PROPRIETA’ EDILIZIA,DIRITTO URBANISTICO E FACOLTA’ DI EDIFICARE.
UNA ANTOLOGIA DI ORIENTAMENTI.
(*)
GUIDO ALPA, MARIO BESSONE, ANDREA FUSARO
In apertura di discorso sarà utile ricordare la nozione che di urbanistica offre Paolo Stella Richter nella monografia Profili funzionali dell’urbanistica, Milano, 1984, che qui in breve sintesi si richiama.
All’inizio degli anni Sessanta l’esplosione ricostruttiva del dopoguerra aveva portato la questione urbanistica all’attenzione dell’opinione pubblica; la dottrina aveva iniziato a frequentare i grandi temi, quali la natura del PRG. Furono avanzati progetti di riforma, ma i tempi non erano maturi. Mancava un’adeguata elaborazione scientifica come dimostra la l. 10/1977. Intervenne un progressivo ampliamento del concetto di urbanistica: l’evoluzione è generalmente colta attraverso il nodo proprietario, che tuttavia – se è quello fondamentale nella pianificazione urbanistica – è purtroppo irrisolto. Inoltre «il concreto contenuto dei singoli diritti di proprietà interessati dalla pianificazione non è che l’effetto o meglio uno degli effetti, della pianificazione stessa»: lo studio dei riflessi di questa ultima sulla proprietà non esaurisce lo studio di urbanistica. Occorre, quindi, evitare di identificare l’urbanistica con il regime della proprietà immobiliare.
La teorica della funzione sociale, oltre a non esprimere tutto il campo dell’urbanistica, non si risolve nella tematica della destinazione d’uso della proprietà immobiliare, coinvolgendo anche i rapporti soggettivi dell’equo rapporto sociale. Quindi non bisogna identificare l’urbanistica con il problema della funzione sociale.
La pianificazione urbanistica viene spiegata come una fattispecie procedimentale di atti di potere pubblico collegati a cascata per incidere sulle stesse situazioni, mantenendone una coordinazione. Questa concezione non corrisponde alla realtà effettuale, né descrive quella normativa. Gli strumenti urbanistici non hanno questa identità di funzione. Occorre enuclare principi ordinatori, muovendo dalla critica della visione dominante, mentre va escluso il ricorso al concetto di fattispecie procedimentale:i vari strumenti urbanistici sono per lo più eventuali, né vi è tra loro un ordine temporale necessario.
Il piano di lottizzazione ha assunto un ruolo alternativo rispetto al piano particolareggiato, di cui avrebbe dovuto costituire strumento attuativo. Va inoltre esclusa la concezione di pianificazione a cascata: il ruolo centrale non spetta allo Stato né alla Regione, ma al Comune (così già Mazzarolli, I piani regolatori urbanistici nella teoria giuridica della pianificazione, Padova, 1962, 520 il quale tuttavia si è spinto a configurare un ordinamento settoriale al cui vertice è il Comune cui appartengono i proprietari delle aree. Dissente Stella Richter, poiché ritiene oggetto dell’urbanistica il territorio piuttosto che l’attività dei costruttori). Inoltre è falsa la convinzione dell'inderogabilità delle previsioni del piano sovraordinato da quello sottordinato: basti pensare a licenze in deroga; immediata operatività dei vincoli specifici del PRG.
La legislazione più vicina evidenzia due esigenze:
- derogare allo strumento generale in occasione dell’approvazione di uno attuativo;
- svincolarsi dalle scelte pianificatrici, in occasione della localizzazione di una nuova opera pubblica.
Esiste un terzo profilo critico: i vari tipi di piano non hanno identica natura, funzione, oggetto, destinatari (stessa critica mossa in teoria generale alla teoria gradualistica della scuola di Vienna: il passaggio dal generale al particolare non avviene necessariamente nell’ambito della medesima funzione. Atteso che non tutti gli strumenti urbanistici hanno la medesima funzione, neppure hanno la stessa natura giuridica, cosicché questo non può essere assunto come criterio di classificazione.
Il problema della natura giuridica dei piani regolatori deve essere risolto caso per caso sulla base del diritto positivo. Criterio classificatorio può, invece, essere la funzione, con l’avvertenza che essa può non essere una sola: frequente l’inserimento nei PRG di prescrizioni puntuali.
Per determinare l’estensione del concetto di urbanistica, occorre muovere da acquisizioni ormai definitive: estensione dello strumento urbanistico generale all’intero territorio comunale; la generalità degli interessi relativi all’utilizzazione del territorio coinvolti dalla pianificazione urbanistica (il Consiglio di Stato ha legittimato le previsioni in tema di cave da parte dei PRG). Allo sganciamento dei PRG dallo stretto riferimento al nucleo abitativo si correla una disciplina riguardante parti inedificate e inedificabili del territorio in funzione della tutela dei fattori anche diversi dall’attività edilizia; compresa la classificazione a verde agricolo (vd. art. 11 l. 1187/1968).
L’evoluzione dell’apertura del PRG ad ogni tipo di interesse si completa con il recepimento della connessione con la tutela del paesaggio: l. 382/78 d.P.R. 616/77; ne risulta una competenza delle Regioni a imporre controlli su interventi rilevanti per l’ambiente e il territorio anche ove non importino trasformazioni edilizie e urbanistiche (Sorace, in Barbera e Bassanini (a cura di), I nuovi poteri delle regioni e delle enti locali, Bologna, 1978, p. 435). Quest’attribuzione alle regioni ha importato necessità di equilibrismi.
Si registra un intreccio tra l’assetto del territorio e altri profili, per es. tra la localizzazione di OO.PP. ed i finanziamenti: questo dimostra che non può essere classificata come urbanistica ogni attività che presenti interferenze con il territorio.
L’ampia nozione di urbanistica del d.P.R. 616/77 deve essere però considerata valutabile solo nelle specifico ambito; cosicché rimane da individuare l’elemento caratteristico e unificante, ricercandolo dal punto di vista della tecnica di intervento nel territorio, strumenti ed effetti. Queste le possibili finalità dell’intervento pubblico sul territorio:
1. conservazione di un valore già insito: es. tutela del patrimonio storico e ambientale.
Effetti: la preclusione di ogni intervento;
2. assicurare la realizzazione di un impianto/servizio utile per la collettività;
3. vigilare affinché l’attività in cui si concreta l’uso o la trasformazione del territorio non pregiudichi la libera e piena utilizzazione delle altre parti: problematiche di immissioni, perdita della luce o della veduta, tutte le diseconomie esterne in genere.Nel nostro ordinamento la soluzione di tutti questi problemi è sempre stato ritenuta compito dei pubblici poteri, stante la limitatezza del divieto degli atti emulativi, e ciò diversamente dagli USA ove le doctrine delle nuisance hanno strettamente connesso la proprietà immobiliare con la responsabilità civile (A. Gambaro), quindi proteggendo la proprietà contro il pubblico potere rispetto a una proprietà proclamata assoluta;
4. atti di pianificazione territoriale, volti a creare economie esterne.In questo ambito si cerca di differenziare i ruoli di varie parti del territorio, secondo una «relazionabilità delle varie destinazioni». L’urbanistica può allora definirsi come la «scienza che studia […] il modo […] di ottimizzare lo sfruttamento di quel bene essenziale di ogni collettività che è il proprio territorio»: dunque vi rientrano i punti (3) e (4), non i punti (1) e (2).
Peraltro riferirsi al territorio non significa che i singoli immobili trovino la loro regolamentazione nella disciplina urbanistica. Sono reperibili indicazioni legislative circa il concetto di urbanistica: da notare il divario tra enunciazioni di apertura e disciplina dettate sia nella l. 1150/1942 sia nella l. 10/1977. Posto a parte ha il d.P.R. 616/77 cosicché non ci si può arrestare all’idea della concentrazione di poteri in capo alla Regione.
Oggetto dell’urbanistica è il territorio nel suo complesso; finalità è l’ottimizzazione dell’uso o non uso. Risultano alcuni problemi:
1. discrezionalità insita negli atti: la funzione urbanistica di un’area non preesiste, ma è creata dall’autorità, e mancano limiti intrinseci relativi alle caratteristiche della zona e dell’area. Compito dell’autorità amministrativa è creare in questo modo nuovi valori;
2. coesistenza di scelte settoriali e scelte urbanistiche: è fondamentale il rapporto tra le due;
3. corretta ripartizione tra soggetti pubblici delle attribuzioni relative all’assetto del territorio: la concentrazione in uso solo soggetto previene i conflitti, ma trova limite nell’eterogenità delle due diverse scelte;
4. capacità di adattamento a esigenze future; criteri seguiti: imposizione degli standard massimi in difetto di una pianificazione specifica; divieto di modificazione definitiva del territorio finché non siano stati delineati i modi del suo utilizzo; principi di pianificazione aperta secondo cui per le zone a utilizzazione differita il piano deve indicare risultati complessivi/servizi, piuttosto che le modificazioni.
È possibile identificare di conseguenza quattro funzioni:
1. precettiva
2. gestoria
3. di controllo
4. sanzionatoria
La prima si scinde ulteriormente in
a) disciplina delle attività modificative del territorio;
b) disciplina dell’esercizio della funzione di pianificazione.
Momento centrale della prima è la funzione pianificatoria. Da cogliere la diversità tra pianificazione «del territorio» non conformativo della proprietà, e pianificazione conformativa della proprietà, a seconda che vengano solo individuati gli usi nell’insieme allocabili in una zona, oppure siano determinate le destinazioni d’uso della varie aree.
I.A) S’impone il coordinamento tra gli atti di disciplina urbanistica e quelli volti a soddisfare interessi specifici inerenti all’uso del territorio; è criticabile la tendenza a ricomprendere nell’urbanistica tutte le scelte che influenzano l’uso del territorio (vd. Torregrossa, La casa può diventare ufficio, Riv. giur. edil., 82, 1, 717 secondo cui «va escluso a priori che qualunque comportamento umano, solo perché suscettibile di incidere su interessi lato sensu urbanistici, sia perciò solo soggetto alla regolamentazione urbanistica», cfr. Cons. Stato 525/182), solo gli interventi dei pubblici poteri indirizzati alla disciplina dell’assetto del territorio.
Il criterio diverso è la finalità ultima: l’assetto del territorio nel suo complesso. Nella tutela degli interessi del settore può condizionarsi la stessa pianificazione urbanistica, come accade quando il provvedimento ha valenza dichiarativa di caratteristiche intrinseche al bene, ma l’intervento urbanistico si prefigge il coordinamento delle possibili destinazioni delle aree.
La funzione di salvaguardia del territorio non pianificato prende corpo nelle regole da osservare fino a quando sia approvato un PRG con un contenuto sufficientemente concreto; si tratta di un insieme di atti normativi e atti amministrativi. Tre le finalità:
a) risoluzione delle più gravi diseconomie;
b) salvaguardia delle compromissioni dell’assetto definitivo;
c) individuazione di un contenuto minimo della proprietà fondiaria per commisurare l’indennizzo.
