Per altre sentenze vedi: Sentenze per esteso
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CORTE DI CASSAZIONE Sezioni Unite Civili, del 19 settembre 2005 (Ud. 19/05/2005), Sentenza n. 18450
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE 
DI CASSAZIONE Sezioni Unite Civili, del 19 settembre 2005, Sentenza n. 18450
Presidente V. Carbone, Relatore A. Criscuolo - Ceciarini
Omissis
Svolgimento del processo
Con convenzione stipulata il 27 marzo 1987 tra il Comune di Isola del Giglio e 
l'ing. Alessandro Ceciarini l'ente territoriale affidò al professionista la 
redazione del progetto dei lavori per la costruzione di una rete idrica relativa 
ai centri abitati di Giglio Castello, Giglio Porto e Giglio Campese. Nella 
convenzione fu pattuito che il pagamento del compenso al professionista restasse 
subordinato alla condizione che il Comune ottenesse dagli enti competenti il 
finanziamento dell'opera.
Espletato l'incarico l'ing. Ceciarini, non avendo ottenuto il compenso, promosse 
il procedimento arbitrale (previsto dalla convenzione d'incarico) al fine di 
ottenere la condanna del Comune al pagamento dì lire 100.954.726, con i relativi 
interessi, a titolo di onorari e rimborso spese per l'attività professionale 
espletata.
Il Comune contestò la domanda, in quanto il pagamento del compenso era 
subordinato alla condizione, non avveratasi, del finanziamento dell'opera.
La parte privata replicò che la condizione doveva ritenersi inefficace, in 
quanto meramente potestativa, e comunque contraria al principio d'inderogabilità 
della tariffa professionale. Addusse, inoltre, che la condizione, se valida, si 
sarebbe dovuta ritenere avverata essendo mancata per fatto imputabile al Comune, 
tenuto comunque al risarcimento del danno, e che l'opera almeno in parte era 
stata finanziata.
Il collegio arbitrale, espletata una consulenza tecnica ed acquisita agli atti 
la documentazione prodotta, con lodo del 9 ottobre 1998 condannò l'ente 
territoriale a pagare all'ing. Ceciarini la somma di lire 65.000.000=, con i 
relativi interessi, nonché i 2/3 delle spese di lite. Il collegio pervenne a 
tale statuizione ritenendo non configurabile la fattispecie di cui all'art. 1359 
c. c. (dato l'interesse di entrambe le parti all'avveramento della condizione), 
considerando valida la clausola che prevedeva la condizione medesima ed 
osservando, tuttavia, che il Comune non si era attivato con la dovuta diligenza 
nella richiesta di finanziamento, onde risultava inadempiente ai sensi dell'art. 
1358 c. c., con conseguente obbligo risarcitorio a suo carico, liquidato in 
misura pari al compenso spettante al professionista e ridotto del 20%.
Con citazione notificata il 15 febbraio 1999 il Comune di Isola del Giglio 
impugnò il lodo davanti alla Corte di appello di Firenze, adducendone la nullità 
per violazione degli artt. 1358 e 1359 c. c., per contraddittorietà, per 
violazione del principio di diritto secondo cui il giudice deve pronunciare "iuxta 
alligata et probata", per carente esame della documentazione prodotta e per 
mancata ammissione delle prove richieste in ordine all'impossibilità di ottenere 
un mutuo comunitario o di ricorrere a soluzioni alternative.
Il Ceciarini si costituì per resistere all'impugnazione, proponendo a sua volta 
impugnazione incidentale diretta a censurare il lodo nella parte in cui avrebbe 
illegittimamente decurtato il compenso minimo del 20% e deducendo l'errata 
interpretazione ed applicazione dell'art. 1359 c. c. nonché la nullità del lodo 
medesimo per carenza di motivazione sulle deduzioni proposte.
La Corte di appello fiorentina, con sentenza depositata il 17 luglio 2000, 
dichiarò la nullità del lodo e dichiarò che nulla era dovuto dal Comune al 
professionista in virtù del contratto stipulato tra le parti, compensando 
integralmente tutte le spese del giudizio, comprese quelle del procedimento 
arbitrale.
La Corte territoriale richiamò il principio (già affermato da questa Corte) 
secondo cui, qualora le parti abbiano subordinato gli effetti di un contratto 
preliminare di compravendita immobiliare alla condizione che il promissario 
acquirente ottenga da un istituto bancario un mutuo per poter pagare in tutto o 
in parte il prezzo stabilito - patto valido perché ì negozi ai quali non è 
consentito apporre condizioni sono indicati tassativamente dalla legge - la 
relativa condizione è qualificabile come "mista", in quanto la concessione del 
mutuo dipende anche dal comportamento del promissario acquirente nell'approntare 
la relativa pratica. La mancata concessione del mutuo, peraltro, comporta le 
conseguenze previste in contratto, senza che rilevi (ai sensi dell'art. 1359 c. 
c.), un eventuale comportamento omissivo del promissario acquirente, sia perché 
tale disposizione è inapplicabile nel caso in cui la parte, tenuta 
condizionatamente ad una data prestazione, abbia anch'essa interesse 
all'avveramento della condizione, sia perché l'omissione di un'attività in tanto 
può ritenersi contraria a buona fede e costituire fonte di responsabilità in 
quanto l'attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico, e la 
sussistenza di un obbligo siffatto deve essere esclusa per l'attività di 
attuazione dell'elemento potestativo di una condizione mista.
Nel quadro di tale principio, ritenuto applicabile alla fattispecie, la sentenza 
impugnata escluse l'applicabilità al caso in esame sia dell'art. 1359 c. c., 
attinente all'avveramento della condizione per il comportamento della parte 
dalla cui condotta l'avveramento stesso anche dipende, sia dell'art. 1358 c. c., 
relativo alla responsabilità nascente in capo a detta parte per comportamento 
non conforme a buona fede. In ciò ravvisò causa di nullità del lodo, in 
accoglimento della doglianza proposta dall'impugnante principale.
La Corte di merito, poi, rilevò che il contratto de quo prevedeva la concessione 
di un mutuo per l'esecuzione dell'opera la cui progettazione era stata affidata 
al Ceciarini, in assenza del quale nessun compenso era previsto per 
quest'ultimo, e ne dedusse che ai fmi di causa il Comune era tenuto alla 
richiesta del detto mutuo e ciò, com'era pacifico, era stato fatto, sicché 
l'ente territoriale aveva adempiuto agli obblighi derivanti dal contratto, non 
essendo obbligato in forza del contratto stesso ad ulteriori comportamenti. 
Pertanto, ad avviso della Corte fiorentina, dichiarato nullo il lodo per errore 
di diritto, andava altresì dichiarato che nulla era dovuto al Ceciarini dal 
Comune medesimo, restando assorbita ogni altr,sa domanda proposta dalle parti.
