittima non 
consente di configurare l'ipotesi di cui all'art. 41, 2° comma, c.p., secondo il 
quale "le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità, quando sono 
state da sole sufficienti a determinare l'evento".
E' giurisprudenza costante di legittimità che tale causa debba configurarsi come 
del tutto imprevedibile e opinabile e tale, dunque, da presentare i caratteri 
dell'eccezionalità, dell'abnormità e dell'esorbitanza, e in assenza 
dell'adozione di idonee misure di sicurezza (Cass. 3.11.2004 n. 3455; Cass. 
9.4.2005 n. 23279). Tale principio giurisprudenziale, pur applicato solitamente 
per gli infortuni sul lavoro, si estende ai casi di colpa omissiva impropria, in 
quanto il mancato impiego delle cautele necessarie per impedire l'evento 
mantiene la sua efficacia causale pur in presenza di una condotta concorrente 
imprudente della vittima, rilevandosi peraltro nella specie che con l'adozione 
delle semplici misure di sicurezza più volte indicate, il MERLINO non avrebbe 
avuto la possibilità di appoggiarsi alla ringhiera instabile.
Al rigetto dei ricorsi consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., la condanna in 
solido di tutti i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché alla 
rifusione delle spese sostenute per questo grado di giudizio dalle costituite 
parti civili, che vengono liquidate come da dispositivo.
P. O. M.
La Corte rigetta i ricorsi e condanna in solido i ricorrenti al pagamento delle 
spese processuali, nonché alla rifusione alle parti civili EIKE Lorenz e MERLINO 
Marco delle spese sostenute in questo grado, che si liquidano in E 2.688,00, di 
cui E 2.240,00 per onorario, oltre NA e CPA.
 
Cosi deciso in Roma il 29 novembre 2005
 Tutti i diritti 
sono riservati - Copyright © - AmbienteDiritto.it
 Vedi 
altre: 
SENTENZE PER ESTESO  
Ritorna alle
  MASSIME della sentenza  -  Approfondisci 
con altre massime:
GIURISPRUDENZA  -  
Ricerca in: 
LEGISLAZIONE  
-  Ricerca 
in:
DOTTRINA
www.AmbienteDiritto.it