Circa (a) si consideri come il PRG fosse eccezionale fino al 1942 quando la l. 1150 ha previsto la possibilità per ogni comune di dotarsene; prima vi erano i piani di ampliamento della l. 2359/1865 sull’espropriazione solo per i Comuni con un numero di abitanti superiore ai 10.000 e potevano «riguardare unicamente l’apertura o la rettificazione delle vie all’interno dell’abitato», e i piani generali delle grandi città, per il resto valevano regolamenti edilizi e c.c.. Oggi non tutto il territorio italiano è riguardato dal PRG (circa 70%) e la disciplina prepiano è ancora esistente, ma la sua funzione è diversa, è divenuta di salvaguardia delle future scelte pianificatorie. Non le limitazioni amministrative della proprietà privata (Fragola, Teoria delle limitazioni al diritto di proprietà, Milano, 1910; Vignocchi, Limitazioni amministrative, Enciclopedia del diritto, XXIV) quali regole per l’assetto del territorio, ma conservazione del territorio per future scelte del piano. Questa esigenza esisteva anche prima, e veniva soddisfatta mediante un utilizzo distorto dei regolamenti edilizi, e veniva negata laddove fosse bensì conforme agli strumenti in vigore, ma contrastasse con i progetti dell’ente: il Cons. Stato dichiarò illegittima questa prassi, ma la Cassazione la legittimò (vd. A. Gambaro) secondo una logica comprensibile ma non condivisibile. S. Richter critica la pretesa irrisarcibilità delle lesioni degli interessi legittimi.
L’obbligo di licenza fu imposto: dall’art. 220 t.u. sanitario 1265/1934 per i progetti rilevanti circa la salubrità; dall’art. 31 l. 1150/1942 per tutti i centri abitati per zone di espansione; dall’art. 10 l. 765/1952 con riferimento al PRG non approvato ma già adottato; con la l. 765/1967 art. 3 le misure di salvaguardia sono divenute obbligatorie cosicché la delibera comunale di adozione del PRG acquista efficacia esterna.
Al di fuori di questa legislazione e del rifiuto della licenza edilizia, il sistema ha trovato le difficoltà insite nella nozione di proprietà immobiliare liberamente e illimitatamente trasformabile, salvo atti limitativi e rapporti di vicinato nel c.c. e nei regolamenti edilizi. Quando la situazione esplose occorsero le leggi speciali di approvazione dei PRG nelle principali città con cui si vietarono le lottizzazioni edilizie fuori dai limiti del PRG senza il permesso comunale.
L’obbligo generalizzato di licenza edilizia fu affermato solo con la l. 765/1967: fino ad allora fuori dai centri abitati vi era assoluta libertà. Il divieto di lottizzazione era rivolto a controllare almeno gli insediamenti più cospicui nelle situazioni di non obbligo di licenza. La l. 765/1965 completa anche la disciplina della lottizzazione:
a) accollo al privato dei costi di urbanizzazione;b) strumento attuativo del PRG, alternativo al piano particolareggiato;
c) divieto di lottizzazione ante PRG;
d) opere di urbanizzazione necessario presupposto di ogni costruzione;
e) introdotti limiti massimi di edificazione nelle zone mancanti del PRG.
Vi è necessità di lottizzazione per le zone vergini che sono diverse dalle zone dotate di opere di urbanizzazione primaria ex l. 847/1964; in questa seconda ipotesi manca ancora la fisionomia dell’insediamento complessivo, e con il piano di lottizzazione si opera la dislocazione delle opere di urbanizzazione; se esse non esistono in fatto, ma risultano già determinate da uno strumento urbanistico, è sufficiente assicurarsi circa la loro futura realizzazione o da parte del Comune nel successivo triennio, o da parte dei privati tramite l’atto di obbligo.
L’innovazione della l. 765/1967 sancisce il principio fondamentale circa la priorità della scelta pubblica rispetto a quella privata su tutto il territorio, innovandone la struttura, se lo stesso «non sia stato ancora oggetto di sufficiente specifica pianificazione dei pubblici poteri». Al tempo stesso questa regola racchiude «il canone per l’individuazione del limite dei poteri pubblici sul territorio, che solo in via del tutto eccezionale si estendono sino alla scelta delle caratteristiche del progetto della singola costruzione, riservata invece dal sistema al proprietario interessato»; postulato quest’ultimo fondato sulla ritenuta vincolatività del potere di rilascio della concessione edilizia quale strumento di mero controllo dell’esistente disciplina urbanistica di zona. Ed ancora sul moderno concetto di lottizzazione come vero e proprio piano urbanistico.
Altra innovazione della l. 765/1967 furono gli standard: speciali in quanto rivolti agli organi della pianificazione; generali in quanto rivolti ai proprietari e fissano un massimo di edificabilità ante pianificazione.
Quindi con la l. 765/1967:
– è stata dettata una disciplina per l’intero territorio nazionale;
– si tratta di una disciplina funzionale alla futura pianificazione;
– il PRG non può più considerarsi diretto a limitare una proprietà tendenzialmente illimitata.
Circa il contenuto minimo garantito dell’art. 42 c.c., la Corte Costituzionale ha dato risposta positiva, operando però una scelta solo in senso indeterminato e negativo. C. Cost. 92/1982 ha sancito l’efficacia limitata dei vincoli urbanistici. Da rimarcare il carattere provvisorio e strumentale della funzione della salvaguardia, che peraltro rientra nell’urbanistica, a differenza dalla funzione di conservazione che è definitiva e opera in relazione alla mancanza di una pianificazione.
I.B) Nell’ambito delle attività precettive vi è poi la disciplina dell’esercizio del potere di pianificazione urbanistica. La normativa prevede sempre maggiori strumenti procedimentali di partecipazione degli interessati. L’ampiezza della discrezionalità della pianificazione urbanistica non consente predeterminazioni tali da imporre un meccanismo di perequazione tra i proprietari, cosicché non rimane che perseguire l’indifferenza della proprietà privata rispetto alle scelte urbanistiche; che però è un’utopia.
Due gli strumenti:- standard per l’elaborazione di piani;
- individuazione delle linee di distribuzione degli interventi nel territorio. Gli standard speciali sono previsti dall’art. 17 VIII e IX c. l. 765/1967;
nel 1968 esistevano già in tutto il territorio nazionale, a differenza dei piani territoriali di coordinamento introdotti già dalla l. 1150/1942, ma inattuati.
Nel nostro sistema i vari piani non hanno contenuto rigorosamente tipizzato. Il piano territoriale di coordinamento contiene direttive per i comuni, ed è inidoneo a costituire vincoli con effetti immediati sulla proprietà privata; è rivolto piuttosto a consentire che nell’elaborazione dello strumento urbanistico il comune possa tenere conto dei riflessi di opere statali su tutti gli aspetti socio-economici.
Sono estranei all’urbanistica i vincoli con finalità specifiche che nel conflitto con quelli urbanistici prevalgono (vd. art. 21, co. 2° l. 1089/1939), cosicché lo strumento successivo deve rispettarli (artt. 7 e 10 l. 1150/1942).
Numerose le leggi regionali di disciplina dei piani territoriali: in questi piani regionali si cumulano la funzione di programmazione della futura attività urbanistica, e la funzione di diretta disciplina di alcuni aspetti del territorio.
Il piano territoriale è inidoneo ad attuare il raccordo tra il momento economico e quello urbanistico: riaffiora la crisi della costruzione graduale e generalizzata della pianificazione. A livello regionale il piano deve mantenere natura di indirizzo e coordinamento, senza imporre vincoli e zonizzazioni (cfr. G. Morbidelli, La disciplina del territorio tra Stato e Regioni, Milano, 1974, p. 131).
II) Funzione pianificatoria significa conformazione del territorio: Stella Richter contesta il preteso principio generale della pluralità dei piani e della loro graduazione gerarchica.
L’art. 11, co. 2° l. 1150/1942 era oggetto di interpretazioni contrastanti: sino a fine anni Cinquanta prevaleva la tesi per cui da essi per i proprietari derivassero solo interessi legittimi, salvo per prescrizioni integrative del c.c. (vd. D’Angelo in Riv. giur. edil., 61,10,3); successivamente si è consolidata la visione della diretta rilevanza delle prescrizioni specifiche (Cons. Stato, V, 14.3.1959, 163). Le regioni vanno individuate nelle trasformazioni del dopoguerra: di qui la necessità sia di anticipare gli effetti del PRG, sia di contemplare tutte le possibili utilizzazioni del territorio, e contemplare sia le destinazioni imminenti sia quelle del tutto future. A quest’ultimo proposito vengono studiate tecniche pianificatorie elastiche, di obiettivi e non di mezzi. Ecco che coesistono prescrizioni specifiche, e altre generiche: il PRG perde la configurazione unitaria, e viene meno la contrapposizione tra strumento generale e strumento di attuazione. Infine, risulta definitivamente superata la problematica circa la natura dei piani, trattandosi di indagare sulle singole prescrizioni, e riconoscere natura attributiva di diritti soggettivi alle prescrizioni specifiche e vincolanti anche nei rapporti tra privati (quali distanze minime, prescrizioni di zona circa l’altezza massima di fabbricati) in quanto conformativi del contenuto del diritto di proprietà nei confronti di tutti i consociati; e invece carattere attributivo di interessi legittimi alle prescrizioni generiche, ove manca l’effetto conformative appunto perché non è ancora specificato l’uso che di quell’area dovrà farsi nell’ambito della destinazione solo globalmente definita (invece Giannini, Diritto amministrativo, Milano, 1970, II, p. 1232, identifica nell’effetto conformativo della proprietà l’incidenza tipica del PRG): conformazione del territorio, non della proprietà.
La zonizzazione come «scelta della funzione globalmente attribuita a ciascuna parte sufficientemente ampia del territorio» diviene il canone cui dovranno attenersi gli atti del comune, dai quali soltanto scaturirà l’uso di ogni area. Potrà trattarsi di zonizzazione aperta ove sia determinato solo il tipo di destinazione con una certa densità, oppure precisa, con indicazione della tipologia di edifici, distribuzione, distanze, volumetrie, altezza: ma questo maggiore o minore grado di specificità delle prescrizioni di zona non rileva per la natura di pianificazione del territorio oppure della proprietà, essendo invece decisiva la mancata determinazione della sorte della singola area. Anche nella pianificazione territoriale abbiamo atti da cui scaturiscono solo interessi legittimi.
La funzione propria dei PRG è conformativa del territorio, non della proprietà; nel momento successivo, di pianificazione conformativa della proprietà, manca la dimensione territoriale. A questa centralità della pianificazione non conformativa corrisponde la non sostituibilità dello strumento generale da parte di uno attuativo: la gerarchia è tra prescrizioni, non tra atti di pianificazione.