Avverso tale sentenza l'ing. Ceciarini ha proposto ricorso per cassazione, 
affidato a tre motivi illustrati con due memorie. Il Comune di Isola del Giglio 
ha resistito con controricorso. La prima sezione civile di questa Corte, cui il 
ricorso era stato assegnato, con ordinanza depositata il 5 giugno 2004 ha 
rilevato che, con il primo motivo del ricorso stesso, si poneva la questione 
della validità della clausola - apposta alla convenzione con la quale il Comune 
affida ad un privato l'attività professionale di progettazione di un'opera 
pubblica - che subordina il diritto al compenso all'ottenimento del 
finanziamento dell'opera progettata. Ha osservato, quindi, che su tale questione 
sussiste un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, perché in alcune 
sentenze si è affermato che il principio d'inderogabilità delle tariffe 
professionali (operante anche con riguardo alle prestazioni rese da ingegneri ed 
architetti allo Stato e agli altri enti pubblici, nei limiti indicati dall'art. 
4, comma 12 bis, del d. 1. n. 65 del 1989, introdotto dalla legge di conversione 
n. 155 del 1989) attiene al momento di liquidazione del compenso, ma non esclude 
che il professionista possa validamente sottoporre il suo diritto a riscuotere 
il compenso stesso a termine o a condizione, o anche a prestare la propria opera 
gratuitamente per i motivi più vari, che possono essere ispirati da mera 
liberalità ovvero da considerazioni di ordine sociale o di convenienza o, 
ancora, da prospettive di opportunità in relazione a personali ed indiretti 
vantaggi. Mentre nella sentenza n. 7538 ~t del 2002 si è deciso che deve essere 
ritenuta nulla la clausola, contenuta in un capitolato, la quale condizioni il 
pagamento del compenso a fmanziamenti futuri e incerti, ancorché l'ente pubblico 
abbia ricevuto l'intera prestazione professionale, in quanto in contrasto con la 
causa normalmente onerosa della prestazione.
In presenza di tale contrasto l'ordinanza ha ravvisato l'opportunità di 
rimettere gli atti al Primo Presidente per eventuale assegnazione del ricorso 
alle sezioni unite, considerato anche che era già all'esame di queste la 
questione (ritenuta connessa) concernente la validità dell'atto negoziale di 
conferimento dell'incarico al professionista nell'ipotesi in cui la relativa 
delibera dell'ente territoriale sia priva della previsione di spesa, in 
violazione dell'art. 284 del r. d. 3 marzo 1934, n. 383 (relativamente a 
fattispecie contrattuali realizzate nel vigore di detta normativa).
Il ricorso, quindi, è stato assegnato alle sezioni unite di questa Corte ed è 
stato chiamato all'udienza di discussione.
Motivi della decisione
1. Il resistente ha addotto l'inammissibilità del ricorso per cassazione, 
ritenendolo tardivo in quanto non sarebbe possibile cumulare due sospensioni dei 
termini per il periodo feriale. Tale eccezione (in senso lato, in quanto 
attinente a profilo rilevabile anche d'ufficio) non è fondata.
La sentenza impugnata fu depositata il 17 luglio 2000. Da tale data prese a 
decorrere il termine annuale di decadenza ex art. 327 c. p. c. ( in quanto essa 
non risulta notificata, com'è incontroverso), termine da calcolare ex 
nominatione dierum, cioè prescindendo dal numero dei giorni da cui è 
composto ogni singolo mese o anno, ai sensi dell'art. 155, comma 2°, del codice 
di rito civile (Cass., 11 agosto 2004, n. 15530; 3 giugno 2003, n. 8850; 7 
luglio 2000, n. 9068). Il detto termine, dunque, veniva a scadere il 17 luglio 
2001, ma esso doveva essere prolungato di 46 giorni (calcolati ex numeratione 
dierum, ai sensi del combinato disposto degli artt. 155, comma 1°, c. p. c. 
e 1, comma 1°, L. n. 742 del 1969: v. giurisprudenza ora cit.) per la 
sospensione durante il periodo feriale. Pertanto, dopo i primi 14 giorni (17/31 
luglio 2001), i residui 32 giorni non giunsero a compimento il 1 °settembre 2001 
(ricadente nel c. d. periodo feriale) ma presero a decorrere dopo la detta 
sospensione, cioè dal 16 settembre 2001 (incluso), giungendo a compimento il 17 
ottobre 2001. Poiché il ricorso per cassazione risulta notificato il 10 ottobre 
2001, l'impugnazione si rivela tempestiva.
La tesi del resistente, secondo cui non sarebbe possibile cumulare due periodi 
di sospensione, non può essere condivisa. Essa non trova riscontro nel dettato 
normativo ed anzi contrasta con la ratio della legge n. 742 del 1969, che - 
salve le eccezioni previste - ha comunque inteso evitare il decorso dei termini 
processuali nell'arco di tempo considerato da tale legge. Il punto, del resto, è 
stato già trattato da questa Corte, la quale ha affermato il principio secondo 
cui il termine annuale di decadenza dall'impugnazione che, qualora sia iniziato 
a decorrere prima della sospensione dei termini durante il periodo feriale, deve 
essere prolungato di 46 giorni ( non dovendosi tenere conto del periodo compreso 
tra il 1 ° agosto e il 15 settembre di ciascun anno) è suscettibile di ulteriore 
analogo prolungamento quando l'ultimo giorno di detta proroga venga a cadere 
dopo l'inizio del nuovo periodo feriale dell'anno successivo (Cass., 8 gennaio 
2001, n. 200; 20 marzo 1998, n. 2978). Ed a tale principio il collegio intende 
dare continuità, essendo esso conforme alla lettera ed alla ratio della citata 
legge n. 742 del 1969.
2. Con il primo mezzo di cassazione il ricorrente denunzia "omessa o 
insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia prospettato dalla 
parte o rilevabile d'ufficio. Violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c. 
p. c. Violazione degli artt. 36 Cost., 2233, 2° comma, c. c., dell'articolo 
unico della legge 5. 5. 1976 n. 340, degli artt. 1418 e 1419, 2° comma, c. c.".
Con il secondo motivo dell'impugnazione incidentale avverso il lodo l'ing. 
Ceciarini avrebbe riproposto - sotto il profilo della nullità del lodo per 
violazione di norme di diritto - la questione concernente la nullità della 
clausola che subordina la riscossione del compenso da parte del professionista 
al fatto, futuro e incerto, dell' avvenuto finanziamento dell'opera progettata.
Con il primo motivo avrebbe già impugnato il lodo, sotto il medesimo profilo di 
parziale nullità per contrasto con le norme imperative stabilite dall'art. unico 
della 1. 5 maggio 1976, n. 340, concernente la riduzione del 20% sui minimi 
tariffari.
Tali questioni avrebbero avuto indubbio carattere preliminare perché, se la 
condizione fosse stata dichiarata nulla e/o inefficace (sia per contrasto con le 
norme relative all'inderogabilità dei minimi tariffari, sia per contrasto con 
gli artt. 36 Cost. e 2233, 2° comma, c. c.), sarebbe stato inutile porsi il 
problema della operatività o meno degli artt. 1358 e 1359 c. c. (addotti invece 
dalla Corte di merito a motivo unico della propria decisione).
La Corte territoriale avrebbe omesso del tutto l'esame di tali censure, 
inserendole frettolosamente tra quelle "assorbite", laddove, poiché la questione 
circa la validità della condizione apposta avrebbe costituito un prius 
rispetto all'incidenza (agli effetti degli artt. 1359 e 1358 c. c.) del mancato 
avveramento della condizione stessa, la Corte distrettuale avrebbe avuto 
l'obbligo di pronunciarsi e di motivare sul punto.
Peraltro, qualora si dovesse considerare il rigetto della questione di nullità o 
inefficacia della clausola contenente la condizione come motivato per implicito, 
la sentenza impugnata si esporrebbe comunque a censura per violazione di legge.
Infatti, se l'art. unico della legge n. 340 del 1976 impone l'inderogabilità dei 
minimi tariffari tra privati (mentre, ai sensi dell'art. 4, comma 12 bis, del d. 
1. 2 marzo 1989 n. 65, aggiunto dalla legge di conversione n. 155 del 26 aprile 
1989, per le prestazioni rese dai professionisti allo Stato e agli altri enti 
pubblici relativamente alla realizzazione di opere pubbliche o comunque 
d'interesse pubblico, il cui onere è in tutto o in parte a carico dello Stato e 
degli altri enti pubblici, la riduzione dei minimi di tariffa non può superare 
il 20%), sarebbe erroneo il giudizio espresso dal collegio arbitrale, 
tacitamente avallato dalla Corte di appello, circa la rilevanza meramente 
disciplinare della deroga accettata dal professionista e la validità tra le 
parti della clausola condizionante la riscossione del compenso alla concessione 
del finanziamento dell'opera.
In presenza di una norma imperativa, la nullità della clausola di deroga sarebbe 
automatica in forza del combinato disposto degli artt. 1418 e 1419 c. c., senza 
necessità di specifica comminatoria di questa sanzione.
Tale principio sarebbe confortato non soltanto dall'art. 36 Cost. ma anche 
dall'art. 2233, comma 2°, c. c. che, stabilendo in modo tassativo che in ogni 
caso spetta al professionista un compenso in misura adeguata all'importanza 
dell'opera e al decoro della professione, escluderebbe l'ammissibilità dì 
pattuizioni dirette addirittura a mettere a rischio la possibilità di ottenere 
qualsiasi compenso.
Sarebbe vero che al professionista è consentito prestare gratuitamente la 
propria opera per vari motivi sociali o di convenienza, ma sarebbe anche vero 
che, come affermato da questa Corte (Cass., n. 10393 del 1994), al di fuori di 
questa ipotesi i patti in deroga ai minimi della tariffa professionale sono 
nulli.
Errato e contraddittorio, quindi, sarebbe il giudizio del collegio arbitrale, 
condiviso per implicito dalla Corte di appello, che - dopo avere esattamente 
affermato l'inderogabilità della tariffa e la insussistenza (ormai non più 
revocabile in dubbio, concernendo accertamenti e valutazioni sul fatto non 
impugnabili e non impugnate) di motivi idonei a giustificare la volontà del 
Ceciarini di prestare gratuitamente la propria opera, avrebbe poi escluso il 
diritto del professionista a conseguire il compenso, certamente non ravvisabile 
nella irrisoria somma per spese di lire 2.000.000, peraltro neppure pagata dal 
Comune contrariamente a quanto da questo dedotto, sicché la sentenza impugnata 
sarebbe viziata per omissione di pronuncia nella parte in cui avrebbe escluso 
totalmente il diritto al compenso anche per la somma ora citata, in ogni caso 
dovuta.
2.1. L'esame delle censure contenute nel primo motivo del ricorso richiede le 
seguenti considerazioni di carattere preliminare;
a) l'ordinanza di rimessione della causa a queste S. U. ritiene connessa alla 
questione di cui si tratta quella concernente la validità dell'atto negoziale di 
conferimento dell'incarico al professionista, nell'ipotesi in cui la relativa 
delibera dell'ente territoriale sia priva della previsione di spesa, in 
violazione dell'art. 284 del r. d. 3 marzo 1934, n. 383 (relativamente a 
fattispecie contrattuali sorte nel vigore di detta normativa).
Ad avviso di questa Corte, però, si tratta di questioni distinte, in quanto 
quella concernente l'interpretazione e l'applicazione del citato art. 284 (sulla 
quale questa Corte a s. u. si è pronunciata con sentenza 10 giugno 2005, n. 
12195) è imperniata per l'appunto sulla validità della delibera e sui riflessi 
della sua eventuale nullità (per mancata previsione della spesa) sul correlato 
rapporto di prestazione professionale, mentre nel caso in esame non è stato 
posto alcun problema circa la validità dell'atto amministrativo, né un problema 
del genere potrebbe sorgere in questa sede, in quanto esso postulerebbe sul 
contenuto della delibera accertamenti di fatto non compatibili con i limiti del 
giudizio di legittimità.
In questo processo, invece, è in discussione la validità di una '13 clausola 
contrattuale interna al rapporto di prestazione d'opera professionale e 
recante una condizione diretta a subordinare il pagamento del compenso al 
professionista ad un evento futuro e incerto, qual è il finanziamento dell'opera 
pubblica dal medesimo professionista progettata. Si tratta, dunque, di 
fattispecie diverse, che sono soggette a discipline giuridiche differenti;
b) la sentenza impugnata - sia pure attraverso la relatio a due 
sentenze di questa Corte (concernenti ipotesi non coincidenti con quella oggetto 
della presente causa ma ad essa ritenute "sovrapponibili": v. pag. 5-6 della 
statuizione qui impugnata) - ha considerato valida la clausola contenente la 
condizione, "poiché i negozi ai quali non è consentito apporre condizioni sono 
indicati tassativamente dalla legge", così respingendo in modo implicito le 
altre argomentazioni svolte dall'attuale ricorrente. Pertanto l'omissione di 
pronuncia addotta dall'ing. Ceciarini non è configurabile.
Neppure il dedotto vizio di motivazione può essere ravvisato, perché esso in 
realtà si risolve nella denunzia di un error in iudicando relativo 
all'interpretazione ed all'applicazione di norme giuridiche (senza necessità di 
ulteriori indagini di fatto, in relazione alle quali sia configurabile un 
difetto motivazionale) e sotto questo profilo deve essere in questa sede 
valutato come violazione di legge (art. 360, primo comma, n. 3, c. p. e.), nel 
quadro delle censure mosse dal ricorrente col primo motivo del ricorso in 
relazione alle quali l'ordinanza di rimessione ha ravvisato il contrasto 
sottoposto a queste S. U.
2.2. Tale contrasto concerne la validità o meno della clausola, inserita in un 
contratto d'opera professionale avente ad oggetto la progettazione di un'opera 
pubblica, clausola che condizioni il diritto al compenso del professionista alla 
concessione del finanziamento necessario per la realizzazione dell'opera.
Secondo un orientamento, che può considerarsi in larga misura prevalente, la 
clausola suddetta in linea di principio deve considerarsi valida (cfr., tra le 
più recenti, Cass., 8 ottobre 2004, n. 20039; 22 settembre 2004, n. 19000; 23 
maggio 2001, n. 7003; 22 gennaio 2001, n. 897; 9 gennaio 2001, n. 247; 21 luglio 
2000, n. 9587; 26 gennaio 2000, n. 863; 20 luglio 1999, n. 7741; 30 dicembre 
1993, n. 13008; 28 aprile 1992, n. 5061).