III) Funzione di gestione del territorio. Originariamente il PRG era privo di una dimensione temporale, sganciato da ogni ipotesi di sviluppo economico, e si concretava nel solo disegno fisico della zonizzazione: oggi mira a superarla anche a seguito dell’evoluzione normativa. Nella l. 1942 il piano riguardava solo la crescita edilizia delle città: atteso che le opere di urbanizzazione erano realizzate a cura e spese del comune, e la destinazione abitativa era spontaneamente attuata, la zonizzazione era solo architettonica, e non anche funzionale come è avvenuto sino a vent’anni fa. La situazione muta a seguito dell’allargamento dei compiti dell’urbanistica, quando si ritiene necessario passare a una considerazione globale del territorio.
Gli istituti attraverso i quali si attua questa funzione di gestione sono di due tipi:
A) atti strutturalmente analoghi ai piani particolareggiati però finalizzati a quelle utilizzazioni di aree che i privati non avrebbero interesse ad attuare (il piano di lottizzazione con cui il comune può accollare ai privati l’onere delle opere di urbanizzazione; PEEP; PIIP; i piani di recupero). In questa direzione per l’edilizia abitativa il comune si limita alla funzione conformativa della proprietà, eliminando l’onere della realizzazione delle opere di urbanizzazione; e recupera la pianificazione settoriale. Così il comune preserva la conservazione di varie destinazioni d’uso, mantenendo l’equilibrio territoriale predeterminato in sede di pianificazione.
B) Introduzione della disciplina temporale della pianificazione dapprima attraverso alcune norme di attuazione del PRG, poi con norme regionali; quindi con i programmi pluriennali di attuazione ex art. 13 l. 10/1977: «una remora alla realizzazione di edifici abitativi o di uffici privati può essere posta solamente per le esigenze di equilibrio territoriale […] non certo per finalità di natura economica o di mercato».
È irreversibile l’evoluzione dell’urbanistica che «da mero insieme coordinato di previsioni di destinazione d’uso distribuite sul territorio è ormai divenuta anche partecipazione e controllo attivi alla fase dell’attuazione […] sopratutto nel momento di realizzazione di infrastrutture e di servizi».
IV) Funzione di conformazione della proprietà: è propria di strumenti attuativi, nonché di quelle prescrizioni degli strumenti generali sufficientemente specifiche in ordine alla destinazione d’uso delle singole aree. Non è tale la concessione di costruzioni, salvi i casi eccezionali dei poteri di deroga previsti dal PRG/regolamento edilizio (già Cass. 18.7.1961, 1746, Riv. giur. edil., 61, I, 395 circa l’incidenza tra privati della concessione in deroga).
La questione costituzionale riguarda solo le prescrizioni a carattere conformativo che imprimono destinazioni diverse agli edifici e alla agricoltura, e trae origine dall’affermazione della C. Cost. 55/1968 della necessità di indennizzo per le espropriazioni sostanziali; contestata dalla dottrina (Giannini, Basi costituzionali del diritto privato, in Pol. dir., 1971, p. 443) ma che ha costretto il legislatore a prevedere l’efficacia non maggiore di cinque anni per i vincoli di inedificabilità finalizzate all’espropriazione, con l’art. 7 bis l.urb. introdotto dall’art. 2, l. 19.11.1968, n. 1189.
Successive modifiche legislative pur modeste hanno tuttavia variato i termini del dibattito: la l. 765/67 ha introdotto limiti massimi di edificabilità pur in difetto dello strumento urbanistico, cosicché la pianificazione conformativa «aveva perso il ruolo di strumento per l’imposizione di limitazioni a una preesistente facoltà edificatoria»; poi la l. 10/1977 art. 4/u.c. ha escluso l’edificabilità dei centri abitati senza strumento urbanistico generale; e al di fuori dei centri l’ha limitata molto, subordinandola comunque alla preesistenza di opere di urbanizzazione mancando le quali l’edificabilità è preclusa.
La C. Cost. 55/1968 ha fatto riferimento al contenuto attuale del diritto alla proprietà quale definito nel presente momento storico dal legislatore ordinario, ulteriormente precisando non essere dovuto indennizzo per le limitazioni imposte in modo generale: quindi il vincolo impeditivo dell’edificazione imposto dal PRG non può dirsi sopprimere una facoltà preesistente; può semmai dirsi il contrario.
Ma mentre la potestà conformativa del territorio produce effetti a tempo indeterminato, è soggetta a limiti quella conformativa di proprietà cui vengono fatte risalire «le indicazioni di piano regolatore generale, nella parte in cui incidono su beni determinati».
Questa diversità non ha a che vedere con quella posta dall’art. 872 co. 2° c.c. tra norme edilizie integrative e non del c.c.. Si critica alla differenza imperniata sulla «natura dell'interesse tutelato» seguita dalla Cassazione: per Stella Richter la differenza attiene al contenuto qualitativo della riparazione, non alla qualificazione della pretesa.
La diversità tra prescrizioni conformative del territorio oppure della proprietà corrisponde alla distinzione tra interesse legittimo e diritto soggettivo.
V) Funzione di controllo dell’uso del suolo.
La regola è quella del controllo preventivo sulla conformità dei progetti alla disciplina urbanistica della zona, cui si affianca la vigilanza del sindaco sul territorio. Mancando un controllo della corretta esecuzione del progetto al momento dell’ultimazione dei lavori si è cercato di utilizzare a questo fine il certificato di abitabilità previsto dal t.u. 1265/1934: prassi avversata dal Cons. di Stato, ma oggi forse legittimata dall’art. 15/XII l. 10/1977.
Con la l. 1967 si è completata l’estensione del controllo preventivo a tutto il territorio; poi è iniziata la fase opposta della sottrazione attraverso il silenzio – assenso, con la l. 94/1982. Nel 1983 il CNEL ha proposto la soppressione del controllo preventivo.
Stella Richter critica, ma sottolinea come la concessione edilizia abbia perso ogni elemento di discrezionalità, e sia ormai chiaro che non è attributiva di facoltà: vd. C. Cost. 5.5.1983, n. 127 secondo cui la concessione edilizia «non è attributiva di nuovi diritti, ma presuppone facoltà preesistenti», conformemente a quanto indicato da C. Cost. 5/1980. E talvolta l’autorizzazione è atto dovuto: art. 8 l. 94/1982. In ogni caso il comune non ha discrezionalità sull’«an» (Cass. 28.6.1948, 1014): solo discrezionalità tecnica, e non amministrativa.
Sussiste una pluralità di soluzioni rispettose della disciplina urbanistica, e la scelta tra esse è sottratta al potere pubblico essendo invece affidata al privato. Nel senso che il comune potrà bensì determinare in modo specifico il risultato ultimo della trasformazione immobiliare, ma dovrà farlo attraverso gli strumenti conformativi della proprietà: la delibera di comparto edificatorio, il piano particolareggiato, il piano di recupero. Non altro, «nel senso che appare incompatibile con la distanza temporale tra la sua adozione e l’attuazione delle relative previsioni l’inserimento di specificazioni costruttive di dettaglio in un piano regolatore generale». Inoltre «per disciplinare in modo specifico come dovrà essere realizzata la singola costruzione, occorre un interesse pubblico in tal senso, il quale a sua volta non potrà dirsi esistente che nelle zone di particolare rilievo ambientale, epperò all’interno del già costruito di interesse storico e artistico».
Quindi la disciplina di dettaglio degli edifici da costruire è «affidata al potere pubblico in casi del tutto eccezionali e sempre a opera dell’organo titolare della potestà conformativa della proprietà (cioè il consiglio comunale), non a opera dell’organo titolare della potestà di controllo (sindaco) e in sede di rilascio della concessione di costruzione (fa eccezione la cosiddetta concessione in deroga…)»: ne sono conferma gli artt. 4 co. 1° e 15 co. 2° l. 10/1977, nonché l’art. 31/uc l. 1150/1942 come interpretato dalla giurisprudenza secondo cui attraverso le «modalità esecutive» della concessione edilizia non possono imporsi obblighi ulteriori rispetto a quelli ricavabili dagli strumenti urbanistici e dal regolamento edilizio.
Quindi l’atto del sindaco è vincolato non perché non rimangano scelte da effettuare, quanto perché esse sono affidate al privato. La ratio dell’autorizzazione preventiva sta nel carattere tendenzialmente durevole e non sempre reversibile della trasformazione: di qui tre corollari. La superfluità della concessione per le trasformazioni facilmente reversibili; il carattere reale dell’autorizzazione, come tale trasferibile agli aventi causa, e rispetto al rilascio della quale non rilevano le caratteristiche soggettive dei richiedenti (infatti la giurisprudenza esclude la necessità della qualifica di imprenditore agricolo per l’ottenimento della concessione in zona agricola); l’illiceità dell’attività costruttiva svolta in assenza di concessione.
Non vale tuttavia l’opposto: la costruzione conforme a concessione può essere illegittima ove contrasti con la disciplina urbanistica, ed è suscettibile di essere dichiarata tale previo annullamento della concessione anche d’ufficio.
VI) Funzione di ripristino dell’equilibrio violato.
Dunque la concessione edilizia ha ad oggetto l’attività del costruire, e rappresenta solo un’autorizzazione al suo svolgimento, mentre è priva di rilevanza quanto al risultato delle attività. Occorre distinguere:
a) nei rapporti tra privati è del tutto irrilevante (Cass., 3.10.1973, 2472, Giust. civ., 1974,1, 930), rilevando invece la modificazione attuata;
b) nei rapporti tra privati e comune rende lecita l’attività costruttiva.
Ne consegue che nei rapporti tra privati è centrale il momento di ultimazione dell’opera, mentre in quelli con il comune lo è il rilascio tant’è che – importando solo la disciplina allora vigente – una costruzione può essere legittimamente ultimata in contrasto con la disciplina sopravvenuta, consentendo tuttavia al vicino che si ritenga danneggiato di reagire (secondo quanto illustrato da Cass. 2472/1973).
La funzione di chiusura della disciplina urbanistica, con cui non si determina la stessa, ma si reagisce alla sua violazione, è assolta dalle sanzioni amministrative. Vi è un principio non enunciato espressamente, ma ricavabile, secondo cui l’opera realizzata in conformità al progetto approvato non può essere oggetto di interventi repressivi fintanto che la concessione non sia stata annullata o dichiarata decaduta. In ogni caso la repressione riguarda solo la modificazione del suolo in quanto difforme dalla disciplina urbanistica sostanziale, non già in quanto attuata senza o in difformità dalla concessione. Quindi il parametro non è la concessione, ma la sua disciplina sostanziale: la concessione rappresenta solo un impedimento a un intervento repressivo della costruzione realizzata in base a concessione legittimamente rilasciata in conformità alla disciplina dell’epoca, che si trova in contrasto con quella sopravvenuta.
L’ipotesi speculare dell’opera regolare nella sostanza, ma realizzata in base a concessione illegittima per altro verso, e conseguentemente annullata in base a ricorso di altro proprietario, è prevista dall’art. 15 co. 9°, l. 10/77 da cui si trae «la regola che in realtà non è la illegittimità della concessione, ma è la irregolarità sostanziale della costruzione che, sola, può giustificare un intervento repressivo», conclusione su cui concorda la giurisprudenza. La quale non è, invece, altrettanto chiara circa la costruzione realizzata in difformità/assenza della concessione: mentre talora ha confermato la legittimità dell’ordine di demolizione, per Stella Richter ciò non può essere neanche quando la concessione in sanatoria non sia stata neppure richiesta. Questo perché il parametro della legittimità della costruzione non è la concessione.