Tale orientamento si affida ad una pluralità di argomentazioni: così si è 
affermato che il principio stabilito dall'art. unico della legge 5 maggio 1976, 
n. 340 (che introdusse l'inderogabilità dei minimi di tariffa delle prestazioni 
professionali degli ingegneri e degli architetti), applicabile ai sensi 
dell'art. 6 (comma primo) della legge n. 404 del 1977 esclusivamente ai rapporti 
tra privati, non è violato dalla convenzione che preveda a favore del 
professionista la liquidazione dei soli compensi per lavori topografici, con 
esclusione dei compensi a vacazione, perché la ratio della norma restrittiva 
dell'autonomia contrattuale delle parti è che il professionista, per qualsiasi 
sua particolare ragione, non sia indotto a prestare la sua attività a condizioni 
lesive della dignità della professione (Cass., n. 5061 del 1992; n. 863 del 
2000); che la gratuità delle prestazioni professionali e la rinuncia al compenso 
non trovano ostacoli nella nullità dei patti in deroga ai minimi di tariffa, 
allorché siano fondate su specifici presupposti causali e non risultino quindi 
attuate per violare le norme sui minimi di tariffa, onde al professionista è 
consentita la prestazione gratuita della sua attività professionale per 
considerazioni di ordine sociale e di convenienza, anche con riguardo ad un suo 
personale ed indiretto vantaggio (Cass., n. 13008 del 1993); che in tema di 
prestazione d'opera intellettuale l'onerosità del relativo contratto, che ne 
costituisce elemento normale come risulta dall'art. 2233 c. c., non ne integra 
peraltro un elemento essenziale, né può essere considerato un limite di ordine 
pubblico all'autonomia contrattuale delle parti che, pertanto, ben possono 
prevedere la gratuità dello stesso (fattispecie in cui è stata ritenuta 
legittima la clausola contrattuale condizionante il diritto al compenso per la 
prestazione di un ingegnere, al quale un Comune aveva commissionato il progetto 
di un'opera pubblica, al conseguimento delle approvazioni richieste e dei 
finanziamenti pubblici: Cass., a 7741 del 1999); che la clausola contrattuale 
diretta a sottoporre il diritto al compenso, da parte del professionista 
incaricato del progetto di un'opera pubblica, alla condizione dell'intervenuto 
finanziamento dell'opera progettata non limita la responsabilità del committente 
del progetto, perché non influisce sulle conseguenze del suo eventuale 
inadempimento, ma piuttosto delimita il contenuto del mandato conferito, facendo 
derivare i diritti del mandatario dal progetto finanziato e non dal progetto 
soltanto redatto (Cass., n. 9587 del 2000; n. 19000 del 2004); che, quando un 
contratto d'opera professionale concluso da un ingegnere con un Comune prevede 
l'alternativa tra il pagamento del compenso secondo tariffa ovvero la 
prestazione gratuita dell'attività professionale in caso di mancato 
finanziamento dell'opera, si è fuori dall'ipotesi della violazione dei minimi 
tariffari e si versa nella fattispecie della prestazione gratuita dell'attività 
professionale, restando valida tra le parti la rinunzia al compenso (Cass., n. 
247 del 2001; n. 897 del 2001); che l'onerosità costituisce un elemento naturale 
ma non essenziale dei contratti di prestazione d'opera intellettuale, essendo 
consentito alle parti sia di escludere il diritto del professionista al compenso 
sia di subordinarlo al verificarsi di una condizione (Cass., n. 7003 del 2001).
Come si vede, al di là dei differenti profili argomentativi, la conclusione 
comune cui pervengono le pronunzie sopra richiamate è nel senso di ritenere 
valida la clausola che sottoponga il diritto al compenso del professionista, 
incaricato della progettazione di un'opera pubblica, alla condizione che tale 
opera ottenga i finanziamenti richiesta.
All'indirizzo maggioritario si contrappone un altro orientamento, alla stregua 
del quale l'art. 6 della legge n. 404 del 1977 - che, interpretando 
autenticamente l'art. unico della legge n. 340 del 1976, ne ha limitato 
l'applicazione ai rapporti intercorrenti tra privati - deve essere inteso nel 
senso che, nei rapporti tra ente pubblico e professionista privato cui il primo 
abbia affidato la progettazione di un'opera pubblica, sono validi gli accordi 
che prescindono dai limiti minimi stabiliti dalle tabelle salvo comunque, ove 
sia certa la natura onerosa del rapporto, il diritto del professionista alla 
percezione di una somma a titolo di compenso (che, nel contrasto tra le parti, 
deve essere determinato dal giudice, prescindendo dalle tabelle degli onorari), 
in quanto soltanto tale interpretazione consente di non snaturare la causa della 
prestazione, incidendo sul sinallagma contrattuale. Ne consegue che deve 
ritenersi nulla la clausola contenuta in un capitolato che subordini l'obbligo 
del pagamento del compenso per la prestazione resa a futuri e incerti 
finanziamenti (Cass., 23 maggio 2002, n. 7538).
Allo stesso orientamento, sia pur con una prospettiva in parte differente, può 
essere ascritto il principio secondo cui al professionista è consentita la 
prestazione gratuita della sua attività professionale per i motivi più vari, che 
possono consistere nell'affectio, nella benevolenza ovvero in considerazioni di 
ordine 'l 3 sociale o di convenienza, anche con riguardo ad un personale ed 
indiretto vantaggio. Al di fuori di questa ipotesi sono nulli i patti in deroga 
ai minimi della tariffa professionale (Cass., 28 giugno 2000, n. 8787; 3 
dicembre 1994, n. 10393).
2. 3. Il contrasto deve essere risolto in senso conforme all'orientamento 
prevalente, alla stregua delle considerazioni che seguono.
Si deve premettere che, ai fini della decisione, il richiamo all'art. 36 della 
Costituzione non è pertinente. Infatti, come questa Corte ha ripetutamente 
affermato, la disposizione ora indicata riguarda soltanto l'area del rapporto di 
lavoro subordinato e, dunque, non si applica al rapporto di lavoro autonomo, nel 
cui ambito rientrano le prestazioni dei liberi professionisti espletate a 
seguito di apposito incarico (Cass., 1 settembre 2004, n. 17564; 26 maggio 2004, 
n. 10168; 23 marzo 2004, n. 5807; 25 ottobre 2003, n. 16059; 28 gennaio 2003, n. 
1223; 26 febbraio 2002, n. 2861; 21 ottobre 2000, n. 13941).
Ciò posto, si osserva che le parti di un rapporto contrattuale ben possono 
prevedere, nell' esercizio dell'autonomia privata, che l'efficacia di 
un'obbligazione nascente dal contratto resti condizionata, in senso sospensivo o 
risolutivo, ad un evento futuro ed incerto (artt. 1322 - 1353 c. c.). Tale 
principio è applicabile in via generale anche alla convenzione con la quale un 
ente pubblico territoriale affidi ad un professionista l'incarico di provvedere 
alla redazione del progetto per la realizzazione di un'opera pubblica, in quanto 
tale atto non rientra nel novero dei negozi (c. d. actus legitimi o 
negozi puri) previsti dalla legge, cui non è consentito apporre condizioni o 
termini. Resta da stabilire se il detto principio debba trovare applicazione 
anche con riguardo alla specifica clausola contrattuale volta a condizionare il 
diritto al compenso, spettante al professionista, alla concessione del 
finanziamento necessario per la realizzazione dell'opera. Ed a tale quesito, ad 
avviso del collegio, va dato risposta affermativa.
Invero, nella disciplina delle professioni intellettuali il contratto 
costituisce la fonte principale per la determinazione del compenso, mentre la 
relativa tariffa rappresenta una fonte sussidiaria e suppletiva, alla quale è 
dato ricorrere, ai sensi dell'art. 2233 c. c., soltanto in assenza di 
pattuizioni al riguardo. Pertanto le limitazioni al potere di autonomia delle 
parti e la prevalenza della liquidazione in base a tariffa possono derivare 
soltanto da leggi formali o da altri atti aventi forza di legge riguardanti gli 
ordinamenti professionali (v. Cass., 29 gennaio 2003, n. 1317; 23 maggio 2000, 
n. 6732; 9 ottobre 1998, n. 10064; 11 aprile 1996, n. 3401).
Il primato della fonte contrattuale impone di ritenere che il compenso spettante 
al professionista, ancorché elemento naturale del contratto di prestazione 
d'opera intellettuale, sia liberamente determinabile dalle parti e possa anche 
formare oggetto di rinuncia da parte del professionista, salva l'esistenza di 
specifiche norme proibitive che, limitando il potere di autonomia delle parti, 
rendano indisponibile il diritto al compenso per la prestazione professionale e 
vincolante la determinazione del compenso stesso in base a tariffe.
Si tratta allora di verificare se, nell'apposita normativa concernente le 
professioni di ingegnere ed architetto, sussistano norme siffatte.
Orbene, la disciplina, introdotta con l'articolo unico della legge 5 maggio 
1976, n. 340, stabili l'inderogabilità dei minimi della tariffa professionale 
per gli ingegneri e gli architetti. L'art. 6, comma primo, della legge 1 luglio 
1977, n. 404, dispose che il detto articolo unico doveva "intendersi applicabile 
esclusivamente ai rapporti intercorrenti tra privati", disponendo poi nei commi 
successivi limiti ai compensi massimi per i casi d'incarichi di progettazione 
conferiti dallo Stato o da un altro ente pubblici a più professionisti per una 
stessa opera. Con l'art.4 comma 12 bis del D. L. 2 marzo 1989, n. 65, convertito 
con modificazioni dalla legge 26 aprile 1989, n. 155, fu disposto che "per le 
prestazioni rese dai professionisti allo Stato e agli altri enti pubblici 
relativamente alla realizzazione di opere pubbliche o comunque di interesse 
pubblico, il cui onere è in tutto o in parte a carico dello Stato e degli altri 
enti pubblici, la riduzione dei minimi di tariffa non può superare il 20%".
Nel caso di specie, come risulta incontroverso, la convenzione con la quale 
all'ing. Ceciarini fu affidato l'incarico professionale de quo fu sottoscritta 
il 27 marzo 1987 (v. ricorso per cassazione, pag. 2), sicché già per questo dato 
temporale il principio d'inderogabilità delle tariffe, a prescindere dalla sua 
interpretazione, non sarebbe invocabile, vertendosi in tema di negozio 
perfezionato prima del 1989, al quale quindi non sarebbe applicabile la 
normativa di cui alla sopravvenuta legge n. 155 del 1989. Ma, pur volendo 
trascurare il dato suddetto, si deve osservare, sul piano dell'interpretazione 
testuale, che nella normativa sopra citata manca una disposizione espressa 
diretta a sanzionare con la nullità eventuali clausole in deroga alle tariffe e, 
sul piano logico, che le norme sull'inderogabilità dei minimi tariffari sono 
contemplate non a tutela di un interesse generale della collettività ma di un 
interesse di categoria, onde per una clausola che si discosti da tale principio 
non è configurabile - in difetto di un'espressa previsione normativa in tal 
senso - il ricorso alla sanzione della nullità, dettata per tutelare la 
violazione d'interessi generali. Quel principio d'inderogabilità, invero, è 
diretto ad evitare che il professionista possa essere indotto a prestare la 
propria opera a condizioni lesive della dignità della professione (sicché la sua 
violazione, in determinate circostanze, può assumere rilievo sul piano 
disciplinare), ma non si traduce in una norma imperativa idonea a rendere 
invalida qualsiasi pattuizione in deroga, allorché questa sia stata valutata 
dalle parti nel quadro di una libera ponderazione dei rispettivi interessi. 
Queste considerazioni risultano ancor più valide in fattispecie come quella in 
esame, in cui il diritto al compenso vantato dal professionista non forma 
oggetto di una rinunzia espressa già in sede di stipula del contratto col quale 
l'incarico professionale è affidato, ma con apposita clausola viene condizionato 
al fmanziamento dell'opera, inserendosi quindi nel complessivo assetto 
d'interessi perseguito dalle parti col negozio posto in essere. In casi del 
genere, in realtà, non può neppure affermarsi che le parti abbiano voluto un 
negozio a titolo gratuito. Il contratto d'opera professionale resta 
(normalmente) oneroso, ma in esso è introdotto per volontà dei contraenti un 
elemento ulteriore, cioè un evento che condiziona il pagamento del compenso al 
finanziamento dell'opera, in assenza del quale quest'ultima non può essere 
eseguita.
Resta da dire (anche se la questione non risulta sollevata nella controversia in 
esame) che la detta clausola non è neppure configurabile come condizione 
meramente potestativa (in quanto tale nulla ai sensi dell'art. 1355 c. e.), 
perché la realizzazione dell'evento dedotto in condizione non è indifferente per 
nessuna delle due parti (onde non può dirsi dipendente dalla mera volontà di una 
di esse) e certamente risponde anche ad un interesse dell'ente pubblico. Né va 
trascurata la considerazione che, benché ai fini del finanziamento siano 
indispensabili atti d'iniziativa ad opera dell'ente pubblico richiedente, la sua 
concessione è un fatto che prescinde dalla volontà dell'ente, dipendendo anche 
da una serie di elementi esterni. La condizione de qua, dunque, va qualificata 
come condizione potestativa mista, la cui realizzazione è rimessa in parte alla 
volontà di uno dei contraenti ed in parte ad un apporto causale esterno (tra le 
più recenti: Cass., 28 luglio 2004, n. 14198; 22 aprile 2003, n. 6423; 21 luglio 
2000, n. 9587; 20 luglio 1999, n. 7741).
Nei sensi ora esposti l'orientamento seguito dalla giurisprudenza maggioritaria 
deve trovare conferma.
Le differenti opzioni ermeneutiche seguite (con talune diversità di motivazione) 
dall'orientamento di minoranza non si rivelano convincenti.