Il sistema di reazione alle costruzioni irregolari è incentrato sulla demolizione del manufatto, che ha carattere oblatorio, ma non necessariamente finalità afflittiva: infatti la giurisprudenza l’ha sempre subordinata all’esistenza di un interesse pubblico alla rimozione. L’intervento repressivo è giustificato dal permanere della costruzione irregolare; di qui l’individuazione del destinatario dell’ordine di demolizione nel proprietario attuale ancorché non coincida con il costruttore; e altrettanto è stato affermato circa l’applicazione della sanzione pecuniaria (Cass., 8.9.1983, 5518, Giust. civ., 83, 1,3185). Ulteriore corollario è che la misura della sanzione pecuniaria va commisurata al valore del momento di applicazione, non dell’esecuzione dell’opera, ed è funzione essenziale e insopprimibile.
La posizione del privato è delineata diversamente a seconda dell’ideologia degli autori: protagonista, o prigioniero dei meccanismi di determinazione autoritativa. Il problema è «sapere se, al di là delle determinazioni autoritative che indubbiamente possono – in casi limite, epperò eccezionali – giungere fino a stabilire quale forma […], sussista una facoltà, di cui il proprietario è istituzionalmente titolare, che possiede la forza espansiva propria e caratteristica appunto del diritto di proprietà e che quindi tende automaticamente a riappropriarsi di tutti gli spazi non coperti da legittime prescrizioni del pubblico potere».
Stella Richter propone di muovere dalla premessa secondo cui la proprietà conformata non è soggetta a limitazioni estrinseche, e che solo la legge può modificare i modi di godimento dei beni. È eccezionale il piano che stabilisca le caratteristiche anche estetiche e di dettaglio delle singole costruzioni; ciò accade solo per i PEEP e i piani di recupero. Ciò significa che «per regola è riservata al privato la determinazione della forma che in concreto deve assumere il proprio immobile»: questa conclusione è l’unica costituzionalmente legittima, atteso che nella zonizzazione può intendersi ricompreso il risultato dell’assetto territoriale, ma non il profilo estetico e il dettaglio costruttivo se non in casi eccezionali.
La conclusione è che al privato compete un potere progettuale del proprio intervento, come si desume dal riferimento della legittimità della costruzione agli strumenti urbanistici, non alla concessione; dalla previsione legislativa della lottizzazione d’ufficio, non della progettazione d’ufficio; dal fatto che anche a seguito del rilascio della concessione è sempre il proprietario a rimanere responsabile sia del progetto sia della costruzione.
Ragioni culturali militavano a favore del mantenimento di questa sfera di libertà: mentre non è in gioco qui né la partecipazione diretta degli abitanti alle scelte pianificatorie – profilo che attiene al procedimento di formazione degli atti – né il maggiore coinvolgimento dei destinatari nella realizzazione di costruzioni (su cui Turner, Libertà di costruire, Milano, 1979).
Interessa «la libertà dell’individuo di progettare la propria abitazione o il proprio luogo di lavoro, cioè di concorrere a formare nei dettagli il proprio bene immobile» (art. 33 co. 1° Cost.).
In questa prospettiva massimamente rileva il <vincolo> urbanistico, la cui identità è ampiamente precisata nella monografia di L. Piscitelli, Potere di pianificazione esituazioni soggettive. I vincoli urbanistici, Padova, 1990, nelle pagine che qui si ripercorrono.
Introduzione
La l. 10/1977 non aveva regolato i vincoli urbanistici: la loro ricostruzione è opera della giurisprudenza. La questione si è sviluppata lungo l’alternativa tra inerenza e scorporo dello ius aedificandi, ma l’evoluzione ha dimostrato la maggiore proficuità dell’altra prospettiva, quella di identificare il tipo di prescrizione urbanistica; la categoria è determinata dal criterio dell’impatto della prescrizione urbanistica sulla situazione soggettiva del proprietario; la giustificazione dogmatica è data dalla teoria delle espropriazioni sostanziali.
La vicenda dei vincoli urbanistici è emblematica del modo di concepire il rapporto tra garanzia e limite sociale della proprietà. L’evoluzione più recente ha dimostrato come la questione dei vincoli urbanistici debba trovare collocazione lungo il versante della definizione della struttura e dei limiti dei poteri discrezionali della P.A. in ordine alle previsioni urbanistiche. Punto di attacco è la tipicità dei vincoli urbanistici, la cui fonte risiede nell’art. 2 l. 19.11.1968, n. 1187.
I. Origine e autonomia della categoria dei vincoli urbanistici.
Il vincolo connota diverse situazioni giuridiche senza che vi corrispondano significati; secondo una tesi esso designa semplicemente alcuni regimi giuridici limitativi di posizioni giuridiche rilevanti (A.M. Sandulli, Riv. trim. dir. pubbl., 1961, 810). Esso deve ricollegarsi a C. Cost. 55/1968, il cui presupposto teorico fu l’accoglimento della nozione di espropriazione sostanziale o «anomala». La questione della soglia oltre la quale la limitazione deve considerarsi espropriativa è speculare rispetto a quella dell’esistenza di un contenuto minimo essenziale della proprietà: in C. Cost. 6/1966 e 55/1968 l’utilizzo del bene è apprezzato in ragione della sua destinazione. Si noti che sia C. Cost. 55/1968 sia la giurisprudenza amministrativa hanno escluso il carattere vincolante degli indici di fabbricabilità, ma di recente vi è stata qualche sentenza contraria (vd. C. Cost. 260/1976).
La determinazione temporale come elemento definitorio opera in senso negativo, poiché l’apposizione di limiti ragionevoli esclude il carattere di vincolo. Questa è la prospettiva della C. Cost. 55/1968, condivisa da C. Cost. 260/1976. Mentre C. Cost. 575/1989 ha accentuato l’alternatività tra temporaneità e obbligo dell’indennizzo. Tuttavia la dimensione della temporaneità nella giurisprudenza della Corte è chiara solo per i vincoli preordinati all’espropriazione, non per tutti gli altri. L’art. 2 l. 1187/1968 ha invece limitato nel tempo l’efficacia di tutti i vincoli.
Sui vincoli di inedificabilità non espropriativi rileva C. Cost. 56/1968 che ha escluso l’indennizzo per il vincolo paesistico, in quanto corrisponde alle caratteristiche estrinseche del bene (già C. Cost. 6/1966), e i poteri della P.A. si limitano all’accertamento dell’esistenza della situazione presupposta attraverso un giudizio tecnico (vd. G. Morbidelli, in Riv. giur. edil., 1988, II, 123).
Analoga conclusione da parte della C. Cost. 133/1971 circa il limite di rispetto a tutela del tracciato stradale o autostradale; e C. Cost. 648/1988 circa il divieto della recinzione, del rimboschimento e degli ingombri delle piste sciistiche.
II. Tipologia dei vincoli urbanistici. Estensione della categoria.Occorre individuare la categoria dei vincoli urbanistici nell’ambito dell’applicazione dell’art. 2 l. 1187/1968. Si considerano vincoli di inedificabilità stanzialmente espropriativi:
a) vincoli di localizzazione;
b) vincoli di zonizzazione.
Ed inoltre:
c) inedificabilità in assenza di strumento urbanistico attuativo;d) zonizzazioni prevedenti ridottissima possibilità edificatoria;
e) prescrizioni circa conservazione dell’edilizia esistente;
f) divieto di attività economiche che comportano la trasformazione del bene (per es. attività estrattiva), oppure vietano una certa attività produttiva preesistente;
g) prescrizioni che impongano certe utilizzazioni o destinazioni d’uso.
Hanno tutte in comune l’effetto limitativo della facoltà di utilizzazione privata del bene. Tuttavia non hanno un contenuto costante, né una fisionomia unitaria.
Tra i vincoli diversi troviamo prescrizioni inibitorie di determinati utilizzi: per es. una cava (vd. Cons. Stato., Ad. plen., 9.3.1982, n. 3, Riv. giur. edil., 1982, I, 489 che l’ha giudicata ammissibile. Vd. pure C. Cost. 260/1976). Se preclude l’unica utilizzazione economica del bene, risulta evidente l’analogia con il vincolo di inedificabilità.
Le prescrizioni urbanistiche connesse alla disciplina delle utilizzazioni economiche degli immobili sono di non scontata inclusione nell’ambito legale del potere urbanistico.Due i profili:
a) riconducibilità strutturale ai vincoli urbanistici;
b) ammissibilità di un contenuto funzionale dello strumento urbanistico (vd. Cons. Stato 535/1982; 240/1985).
Quello sub (a) è ricondotto alla questione della tipicità del contenuto dell’atto urbanistico, sullo sfondo della riserva di legge;
quello sub (b) attiene alla pertinenza alla materia urbanistica, che molte sentenze hanno escluso (TAR Toscana, 10.12.1984, 1481, TAR, 85, 1, 601; Cons. Stato, VI, 31.1.1984, 25, Cons. Stato, 1984, 1, 80 circa l’illegittimità del vincolo alberghiero di PRG – e nello stesso senso Cons. Stato, V, 30.1.1984, n. 36, Foro amm., 1984, 1, 35 e TAR Toscana, 5.3.1986, n. 344, TAR, 86, 1828). L’art. 25 l. 47 ha accolto la prospettiva della stretta tipicità (Cons. Stato, V, 18.1.1988, n. 8, Foro amm., 88, 1, 85, sottolinea come l’art. 25.1.47 confermi il principio generale della tendenziale irrilevanza urbanistica delle destinazioni d’uso funzionali).
La questione è oggi quella dei limiti che il legislatore regionale e l’autorità pianificante incontrano nei precetti costituzionali. Sono ipotizzabili destinazioni che precludono ogni possibile utilizzo del bene, annullandone il valore: in questo caso si riproporrebbero tutte le questioni in tema di vincoli urbanistici. Ad esempio la destinazione di un immobile privato a usi collettivi, lo rendono incommerciabile se non a fronte di determinati soggetti; e dovrebbe escludersi l’immediata operatività (secondo Cons. Stato, VI, 25/1984 le indicazioni del PRG «sono di tale natura da incidere sul diritto di proprietà, non sui modi di esercizio dell’iniziativa economica privata»).
Circa il vincolo da «tutele concorrenti» vd. l’art. 7 n. 5 l. 1150/1942 in ordine ai vincoli nelle zone storiche, ambientali, paesistiche, che possono implicare il vincolo di inedificabilità. Vincoli urbanistici di questo tipo possono essere imposti anche al di là di quelli ex l. 1089/39 o 1415/39. Emerge qui l’arbitrarietà della distinzione tra vincoli urbanistici, e altri coessenziali al bene per il suo valore paesistico. Constano oscillazioni della giurisprudenza amministrativa circa il carattere espropriativo, e la indennizzabilità di questi vincoli.