Infatti, non persuade la tesi (seguita dalla sentenza n. 7538 del 2002) secondo 
cui, nei rapporti tra ente pubblico e professionista privato cui il primo abbia 
affidato la progettazione di un'opera pubblica, sono validi gli accordi che 
prescindono dai limiti minimi stabiliti dalle tabelle, salvo comunque, ove sia 
certa la natura onerosa del rapporto, il diritto del professionista al pagamento 
di una somma a titolo di compenso, in quanto soltanto tale interpretazione 
consentirebbe di non snaturare la causa della prestazione, incidendo sul 
sinallagma contrattuale.
Infatti questa tesi, che pur riconosce la validità di accordi in deroga ai 
minimi stabiliti dalle tariffe, trascura di considerare che non può ravvisarsi 
violazione del rapporto sinallagmatico in una clausola liberamente pattuita che 
non incide sulla causa del contratto e tanto meno la nega, ma subordina 
l'efficacia di una obbligazione nascente da quel contratto ad un evento futuro e 
incerto, nell'esercizio di un'autonomia negoziale che, secondo la stesse 
sentenza, non trova ostacolo in imperative norme di legge.
E neppure appare persuasiva la tesi secondo la quale al professionista sarebbe 
consentita la prestazione gratuita della sua attività professionale per i motivi 
più vari (affectio, benevolentia, considerazioni di ordine sociale o di 
convenienza, anche con riguardo ad un personale ed indiretto vantaggio), mentre 
al di fuori di queste ipotesi sarebbero nulli i patti in deroga ai minimi della 
tariffa professionale. Infatti, nel momento in cui si ammette la prestazione 
gratuita dell'attività professionale "per i motivi più vari" (e, quindi, si 
esclude il carattere cogente delle tariffe in guisa da rendere indisponibile il 
diritto al compenso), non si giustifica poi la previsione di nullità per altre 
ipotesi (a questo punto, necessariamente di carattere residuale, attesa 
l'ampiezza dei motivi ipotizzati come validi), se non ricorrendo ad una 
alterazione del carattere sinallagmatico del rapporto contrattuale, in coerenza 
con la tesi propugnata dalla sentenza n. 7538 del 23 maggio 2002 ma qui non 
condivisa per le ragioni sopra esposte. Conclusivamente, a composizione del 
contrasto segnalato con l'ordinanza di rimessione, deve essere affermato il 
seguente principio di diritto:
"La clausola con cui, in una convenzione tra un ente pubblico territoriale e un 
ingegnere al quale il primo abbia affidato la progettazione di un'opera 
pubblica, il pagamento del compenso per la prestazione resa è condizionata alla 
concessione di finanziamento per la realizzazione dell'opera, è valida in quanto 
non si pone in contrasto col principio d'inderogabilità dei minimi tariffari, 
previsto dalla legge 5 maggio 1976, n. 340, come interpretata autenticamente 
dall'art. 6, comma 1, della legge 1 ° luglio 1977, n. 404, normativa cui ha 
fatto seguito l'art. 12 bis del d. 1. 2 marzo 1989, n. 65, convertito con 
modificazioni dalla legge 26 aprile 1989, n. 155.
Né tale clausola, espressione dell'autonomia negoziale delle parti, viene a 
snaturare la causa della prestazione, incidendo sul sinallagma contrattuale".
Alla stregua di tale principio il primo motivo del ricorso deve essere respinto.
3. Va poi esaminato con priorità, per ragioni di ordine logico, il terzo motivo 
del detto ricorso.
Con esso - denunziando motivazione insufficiente e contraddittoria su punto 
decisivo della controversia prospettato dalla parte, nonché violazione e falsa 
applicazione degli artt. 1358, 1359, 1375, 1175, c. c., violazione e falsa 
applicazione degli artt. 828, 829, 830 c. p. c. - il ricorrente censura la 
sentenza impugnata, sostenendo che essa avrebbe posto a base della pronuncia di 
annullamento del lodo (in fase rescindente) e di rigetto della domanda (in fase 
rescissoria) unicamente l'asserita inapplicabilità dell'art. 1359 c. c. alla 
condizione potestativa mista (che sarebbe stata affermata in due sentenze di 
questa Corte) e sull'estensione, operata dalla Corte di appello, della medesima 
ratio per escludere anche la responsabilità prevista dall'art. 1358 c.c..
Tale convincimento sarebbe erroneo e contraddittorio, in quanto - secondo la più 
recente giurisprudenza di questa Corte -l'applicabilità dell'art. 1359 c. c. 
resterebbe esclusa soltanto in caso di condizione potestativa semplice, mentre 
la norma andrebbe applicata in ipotesi di condizione potestativa mista. Inoltre, 
anche le sentenze richiamate dalla Corte territoriale non autorizzerebbero ad 
estendere l'applicabilità dell'art. 1359 alla condizione potestativa mista.
Non sussistendo la nullità del lodo per errore di diritto, cioè per violazione 
dell'art. 1359 c. c., la Corte di appello non avrebbe avuto il potere di 
scendere all'esame del merito e di sindacare la decisione del collegio 
arbitrale.
Né il Comune potrebbe addurre che l'art. 1359 c. c. non sarebbe operante perché, 
come accertato dal detto collegio arbitrale, non sarebbe esistito un interesse 
dell'ente contrario ad ottenere il fmanziamento. Invero al riguardo, col terzo 
motivo dell' impugnazione incidentale avverso il lodo (motivo totalmente 
ignorato, con conseguente omessa motivazione su punto decisivo) l'ing. Ceciarini 
avrebbe osservato che l'interesse contrario all'avveramento poteva rivelarsi 
anche per fatti concludenti e sopravvenuti, nel caso in esame costituiti dalla 
volontà di assumere un mutuo di 904 milioni per la costruzione di una caserma o 
di privilegiare altre opere o fonti di fmanziamento a totale carico dello Stato.
Tale interesse sopravvenuto sarebbe idoneo ad integrare l'interesse contrario 
all'avveramento previsto dall'art. 1359 c. c. Agli effetti di tale norma né gli 
arbitri né la Corte distrettuale avrebbero esercitato il potere-dovere di 
identificare la parte che in concreto, violando gli obblighi di correttezza, con 
il suo comportamento colposo o doloso aveva contribuito a modificare l' iter 
attuativo del contratto.
Ma, pur volendo considerare legittima e motivata la ritenuta inapplicabilità, 
nella fattispecie, dell'art. 1359 c. c., resterebbe pur sempre illegittima la 
mancata applicazione dell'art. 1358 c. c. (che era poi la norma sulla quale il 
lodo arbitrale si era basato).
La Corte di mento non avrebbe ritenuto applicabile detta norma estendendo la 
ratio che l'aveva portata a considerare inoperante l'art. 1359 e. c., cioè 
ritenendo priva di conseguenze la violazione dell'obbligo di buona fede da parte 
del contraente a favore del quale è stabilita una condizione potestativa mista. 
In altri termini, come in base all'art. 1359 c. c. non sarebbe sanzionabile con 
la fictio iuris dell'avveramento del fatto la parte che non si attiva per 
l'attuazione dell'elemento potestativo di una condizione mista, la stessa parte 
non sarebbe sanzionabile per tale mancata attuazione con la responsabilità 
risarcitoria prevista dall'art. 1358 c. c..
Questa tesi sarebbe errata e contraria al disposto dell'art. 1358 c. c. e della 
normativa di correttezza dettata, in particolare, dagli arti. 1175 e 1375 c. c..
L'art. 1358 c. c. sancirebbe una particolare e specifica applicazione del 
generale principio di correttezza e buona fede in materia contrattuale, senza 
distinzione di tipo (esclusa la condizione meramente potestativa, che non 
conferisce alt' altra parte alcuna aspettativa tutelabile o coercibile), la cui 
violazione darebbe luogo ad una responsabilità di tipo contrattuale. Invece 
l'art. 1359 c. c. presupporrebbe, da un lato, che uno dei contraenti abbia 
interesse contrario all'avveramento della clausola e, dall'altro, che la 
conseguenza del comportamento indebito non sia una responsabilità di natura 
risarcitoria bensì l'attuazione stessa del contratto, come se l'evento si fosse 
verificato. Non sarebbe dunque corretto, sul piano giuridico, sottoporre le due 
ipotesi alla identica disciplina, perché quella dettata dall'art. 1359 c. c. 
avrebbe carattere eccezionale, non suscettibile di applicazione analogica.
Inoltre gli arbitri avrebbero ravvisato a carico del Comune un vero e proprio 
obbligo, legale e contrattuale, di attivarsi per ottenere un finanziamento che 
non necessariamente avrebbe dovuto essere contratto con la Cassa DD. e PP., 
individuando la fonte di tale obbligo, oltre che nella convenzione, anche nella 
delibera in data 2 ottobre 1987, nella quale l'ente territoriale avrebbe 
esplicitato il proprio impegno a contrattare un mutuo con la detta Cassa oppure 
a ricorrere ad altre forme di finanziamento. Gli arbitri, poi, avrebbero dato 
conto degli elementi alla stregua dei quali l'ente non si sarebbe attivato allo 
scopo di ottenere il finanziamento per eseguire l'acquedotto progettato dal 
Ceciarini.
Il giudizio di responsabilità per violazione dell'obbligo di correttezza, di 
buona fede e di diligenza, espresso dal collegio arbitrale, non sarebbe stato in 
contrasto con i principi stabiliti dall'art. 1358 c. c. e non avrebbe potuto dar 
luogo a revisione alcuna nel merito da parte della Corte d'appello (tanto meno 
allo scopo di valutare la condotta diligente o meno del Comune nel richiedere il 
fmanziamento), non sussistendo né errore di diritto né vizio del lodo.
Le suddette censure sono parzialmente fondate, sicché vanno accolte per quanto 
di ragione, ai sensi delle considerazioni che seguono.
Si deve premettere che, come emerge dall'esposizione dei fatti contenuta nel 
ricorso per cassazione (in particolare, v. pag. 3), ed anche nel controricorso 
(in particolare, v. pag. 3, punto 5), il collegio arbitrale ritenne "non 
configurabile la fattispecie di cui all'art. 1359 c. c. (stante l'interesse di 
entrambe le parti all'avveramento della condizione dell'avvenuto fmanziamento 
dell'opera)", cioè negò "che la condizione possa dirsi avverata ai sensi 
dell'art. 1359 c. c." (controricorso, loc. cit.). Il lodo, quindi, escluse 
l'applicabilità dell'art. 1359 c.c., attinente all'avveramento della condizione 
per il comportamento della parte avente interesse contrario a tale avveramento, 
sicché il presunto errore di diritto individuato dalla Corte di appello con 
riguardo a tale norma in realtà non sussiste.
L'attuale ricorrente, invece, ritiene la norma medesima applicabile alla 
fattispecie de qua, lamentando che la Corte territoriale abbia del tutto 
ignorato il terzo motivo dell'impugnazione incidentale avverso il lodo proposta 
dal medesimo Ceciarini e diretta a porre in evidenza gli elementi a suo avviso 
idonei a configurare un interesse (sopravvenuto) del Comune contrario all'avveramento 
della condizione.
La sentenza impugnata però non ha esaminato questo punto, ritenendolo assorbito 
sull'erroneo presupposto che gli arbitri avessero applicato l'art. 1359 c. c. e 
che anche ciò comportasse la nullità del lodo per errore di diritto. Ne deriva 
che, verificata l'erroneità di tale pronuncia, le censure mosse sul punto 
dall'attuale ricorrente, che postulano accertamenti di fatto (sul contenuto 
della clausola contenente la condizione nel contesto dell'intera convenzione, 
nonché sul comportamento delle parti) non compatibili col giudizio di 
legittimità, sono inammissibili in questa sede e restano affidate - per i 
profili di rito e di merito - al giudice del rinvio, se ed in quanto davanti al 
medesimo riproposte.
Restano da esaminare le censure imperniate sul disposto dell'art. 1358 c. e., 
che sono fondate nei sensi in prosieguo indicati.
La sentenza impugnata, con il solo riferimento alle massime estratte da due 
pronunzie di questa Corte (n. 10220 del 1996 e n. 11074 [ recte: 10074] 
del 1996), relative peraltro al solo art. 1359 c. c., ha escluso l'applicabilità 
alla fattispecie anche del detto art. 1358, pervenendo su tale base a dichiarare 
la nullità del lodo per asserito errore di diritto. Quest'ultima norma 
stabilisce, nello stato di pendenza della condizione, il dovere di ciascuna 
parte di comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell' 
altra parte.
Come questa Corte ha già avuto modo di chiarire, in tema di esecuzione del 
contratto la buona fede (in senso oggettivo) si atteggia come un impegno di 
cooperazione o un obbligo di solidarietà che impone a ciascun contraente di 
tenere quei comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali 
o dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, siano idonei a 
preservare gli interessi dell'altra parte senza rappresentare un apprezzabile 
sacrificio (Cass., 20 aprile 1994, n. 3775). Si tratta di un principio generale 
che, ad avviso del collegio, deve trovare applicazione anche nel quadro dell' 
art. 1358 c. c., sia pure con le precisazioni che seguono.
La clausola negoziale in esame nella presente controversia, come già sopra si è 
notato, integra una condizione potestativa mista, tale essendo quella il cui 
avveramento dipende in parte dal caso o dalla volontà di terzi, in parte dalla 
volontà di uno dei contraenti (v. la giurisprudenza prima citata). E non si può 
dubitare che, nella specie, la concessione del finanziamento dipendesse in parte 
dall'iniziativa del Comune (contraente della convenzione d'incarico 
professionale) e in parte dalla volontà del soggetto o dei soggetti che dovevano 
erogare il detto finanziamento.
Nella giurisprudenza più recente si è manifestato un orientamento diretto ad 
affermare che il contratto sottoposto a condizione mista soggiace alla 
disciplina dell'art. 1358 c. c., che impone alle parti '3 3 di comportarsi 
secondo buona fede durante lo stato di pendenza della condizione, con il limite 
che l'omissione di un'attività in tanto può ritenersi contraria a buona fede e 
costituire fonte di responsabilità in quanto l'attività omessa costituisca 
oggetto di un obbligo giuridico (Cass., n. 14198 del 2004; n. 6423 del 2003). 