Le localizzazioni presentano la caratteristica di essere vincoli preordinati alla espropriazione. Il problema sorge solo quando la previsione della localizzazione preclude ogni utilizzo del bene finché rimane di proprietà del privato. In giurisprudenza è ormai pacifica l’immediata precettività dei vincoli di localizzazione (Cons. Stato, IV, 10.7.1970, 522, Riv. giur. edil., 71, I, 154). Qui rileva non la destinazione finale, ma l’inedificabilità interinale.
La differenza tra zonizzazioni e localizzazioni ha ormai rilievo formale.
I vincoli di rinvio sono previsioni di PRG che rimettono a singoli strumenti attuativi la specificazione, subordinando a essi il rilascio di concessioni edilizie. Il meccanismo del rinvio implica una prescrizione di immodificabilità del bene, e per questo comporta la assimilazione al vincolo di inedificabilità.
III. Il regime del vincolo urbanistico
L’art. 2 l. 1187/68 ha previsto la durata quinquennale dei vincoli preordinati all’espropriazione e a quelli di inedificabilità. C. Cost. 92/1982 ha affermato la sopravvivenza di questa disposizione alla l. 10/1977 (Alpa, Riv. giur. edil., 82, II, 442).
Sulla temporaneità del vincolo Cons. Stato, Ad. plen., 2.4.1984, Le Reg., 84, 998 ha condiviso la tesi della vigenza dell’art. 2, co. 1°, l. 1187/1968; indirizzo ormai costante.
Tratto fondamentale è dunque la necessaria temporaneità del vincolo: cinque anni, salva l’aggiunta della durata (decennale) dei piani particolareggiati. Dal punto di vista del procedimento di pianificazione significa che il PRG, nelle parti in cui sia riconoscibile l’effetto vincolistico, deve essere attuato nel quinquennio.
Riconoscere l’applicabilità della l. 1187 ai vincoli sostanziali significa ammettere che al PRG è preclusa l’adozione di scelte di assetto territoriale a effetto privativo dell’edificabilità che abbiano carattere definitivo. C. Cost. 139/1974 ha respinto la questione di costituzionalità: quindi il sistema esclude l’applicabilità ai vincoli sostanziali del regime stabilito per quelli strumentali. L’art. 2 l. 1187 è riferito ai soli vincoli strumentali: del resto C. Cost. 92/1982 ha avuto riguardo ai soli vincoli preordinati all’espropriazione. La giurisprudenza amministrativa risolve in termini di invalidità, e non di temporaneità, la posizione delle prescrizioni di zonizzazione che stabilizzano senza indennizzo l’inedificabilità assoluta (Cons. Stato, IV, 7.6.1984, 434, Riv. giur. edil., 84, l.,701; ma vd. Cons. Stato, IV, 16.2.1987, 90, Foro it., 88, III, 85). Ne conseguirebbe l’inammissibilità delle destinazioni a contenuto sostanzialmente espropriativo, se non nell’ambito delle previsioni di localizzazione, ossia per il tramite dei vincoli preordinati all’esproprio.
La giurisprudenza ritiene illegittima la prescrizione del piano configurante un «vincolo di rinvio» che subordini l’edificazione al piano particolareggiato preventivo, senza stabilire un congruo termine per la sua approvazione.
Nei vincoli sostanziali tra destinazione urbanistica e vincolo vi è identità, non invece in quelli strumentali. Qui si ammettono limitati interventi purché non compromettano l’attuazione del piano (Cons. Stato, V, 27.4.1988, 268, Riv. giur. urb., 88, 277 sul vincolo ai servizi). Si ritengono esclusi dal vincolo di rinvio gli interventi assoggettati ad autorizzazione edilizia. Cons. Stato, V, 6.10.1986, 497, Cons. Stato, 86, l, 1516 ha escluso l’estensione del vincolo di rinvio alla trasformazione della destinazione d’uso che non comporti aumento di volumi e superfici.
La giurisprudenza esclude che l’obbligo del piano di lottizzazione previsto dal PRG sia ostativo al rilascio di una concessione edilizia quando il lotto ricade in zona le cui aree contermini siano già legittimamente urbanizzate, oppure inedificabili (Cons. Stato, V, 28.12.1989, 914, Cons. Stato, 1989, l, 1562).
IV. Il regime urbanistico delle aree svincolate. Poteri dell’amministrazione e posizione giuridica del proprietario.
Circa la decadenza i problemi da definire sono:I) la disciplina applicabile a seguito della sopravvenuta inefficacia del vincolo;
II) i poteri della P.A. sulle aree non più vincolate.
È possibile la differenza tra vincolo e destinazione solo per i vincoli strumentali, non per quelli sostanziali.
La relatività della decadenza comporta che essa non è opponibile al proprietario che abbia intrapreso l’attuazione della destinazione. Circa il regime applicabile, C. Cost. 92/1982 ha indicato l’assoggettamento alla disciplina urbanistica in genere; Cons. Stato 7/1984, 10/1984 e 12/1977 ha precisato l’applicabilità nelle aree svincolate degli standard urbanistici generali ex art. 4 l. 10/1977.
In realtà le aree interessate da vincoli decaduti sono sprovvisti di una disciplina urbanistica in senso proprio, essendo solo soggette a standard edificatori: il bene è privo di alcuna destinazione urbanistica.
Anche i vincoli di rinvio, in quanto strumentali, sono soggetti alla decadenza ex art. 2 l. 1187/1968. L’effetto caducatorio non si estenderebbe alla destinazione di zona stabilita dal PRG, cosicché verrebbero meno i presupposti per l’applicazione degli standard.
Il riesercizio della pianificazione urbanistica è doveroso atteso che gli standard consentono un livello di edificabilità modesto. Peraltro la tutela offerta al proprietario è quella che gli garantisce il sistema di giustizia amministrativa e nei limiti dell’irrisarcibilità della lesione dell’interesse legittimo.
La ridefinizione della disciplina delle aree svincolate avviene attraverso:a) strumenti formali (curiosamente la giurisprudenza parla di «variante»);
b) la reiterazione del vincolo: il potere della P.A. non ha limitazioni diverse da quelle originarie.
La giurisprudenza ha individuato alcuni limiti circa il potere di riprodurre il vincolo dopo la sua scadenza: in particolare la necessità di adeguata motivazione (Cons. Stato 461/87). La reiterazione consente il protrarsi del vincolo nel tempo. La possibile durata indefinita nel tempo dei vincoli urbanistici si traduce in modelli ripristinatori di situazioni cripto-ablative. Il contenuto della proprietà si esaurirebbe nelle garanzie procedimentali, ciò che solleverebbe dubbi di costituzionalità.
V. Principi costituzionali, disciplina del potere di pianificazione, discrezionalità amministrativa e vincoli urbanistici.
Dunque la questione dei vincoli urbanistici non può essere semplicemente ricondotta alla questione del contenuto minimo della proprietà, ma si collega al tema dei limiti al potere pianificatorio della P.A.Due i profili dell’art. 42 Cost.:
a) limiti interni, ossia potestà pianificatoria della P.A.;
b) limiti alla conformazione del contenuto minimo essenziale.
La riserva di legge si sostanzia nella necessità della specifica predeterminazione normativa dei limiti alla potestà della P.A. nella materia riservata.
Secondo una tesi la portata della riserva di legge viene fatta coincidere con il principio di legalità: ma in margine all’art. 42 Cost. la posizione della Corte si è nettamente distinta da quella osservata in ordine alle altre ipotesi di riserva di legge. Inizialmente ammise l’affidamento alla P.A. di una discrezionalità tecnica (C. Cost. 38/1966); poi ha individuato il limite nel co. 3° art. 42 Cost..
Circa la garanzia art. 42 Cost. nei confronti della P.A. i principali orientamenti sono:
a) mera legalità formale;b) contenuto minimo essenziale del diritto, la cui incisione deve essere indennizzata;
c) delimitazione dei poteri della P.A. da parte della legge;
d) riserva alla legge delle scelte relative all’afferenza al diritto di proprietà della diversa facoltà.
La molteplicità di queste tesi conferma la difficoltà di ricavare dalla riserva di legge una certa definizione dei poteri della P.A.; sembra anzi emergere una tendenziale neutralità. È inconsistente la pretesa di esaurire le garanzie nella regola del «giusto procedimento». La misura dei poteri insopprimibili è data dal co. 4° dell’art. 42 Cost.: è quindi questo, e non il co. 2°, a vincolare il legislatore ordinario.
La conclusione è che esiste un nucleo di previsioni sostanziali riservato al legislatore, inattaccabile dalla P.A. se non nei limiti dell’espropriazione, cosicché è insufficiente la garanzia minimale del «giusto procedimento».
Sulla discrezionalità della P.A. nella pianificazione urbanistica si vedano L. Marotta, Pianificazione urbanistica e discrezionalità amministrativa, Padova, 1988; G. Pericu, La normativa urbanistica: ragioni di una crisi, Riv. giur. urb., 1985, 162; P. Stella Richter, Profili funzionali dell’urbanistica, Milano, 1984. La disciplina urbanistica detta la disciplina formale e strutturale del PRG, non quella funzionale. Alla nozione di urbanistica ci si riferisce talvolta per verificare l’ammissibilità di determinare pianificazioni. La giurisprudenza fa talora riferimento alla tipicità degli atti amministrativi (Cons. Stato 525/82), per es. in margine all’art. 25 l. 47/85.
La disciplina urbanistica è caratterizzata dalla tendenziale indeterminatezza degli interessi pubblici. La definizione normativa solo procedimentale consente ampia discrezionalità alla P.A., contrastata in via legislativa attraverso:
i) la crescente tipizzazione del contenuto strutturale del piano, e con la ii) eteronomizzazione dei contenuti del piano. In realtà una normativa ricca di ipotesi tipiche non implica necessariamente la contrazione della discrezionalità della P.A., e altrettanto vale per la tipizzazione del contenuto dello strumento urbanistico.
Dall’art. 7 l. 1150/1942 deriva che la determinazione del contenuto del PRG si compone di due operazioni:
a)l’individuazione di un bene/una porzione del territorio in funzione determinativa;
b) specificazione della qualificazione attribuita.
La nozione di «zona territoriale omogenea» fu introdotta dalla l. 765/1967, art. 17, e la relativa tipologia risale all’art. 2 d.m. 2.4.1968, n. 1444: altre furono introdotte da leggi successive, es. l’art. 27 l. 457/78. Tipicità non significa, però, ancora tassatività delle ipotesi tipiche: al di fuori della dotazione di standard la tipologia del d.m. 1968 è ritenuta non vincolante (Cons. Stato, IV, 15.4.1986, 268, Cons. Stato, 86, I, 482). Il problema è sorto per la disciplina delle destinazioni d’uso meramente funzionali (Cons. Stato, IV, 10.3.1981, 241, Cons. Stato, 81, I, 274).
L’eteronomizzazione di determinati contenuti dei piani urbanistici si innalza a livello legislativo (E. Picozza, Il piano regolatore, I, 64, ss.) e riduce ulteriormente le posizioni dell’autonomia privata; trasferendo la disciplina di particolari destinazioni d’uso «a livello di fonti primarie, sia con prefissione di standard, sia con la disciplina diretta delle destinazioni d’uso medesime priva il cittadino di tutele efficaci». È il tema delle leggi-provvedimento.
Per ridurre la discrezionalità della P.A. sono stati pure introdotti gli standards urbanistici (con l’art. 17, VIII, l. 765/1976 e definiti dal d.m. 2.4.1969). Sono definiti a operatività differita, od eteroperativi, o generali, per distinguerli da quelli ex art. 4 l. 10/77.
La giurisprudenza ritiene che la ripartizione in zone omogenee è voluta per l’applicazione degli standard urbanistici, e non come limite all’attività pianificatoria del Comune, che resta libero di imprimere alle varie parti del territorio la destinazione d’uso preferita rispetto ai bisogni collettivi (Cons. Stato, IV, 15.4.86, 268, Riv. giur. edil., 86, I, 618; Id., 31.1.89, 71, ivi, 89, I, 582).
In ordine ai condizionamenti alla discrezionalità per l’evidenza di interessi privati la giurisprudenza ha elaborato e individuato situazioni in presenza delle quali la discrezionalità della P.A. è soggetta a limiti specifici e più penetranti. Manca una fisionomia unitaria: per un’elencazione vd. G. Morbidelli, Legge Galasso, in Riv. giur. edil., 1986, 330 che indica:a) l’affidamento ingenerato da Convenzioni di lottizzazione e da accordi di diritto privato tra Comune e proprietario;
b) l’affidamento derivante da precedenti determinazioni della P.A. circa l’uso dell’area;
c) l’incidenza su beni destinati ad attività produttive, che vengono sacrificati;
d) il superamento degli standard minimi per attrezzature pubbliche;
e) l’imposizione dei vincoli di grande estensione.
In tutti questi casi viene richiesta una motivazione specifica.
L’imposizione del vincolo non è soggetta a limitazioni specifiche: la garanzia costituzionale della proprietà privata non si esaurisce nella legalità formale del giusto procedimento, ma neppure giunge alla tipicità degli atti di esercizio. Alle origini del vincolo urbanistico c’è un vizio di illegittimità costituzionale della normativa urbanistica, nel senso che è manifestazione di un potere esteso oltre la soglia consentita agli atti della P.A. che incidono su singole situazioni proprietarie in violazione del co. 3° art. 42 Cost..
Secondo una tesi al fondamento gioca il principio dell’eguaglianza (Paladin, Morbidelli). Da escludersi la fungibilità con un idoneo controllo sulle motivazioni.
Ammesso il carattere sostanzialmente espropriativo del vincolo, esso deve ricondursi all’art 42 co. 3° Cost., e riconoscersi la garanzia indennitaria. Mentre la reintegrazione del vincolo esclude l’obbligo dell’indennizzo: C. Cost. 22.12.1989, n. 575, in Riv. giur. edil., 1989, I, 809 ha ribadito come temporaneità e indennizzabilità siano i requisiti tra loro alternativi. Il vincolo è reiterabile, ma garantendo l’indennizzo. (G. Morbidelli, Tutela dell’ambiente e normativa urbanistica. Riflessi sul diritto privato, in Riv. giur. edil., 1988, II, 141).
Come si ricorderà, con la sentenza 179 del 1999 la Corte Costituzionale doveva ritornare ad occuparsi della natura espropriativa delle previsioni vincolistiche:
1. Le questioni sottoposte all’esame della Corte hanno per oggetto gli art. 7, nn. 2, 3, e 4, e 40 della l. 17.8.1942 n. 1150 (come risultante rispettivamente a seguito degli art. 1 e 5 della l. 19.11.1968 n. 1187) e 2, co. 1°, della l. 19.11.1968 n. 1187, sotto il profilo della violazione dell’art. 42, co. 3°, della Costituzione, in quanto – come si evince dall’interpretazione corrente – consentono all’amministrazione di reiterare il vincolo scaduto indefinitamente nel tempo, ponendo in essere una fattispecie sostanzialmente espropriativa senza la previsione di indennizzo e, comunque, senza la previsione di criteri per la determinazione dello stesso; viene altresì denunciata la violazione dell’art. 97, sotto il profilo della deviazione dal modello del buon andamento della pianificazione urbanistica, dell’art. 9, co. 2°, per il contrasto con la tutela del paesaggio, nonché dell’art. 32, co. 1°, della Costituzione in relazione al diritto alla salute.
2. Preliminarmente, devono essere esaminate le eccezioni d’inammissibilità proposte dal Presidente del Consiglio e dal Comune di Roma. Le eccezioni d'inammissibilità, per mancanza di rilevanza e per difetto di giurisdizione, sono prive di fondamento, in quanto l’ordinanza di remissione contiene una motivazione tutt’altro che implausibile sia sulla giurisdizione esercitata in materia di vincoli. Il ragionamento del giudice rimettente si svolge sulla base della duplice considerazione di dover fare applicazione delle norme denunciate (di cui è evidente l’incidenza, in quanto il giudizio a quo riguarda l’impugnazione di una delibera comunale di reiterazione di vincoli urbanistici divenuti inefficaci per scadenza del quinquennio di legge) e di ritenere le questioni medesime, rientranti nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo sulla base di un indirizzo interpretativo della Corte di Cassazione con argomentazioni anche esse non implausibili e non palesemente arbitrarie (vd. per tutte, le sentenze della Cass., sez. un., 28.10.1995 n. 11308, e 15.10.1992 n. 11257). Ciò è sufficiente per respingere le eccezioni formulate, non potendosi procedere, in questa sede, a un sindacato (diverso dal controllo esterno) sul giudizio di rilevanza, espresso dall’ordinanza di rimissione in modo non implausibile (vd. per tutte, sent. n. 286 del 1997) e con motivazione tutt’altro che carente (vd. ordinanza n. 62 del 1997).
Allo stesso modo l’inammissibilità delle questioni incidentali di legittimità costituzionale, sotto il profilo della carenza della giurisdizione del giudice a quo può verificarsi solo quando il difetto di giurisdizione emerga in modo macroscopico e manifesto, cioè ictu oculi (sent. n. 98 del 1997; ordinanza n. 167 del 1997).
3. Passando all’esame delle questioni sollevate, occorre premettere che il problema di un indennizzo a seguito di vincoli urbanistici – come alternativa non eludibile tra previsione d’indennizzo ovvero di un termine di durata massima dell’efficacia del vincolo (sent. n. 55 del 1968; n. 82 del 1982; n. 344 del 1995) – si può porre sul piano costituzionale quando si tratta di vincoli che: siano preordinati all’espropriazione, ovvero abbiano carattere sostanzialmente espropriativo, nel senso di comportare come effetto pratico uno svuotamento, di rilevante entità e incisività, del contenuto della proprietà stessa, mediante imposizione, immediatamente operativa, di vincoli a titolo particolare su beni determinanti (sent. n. 6 del 1966, sviluppata nella successiva n. 55 del 1968, e tra le più recenti, le sentenze n. 344 del 1955; n. 379 del 1994; n. 186 e n. 185 del 1993; n. 141 del 1992), comportanti identificabilità assoluta, qualora non siano stati discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore dello Stato delle regioni (vd., con riferimento alle regioni a statuto speciale, sent. n. 344 del 1995; n. 82 del 1982; n. 1164 del 1988); superino la durata che dal legislatore sia stata determinata come limite, non irragionevole e non arbitrario, alla sopportabilità del vincolo urbanistico da parte del singolo soggetto titolare del ben determinato colpito dal vincolo, ove non intervenga l’espropriazione (sent. n. 186 del 1993), ovvero non si inizi la procedura attuativa (preordinata all’esproprio) attraverso l’approvazione di piani particolareggiati o d’esecuzione, aventi a loro volta termini massimi di attuazione fissati dalla legge; superino sotto un profilo quantitativo («per la maggiore o minore incidenza che il sacrificio imposto ha sul contenuto del diritto»: sent. n. 6 del 1966) la normale tollerabilità secondo una concezione della proprietà, che resta regolata dalla legge per i modi di godimento e i limiti preordinati alla funzione sociale (art. 42, co. 2° Cost.). Nello stesso tempo, occorre sottolineare l’indirizzo secondo cui «è propria della potestà pianificatoria la possibilità di rinnovare nel tempo i vincoli su beni individuati, purché come ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa, risulti adeguatamente motivata in relazione alle effettive esigenze urbanistiche» (sent. n. 575 del 1989).
Essendo i due requisiti della temporaneità e dell’indennizzabilità tra loro alternativi, l'indeterminatezza temporale dei vincoli, resa possibile dalla potestà di reiterarli nel tempo anche con diversa destinazione o con altri mezzi, «è costituzionalmente legittima a condizione che l’esercizio di detta potestà non determini situazione incompatibili con la garanzia della proprietà secondo i principi affermati dalle sentenze. n. 6 del 1966 e n. 55 del 1968» (sent. n. 575 del 1989).
4. La giurisprudenza della Corte ha inoltre affermato che non sono inquadrabili negli schemi dell’espropriazione, dei vincoli indennizzabili e dai termini di durata i beni immobili aventi valore paesistico-ambientale, «in virtù della loro localizzazione o della loro inserzione in un complesso che ha in modo coessenzia le qualità indicate dalla legge» (sentenze n. 417 del 1995; n. 56 del 1968, da interpretarsi in maniera unitaria con la coeva sent. n. 55 del 1968; n. 9 del 1973; n. 202 del 1974; n. 245 del 1976; n. 648 del 1988; n. 391 del 1989; n. del 1990).
Più in generale si è ritenuto che la legge può non disporre indennizzi quando i modi e i limiti imposti – previsti dalla legge direttamente o con il completamento attraverso un particolare procedimento amministrativo – attengano, con carattere di generalità per tutti i consociati e quindi in modo obiettivo (sentenze n. 6 del 1966 e n. 55 del 1968), a intere categorie di beni, e per ciò interessino la generalità dei soggetti con una sottoposizione
indifferenziata di essi – anche per zone territoriali – a un particolare regime secondo le caratteristiche intrinseche del bene stesso. Non si può porre un problema d’indennizzo se il vincolo, previsto in base alla legge, abbia riguardo ai modi di godimento dei beni in generale o di intere categorie di beni o interessi pubblici preminenti. Devono di conseguenza essere considerati come normali e connaturali alla proprietà, quale risulta dal sistema vigente, i limiti non ablatori posti normalmente nei regolamenti edilizi o nella pianificazione e programmazione urbanistica e relative norme tecniche, quali i limiti di altezza, di cubatura o di superficie coperta, le distanze tra edifici, le zone di rispetto in relazione a talune opere pubbliche, i diversi indici generali di fabbricabilità ovvero i limiti e rapporti previsti per zone territoriali omogenee simili.