Tuttavia la seconda delle sentenze citate aggiunge che un siffatto obbligo 
comunque non sarebbe configurabile per l'attività di attuazione dell'elemento 
potestativo della condizione mista (richiamandosi alla precedente sentenza di 
questa Corte 5 gennaio 1983, n. 9; ma v. anche Cass. n. 10074 del 1996, 
richiamata nella pronuncia impugnata). La prima, invece, afferma la sussistenza 
del detto obbligo anche per il segmento non casuale della condizione mista in 
quanto gli obblighi di correttezza e di buona fede, che hanno la funzione di 
salvaguardare l'interesse della controparte alla prestazione dovuta e 
all'utilità che essa assicura, impongono una serie di comportamenti che assumono 
la consistenza di "standards" integrativi dei principi generali e sono 
individuabili mediante un giudizio applicativo di norme elastiche (giudizio 
soggetto al controllo di legittimità al pari di ogni altro giudizio fondato su 
norme di legge).
Il collegio ritiene di dover condividere quest'ultimo orientamento, alla stregua 
delle considerazioni che seguono.
L'art. 1358 c. c. dispone che "colui che si è obbligato o che ha alienato un 
diritto sotto condizione sospensiva, ovvero lo ha acquistato sotto condizione 
risolutiva, deve, in pendenza della condizione, comportarsi secondo buona fede 
per conservare integre le ragioni dell'altra parte". La norma s'inserisce 
nell'ambito applicativo della clausola generale della buona fede, operante nel 
diritto dei contratti sia in sede di trattative e di formazione del contratto 
medesimo (art. 1337 c. c.), sia in sede d'interpretazione (art. 1366 c. c. ), 
sia in sede di esecuzione (art. 1375 c. c.).
La fonte dell'obbligo giuridico de quo, dunque, si trova appunto 
nel citato art. 1358, che lo stabilisce al fine di "conservare integre le 
ragioni dell'altra parte" e dunque gli attribuisce un chiaro carattere doveroso. 
Né convince la tesi secondo cui tale obbligo andrebbe escluso per il profilo 
attuativo dell'elemento potestativo della condizione mista.
Invero, il principio di buona fede (intesa, questa, nel senso sopra chiarito 
come requisito della condotta) costituisce ad un tempo criterio di valutazione e 
limite anche del comportamento discrezionale del contraente dalla cui volontà 
dipende (in parte) l'avveramento della condizione. Tale comportamento non può 
essere considerato privo di ogni carattere doveroso, sia perché - se così fosse 
- finirebbe per risolversi in una forma di mero arbitrio, contrario al dettato 
dell'art. 1355 c. c., sia perché aderendo a tale indirizzo si verrebbe ad 
introdurre nel precetto dell'art. 1358 una restrizione che questo non prevede e 
che, anzi, condurrebbe ad un sostanziale svuotamento del contenuto della nonna, 
limitandolo all'elemento casuale della condizione mista, cioè ad un elemento sul 
quale la condotta della parte (la cui obbligazione è condizionata) ha ridotte 
possibilità d'incidenza, mentre la posizione giuridica dell'altra parte 
resterebbe in concreto priva di ogni tutela.
Invece è proprio l'elemento potestativo quello in relazione al quale il dovere 
di comportarsi secondo buona fede ha più ragion d'essere, perché è con riguardo 
a quell'elemento che la discrezionalità contrattualmente attribuita alla parte 
deve essere esercitata nel quadro del principio cardine di correttezza.
Si deve, perciò, affermare che il contratto sottoposto a condizione mista è 
soggetto alla disciplina dell'art. 1358 c. c., che impone alle parti di 
comportarsi secondo buona fede durante lo stato di pendenza della condizione. E' 
vero che l'omissione di un'attività in tanto può costituire fonte di 
responsabilità in quanto l'attività omessa costituisca oggetto di un obbligo 
giuridico, ma tale obbligo, in casi come quello in esame, discende direttamente 
dalla legge e, segnatamente, dall'art. 1358 c. c., che lo impone come requisito 
della condotta da tenere durante lo stato di pendenza della condizione, e la 
sussistenza di un obbligo siffatto va riconosciuta anche per l'attività di 
attuazione dell'elemento potestativo di una condizione mista. Pertanto il 
giudice del mento deve procedere ad un penetrante esame della clausola recante 
la condizione e del comportamento delle parti, nel contesto del negozio in cui 
la clausola stessa è contenuta, al fme di verificare, alla stregua degli 
elementi probatori acquisiti, se corrispondano ad uno standard esigibile di 
buona fede le iniziative poste in essere al fine di ottenere il finanziamento.
Nel caso in esame la sentenza impugnata non si è conformata ai suddetti 
principi, escludendo in radice l'applicabilità alla fattispecie dell'art. 1358 
c. c., peraltro con il mero richiamo a due massime estratte da altrettante 
sentenze di questa Corte, relative alla (non coincidente) ipotesi di cui 
all'art. 1359 c. c. Pertanto essa deve essere cassata, dovendosi far luogo a 
nuovo giudizio rescindente, restando quindi assorbite, perché presuppongono la 
caducazione del lodo, le (insufficienti ed assertive) considerazioni attinenti 
alla fase rescissoria, e la causa va rinviata per nuovo esame ad altra sezione 
della Corte di appello di Firenze, che si uniformerà ai principi sopra enunciati 
e provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
Il secondo mezzo di cassazione, diretto a propugnare la tesi alla stregua delle 
quale la condizione, in realtà, si sarebbe avverata nel quadro dello stesso 
regolamento contrattuale, in quanto il fmanziamento sarebbe intervenuto, rimane 
a sua volta assorbito ed affidato al giudice del rinvio, se in quella sede 
riproposto.
P. Q. M.
La Corte suprema di cassazione, pronunziando a sezioni unite, rigetta il primo 
motivo del ricorso, accoglie per quanto di ragione il terzo, dichiara assorbito 
il secondo motivo, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese ad 
altra sezione della Corte di appello di Firenze.
Così deciso in Roma, il 19 maggio 2005, nella camera di consiglio delle sezioni 
unite civili della Corte suprema di cassazione.
Depositata in cancelleria 
oggi,19 SET. 2005
 
1) Pubblica Amministrazione - Urbanistica e edilizia - Contratto d’opera professionale - Compenso - Finanziamento - Condizione - Fattispecie. E’ valida la clausola con cui, in una convenzione tra un ente pubblico territoriale e un ingegnere al quale il primo abbia affidato la progettazione di un’opera pubblica, il pagamento del compenso per la prestazione resa viene condizionato alla concessione di un finanziamento per la realizzazione dell’opera. Presidente V. Carbone, Relatore A. Criscuolo. CORTE DI CASSAZIONE Sezioni Unite Civili, del 19 settembre 2005 (Ud. 19/05/2005), Sentenza n. 18450
Per ulteriori approfondimenti ed altre massime vedi il canale: Giurisprudenza
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