5. Inoltre è da precisare esplicitamente che sono al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo con le connesse garanzie costituzionali (e quindi non necessariamente con l’alternativa d’indennizzo o di durata predefinita) i vincoli che comportano una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile a iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, che non comportino necessariamente espropriazione o interventi a esclusiva iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di previa ablazione del bene. Ciò può essere il risultato di una scelta di politica programmatoria tutte le volte che gli obiettivi d’interesse generale, di dotare il territorio di attrezzature e servizi, mercati e complessi per la distribuzione commerciale, edifici per iniziative di cura e sanitarie o per altre utilizzazioni quali zone artigianali o industriali o residenziali; in breve, a tutte quelle iniziative suscettibili di operare in libero regime di economia di mercato.
6. Sulla base delle anzidette premesse può essere confermato che la reiterazione in via amministrativa degli anzidetti vincoli decaduti (preordinati all’espropriazione o con carattere sostanzialmente espropriativo), ovvero la proroga in via legislativa o la particolare durata dei vincoli stessi prevista in talune regioni a statuto speciale (vd., per quest’ultimo profilo, sentenze n. 344 del 1995; n. 82 del 1982; n. 1164 del 1988) non sono fenomeni di per sè inammissibili dal punto di vista costituzionale.
Infatti possono esistere ragioni giustificative accertate attraverso una valutazione procedimentale (con adeguata motivazione) dell’amministrazione preposta alla gestione del territorio o rispettivamente apprezzate dalla discrezionalità legislativa entro i limiti della non irragionevolezza e non arbitrarietà (vd. sentenze n. 344 del 1995; nn. 186 e 185 del 1993; n. 1164 del 1988).
Invece, assumono certamente carattere patologico quando vi sia un’indefinita reiterazione o una proroga sine die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia in determinato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza (sent. n. 344 del 1995; n. 575 del 1989), e fermo, beninteso, che l’obbligo dell’indennizzo opera una volta superato il periodo di durata (tollerabile) fissato dalla legge (periodo di franchigia).
Del resto la giurisprudenza amministrativa, a proposito della reiterazione dei vincoli, ha delineato un diritto vivente (che deve essere tenuto presente per risolvere la questione di legittimità costituzionale prospettata), secondo cui la reiterazione dei vincoli urbanistici decaduti per effetto del decorso del termine può ritenersi legittima sul piano amministrativo se corredata da una congrua e specifica motivazione sull’attualità della previsione, con nuova e adeguata comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti, e con giustificazione delle scelte urbanistiche di piano, tanto più dettagliata e concreta quante più volte viene ripetuta la reiterazione del vincolo.
Da quanto sopra deriva, come ulteriore conseguenza, che deve essere separato e distinto il profilo dell’ammissibilità e legittimità delle reiterazioni in via amministrativa dei vincoli urbanistici c.d. espropriativi, attuate in conformità ai principi ricavabili dalla giurisprudenza succinta, di modo che la reiterazione può essere ritenuta giustificata delle esigenze appositamente valutate e motivate come attuali e persistenti: ciò non di meno si realizza
un obbligo indennitario.
Infatti, per i vincoli derivanti da pianificazione urbanistica (come sopra delimitati), l’obbligo specifico d’indennizzo deve sorgere una volta superato il primo periodo di ordinaria durata temporanea (a sua volta preceduto da un periodo di regime di salvaguardia) del vincolo (o di proroga per legge in regime transitorio), quale determinata dal legislatore entro limiti non irragionevoli, come indice della normale sopportabilità del peso gravante in modo particolare sul singolo, qualora non sia intervenuta l’espropriazione ovvero non siano approvati i piani attuativi.
In altri termini, una volta oltrepassato il periodo di durata temporanea (periodo di franchigia da ogni indennizzo), il vincolo urbanistico (avente le anzidette caratteristiche), se permane a seguito di reiterazione, non può essere dissociato, in via alternativa all’espropriazione (o al serio inizio dell’attività preordinata all’espropriazione stessa mediante approvazione dei piani attuativi), dalla previsione di un indennizzo.
Il potere della pubblica amministrazione di programmazione urbanistica e di realizzazione dei progetti relativi alle esigenze generali (richiamate dall’ordinanza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato) non si può consumare per il semplice fatto della scadenza dei termini di durata dei vincoli urbanistici innanzi delimitati, ove persistano o sopravvengano situazioni che ne impongano la realizzazione anche se per differenti finalità, per cui deve essere esclusa in radice la denunciata violazione degli artt. 9, 32 e 97 della Costituzione.
Tuttavia, negli addetti casi, la mancata previsione di qualsiasi indennizzo si pone in contrasto con i principi costituzionali ricavabili dall’art. 42, co. 3° della Costituzione, e di conseguenza ne deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale.
Tale dichiarazione non può tradursi in una sentenza caducatoria, posto in una simile pronuncia colpirebbe nel complesso i poteri di una programmazione del territorio, che devono poter essere esercitati nonostante l’intervenuta scadenza dei vincoli, ferma la necessità di previsione d’indennizzo.
7. Neppure si può ottenere in questa sede un completo adeguamento alla legalità costituzionale mediante una pronuncia che provveda a fissare i criteri per la concreta liquidazione del quantum dell’indennizzo nei casi sopra specificati.
Per la determinazione concreta dell’indennizzo in conseguenza della reiterazione di vincoli urbanistici esistono molteplici variabili, che non possono essere definite in sede di verifica legittimità costituzionale con una sensazione additiva, in quanto detto indennizzo non è, nella quasi totalità dei casi (in ciò sta la netta differenza rispetto alla diversa – anche per natura – indennità di esproprio), rapportabile a perdita di proprietà. Nè può essere utilizzato un criterio di liquidazione ragguagliato esclusivamente al valore dell’immobile, in quanto il sacrificio subito consiste, nella maggior parte dei casi, in una diminuzione di valore di scambio o d’utilizzabilità.
Inoltre l’indennizzo per il protrarsi del vincolo è un ristoro (non necessariamente integrale o equivalente al sacrificio, ma neppure simbolico) per una serie di pregiudizi, che si possono verificare a danno del titolare del bene immobile colpito, e deve essere commisurato o al mancato uso normale del bene, ovvero alla riduzione d’utilizzazione, ovvero alla diminuzione di prezzo di mercato (locativo o di scambio) rispetto alla situazione giuridica antecedente alla pianificazione che ha imposto il vincolo.
Alla luce delle considerazioni che precedono, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale non dell’intero complesso normativo che consente la reiterazione dei vincoli, ma esclusivamente della mancata previsione d’indennizzo in tutti i casi di permanenza del vincolo urbanistico (preordinato all’espropriazione o comportante l’assoluta inedificabilità) oltre i limiti di durata fissati dal legislatore (quali indici di ordinaria sopportabilità da parte dei singoli), ove non risulti in modo inequivocabile l’inizio della procedura espropriativa.
Con la conseguenza che la reiterazione del vincolo deve comportare la previsione d’indennizzo nei sensi suindicati, restando al legislatore ogni possibilità d’intervento, anche attraverso procedure semplificate, per la concreta liquidazione dell’indennizzo stesso.
Naturalmente – occorre di nuovo sottolineare – non da qualsiasi reiterazione di vincolo urbanistico discende un pregiudizio al soggetto titolare del bene e un correlativo obbligo a carico dell’amministrazione di corrispondere un indennizzo. Nell’ambito del modello indennitario si possono presentare una pluralità di soluzioni astrattamente ipotizzabili, idonee ad assicurare un serio ristoro a favore del soggetto che subisce il vincolo, in armonia con i principi costituzionali, tra le quali il legislatore può operare una scelta.
Il necessario intervento legislativo dovrà precisare le modalità di attuazione del principio dell’indennizzabilità dei vincoli a contenuto espropriativo nei sensi sopra indicati, delimitando le utilità economiche suscettibili di ristoro patrimoniale nei confronti della pubblica amministrazione, e potrà esercitare scelte tra misure risarcitorie, indennitarie, e anche, in taluni casi, tra misure alternative riparatorie anche in forma specifica (vd. ordinanza n. 165 del 1998), mediante offerta e assegnazione di altre aree idonee alle esigenze del soggetto che ha diritto a un ristoro (vd., per es. di misura sostitutiva d’indennità, art. 30, co. 1° e 2°, della l. 28.2.1985 n. 47), ovvero mediante altri sistemi compensativi che non penalizzano i soggetti interessati dalle scelte urbanistiche che incidono su beni determinati.
8. L’esigenza di un intervento legislativo sulla quantificazione e sulle modalità di liquidazione dell’indennizzo non esclude che – anche in caso di persistente mancanza di specifico intervento legislativo determinativo di criteri e parametri per la liquidazione delle indennità – il giudice competente sulla richiesta d’indennizzo, una volta accertato che i vincoli imposti in materia urbanistica abbiano carattere espropriativo nei sensi suindicati, possa ricavare dall’ordinamento le regole per la liquidazione di obbligazioni indennitarie, nella specie come obbligazioni di ristoro del pregiudizio subito della rinnovazione o dal protrarsi del vincolo.
9. In conclusione restano al di fuori dell’ambito dell’indennizzabilità i vincoli incidenti con carattere di generalità e in modo obiettivo su intere categorie di beni ivi compresi i vincoli ambientali – paesistici –, i vincoli derivanti da limiti non ablatori posti normalmente nella pianficazione urbanistica, i vincoli comunque estesi derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l’iniziativa privata in regime di economia di mercato, i vincoli che non superano sotto il profilo quantitativo la normale tollerabilità e i vincoli non eccedenti la durata (periodo di franchigia) ritenuta ragionevolmente sopportabile.
Pertanto deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale del combinato disposto dagli art. 7, nn. 2, 3 e 4, e 40 della 40 della l. 17.8.1942 n. 1150 (l. urb.) e 2, co. 1°, della l. 19.11.1968 n. 1187 (Modifiche e integrazioni alla l. urb. 17.8.1942 n. 1150), nella parte in cui consente all’amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità, senza la previsione d’indennizzo secondo modalità legislativamente previste e in conformità ai principi sopra richiamati.
P.Q.M.
la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 7, nn. 2, 3 e 4, e 40 della l. 17.8.1942 n. 1150 (l. urb.) e 2, co. 1°, della l. 19.11.1968 n. 1187 (Modifiche e integrazioni all l. urb. 17.8.1942 n. 1150), nella parte in cui consente all’amministrazione o che comportino l’inedificabilità, senza la previsione d’indennizzo.
Una ulteriore della nozione di urbanistica è stata avviata dalla Corte Costituzionale con la sent. 382 del 1999, secondo cui «alla funzione di governo del territorio si riallaccia anche una competenza in materia di interessi ambientali, da reputarsi costituzionalmente garantita e funzionalmente collegata […] alle altre spettanti alla Regione, tra cui, oltre all’urbanistica, quale funzione ordinatrice dell’uso e delle trasformazioni del suolo, quella dell’assistenza sanitaria, intesa come complesso degli interventi positivi per la tutela e la promozione della salute umana». La sentenza era stata anticipata da quella del Cons. Stato 6.4.1998 n. 415, secondo cui nella disciplina edilizia deve ritenersi ricompresa «ogni attività che comporti la trasformazione del territorio attraverso l’esecuzione di opere comunque attinenti agli aspetti urbanistici ed edilizi, ove il mutamento e l’alterazione abbiano un qualche rilievo ambientale ed estetico, o anche solo funzionale».
La nozione di «urbanistica» è stata poi incisa dalla legge 21.7.2000 n. 205 il cui art. 7, apportando modifiche al d.lgs. 31.3.1998, n. 80, ne ha sostituito l’art. 34 con un nuovo testo il cui co. 2° recita: «Agli effetti del presente decreto la materia urbanistica concerne tutti gli aspetti dell’uso del territorio».E per una riflessione in prospettiva comparatistica, si offrequi una sintesi della monografia di Ernest R. Alexander, Approaches to Planning.Introducing Current Planning Theories, Concepts and Issues, II ed., Lausanne, 1992 (trad. it. Introduzione alla pianificazione, a cura di F.D. Moccia, presentazione di B. Secchi, Napoli, 1997).
A partire dal 1928 i pianificatori presero a guardare alle altre scienze e arti (vd. M. Scott, American City Planning Since 1880, Berkeley, 1969, p. 265), ma la vera spinta a questi innesti venne negli anni Cinquanta e Sessanta, attingendo aall’economia del benessere. Un profilo storico delle idee sulla pianificazione è tracciata da J. Friedman, Planning in the Pubblic Domain: From Knowledge to Action, Princeton, 1987, il quale identifica quattro tradizioni.
La prima detta, policy analysis, è orientata a mantenere lo status quo, e vede il pianificatore come un consulente del governo; trae le sue origini dagli economisti neoclassici come Adam Smith e J. S. Mill, ha incorporato la scienza della P.A. con Woodrow Wilson e Herbert Simon, l’analisi dei sistemi con N. Wiener e C. W. Churchman, l’economia del benessere e della scelta sociale con K. Arrow e M. Olson.
La seconda, del «riformismo sociale», riflette l’inclinazione liberale; le sue radici risalgono al XIX secolo con i sociologi Saint Simon e A. Conte, continuano con i pragmatici americani Henry James e William Dewey, proseguono ancora con economisti istituzionali come T. Vebler e J.K. Galbraith, e successivamente R. Tugwell e H. Perlogg, mentre il ramo sociologico prosegue con Max Weber e Karl Mannhaim fino al contemporaneo Amitai Etzioni.
La terza, dell’«apprendimento sociale», modifica l’orientamento di pura guida sociale dei primi due, ma non è ancora razionale; affonda le sue radici nel movimento per la gestione razionale delle aziende rappresentate da F. Taylor e C. Bernard e nel pragmatismo di Dewey, trasformate nel movimento di sviluppo delle organizzazioni divulgato a metà anni Sessanta da W. Bennis.
La quarta, della «mobilitazione sociale», ha orientamenti radicali verso le istituzioni, ed è per la trasformazione sociale; fonde il marxismo con idee utopiche e anarchiche (R. Owen, R. Kropotkin) attraverso la Scuola di Francoforte di Adorno e Habermas, connette numerosi teorici della pianificazione tra cui lo stesso Friedman. Gli aspetti sostantivi di pianificazione appartengono alle aree più diverse: abitazioni, trasporti, servizi sanitari, politiche per lo sviluppo economico.
Tra i campi coinvolti: la crescita urbana, l’unità di vicinato, la zonizzazione, l’ambiente, il fisco.
Il nucleo della teoria è il processo di pianificazione. Le idee attuali della pianificazione hanno origine nel tardo XVIII e XIX secolo, quando si cercò di reagire agli inconvenienti della Rivoluzione industriale. Le proposte possono raggrupparsi in tre correnti di pensiero (vd. Benevolo):1) efficienza scientifica;
2) bellezza civica;
3) equità sociale; le cui radici si trovano nelle scuole di pensiero utilitaristica e utopica del XIX secolo (Fourier, Owen).
(1) La regolamentazione obbligatoria dell’uso del suolo e il controllo delle costruzioni fu introdotto a fine XIX secolo e inizio del XX nell’Europa Occidentale e America del Nord: prima fu la Germania con la legge prussiana del 1875 e la legge sulle costruzioni del regno di Sassonia; poi in Gran Bretagna nel 1909; in USA la zonizzazione iniziò nel 1916.
(2) L’equità sociale è un altro dogma della pianificazione contemporanea. In Gran Bretagna le poor laws furono riformate nel 1854. Una Commissione Reale nel 1885 produsse un’estesa legislazione su abitazioni, sanità, salute pubblica. Similmente in Francia, Germania, USA (vd. Benevolo). Fu portata avanti dal movimento socialista: a fine XIX secolo i socialisti erano in maggioranza nei governi locali urbani in Europa; così nel London County Coucil dominava nel 1890 il Comitato per le Abitazioni.
(3) Il terzo filone è la bellezza civica, che aveva radici più lontane, ma nel XIX fu istituzionalizzata. Impulso venne da C. Sitte, Arte di costruire le città, 1899. Negli USA il movimento City Beautiful, nel cui ambito F. Law Olmsted progettò il Central Park di New York, e il Golden Gate Park di San Francisco; ebbe successo il libro di C. Mulford Robinson, The Improvement of Towns and Cities. A fine XIX secolo le tre correnti si unirono in Gran Bretagna nel movimento fondato da E. Howard, Garden Cities of Tomorrow. In Inghilterra nacque la Garden City Association: furono realizzati Letchworth a Hampstead Garden Suburb. L’idea di città giardino si diffuse poi in tutto il mondo. In USA C. Stein e H. Wright; e C. Perry che propagò l’idea di «unità di vicinato». Dopo la seconda guerra mondiale l’idea di città giardino fu ripresa con il movimento delle New Towns inglesi varato nel 1945. Ne furono realizzate anche in Svezia e Francia, meno in USA. Ultima sponsorizzazione pubblica fu il New Community Act del 1968 che offrì incentivi per l’acquisizione di aree e la pianificazione, particolarmente per le New Town In - Town per stimolare lo sviluppo di comunità pianificate al centro di città; ma non ebbe un grosso successo (M. Derthic, New Towns-in-Towns: Why a Federal Program Failed, Washington, 1972).
L’idea di Città Giardino conteneva i germi della pianificazione comprensiva, includendo fattori economici e sociali insieme alla strutturazione della forma delle città: in questo senso Howard anticipò la pianificazione regionale poi teorizzata da P. Geddes, Cities in Evolution, 1915, il cui maggiore discepolo fu Lewis Mumford che insieme ad altri nel 1923 fondò la Regional Planning Association of America (RPAA). Questa ultima però entrò in conflitto con il Regional Plan di New York. Negli anni Quaranta la pianificazione regionale si orientò verso le risorse naturali; a fine anni Sessanta venne a incorporare gli interessi socio-economici. Nel frattempo erano state create agenzie di pianificazione regionale in Germania, Francia, Gran Bretagna; successivamente è stata coinvolta la CEE, l’ONU, la Banca Mondiale; in USA con un’agenzia federale ora denominata Economic Development Agency; in Gran Bretagna P. Abercrombic completò nel 1944 il piano per la Grande Londra.
In Gran Bretagna fu regolata tra il 1946 e il 1952 dal Town and Country Planning Act e altre leggi.
In USA la zonizzazione si diffuse da New York per tutto il paese; nel 1922 la Corte Suprema l’aveva riconosciuta legittima nel caso Euclid vs. Ambler. Si sviluppò dapprima come funzione del governo locale; poi, presa coscienza della interdipendenza tra uso del suolo e fattori sociali, economici e ambientali, emerse l’idea della «pianificazione comprensiva».
Dal 1945 si verificò l’esplosione demografica europea che portò a fronteggiare la scarsità di abitazione e la crescita metropolitana: fiorirono i piani di Copenaghen, Stoccolma.
Altra fonte di idee fu la città espressa da Le Corbusier, La Ville Radieuse,1933. Negli anni Cinquanta si affacciò il problema del degrado dei centri storici europei: fisico e sociale. In Gran Bretagna fu avviato un programma di ricostruzione. In USA fu promosso un rinnovamento urbano sovvenzionato dal governo federale con l’Housing Act del 1949, emendato nel 1954: esso comportava la demolizione massiccia e il trasferimento dei residenti poveri, e il suo impatto fu negativo, cosicché fu considerato un fallimento (M. Haar, Between The Idea and The Reality: A Study in The
Origin, Fate and Legacy of The Model Cities Program, Boston, 1975).
Negli ultimi venti anni lo scenario è mutato: in USA negli anni Settanta s’è levato un disincanto verso le potenzialità dell’intervento pubblico che negli anni Ottanta s’è esteso all’Europa, così riducendo la fiducia nella pianificazione.
Negli anni Novanta ha raggiunto il picco più basso, e sembra di intravvedere una rinascita, ove la pianificazione è chiamata a fronteggiare i nuovi problemi di sottoproletariato urbano. La pianificazione è poi sfidata da problemi non fronteggiabili a livello locale, quali gli effetti ambientali di attività umane e di tecnologie industriali, gli effetti sociali della globalizzazione economica e la conseguente ristrutturazione di economie.
Razionalità della decisione e «razionalità strumentale» è il modo di scegliere i mezzi migliori per ottenere un dato fine. L’analisi delle decisioni razionali è basata su alcuni standard di logica e di consistenza che semplificano la complessità, questi gli assiomi:
1° le preferenze devono essere transitive;
2° indipendenza di utilità e probabilità;
3° irrilevanza dei risultati non influenzabili;
4° inammissibilità di scelte imposte.
Le scelte vengono compiute all’interno di situazioni di certezza, rischio, o incertezza.
L’ordinamento delle preferenze è espresso in termini di utilità, quale valore che assegnamo ai risultati di un’azione o un evento. L’utilità può essere quantificabile.
La scelta sociale è presa nel corso di un processo politico.
Una critica alla soluzione razionale dei problemi è stata avanzata da Hebert Simon, Models of Man, Social and Rational, New York, 1957, poi da C.E. Lindolom attraverso il riferimento al «disgiunto incrementalismo» che rifiuta opzioni completamente diverse da quelle esistenti.
Altre obiezioni attengono alla complessità e ambiguità: incertezza sull’ambiente, sulle decisioni rilevanti, sui giudizi di valore.
Altri ancora hanno messo in discussione l’assunto base che i risultati derivano da scelte deliberate.
Habermas ha sottolineato come il modello decisionale razionale rifletta un approccio individuale, così diverso dalle decisioni assunte in contesti sociali, dove riveste maggior rilievo la parte comunicativa e interattiva.
Molti teorici suggerirono che in contesti reali le decisioni non possono essere prese come prescritto dal modello razionale. Nell’ambito della pianificazione sorsero diverse risposte: il suggerimento che i professionisti integrano nei fatti la teoria; la rilevanza della relazione tra la decisione e i contesti, e di qui «l’approccio contingente » tra cui la «selezione mista» di Etsioni; la proposta di attingere alla filosofia, in particolare alla teoria critica che vede le interazioni sociali come un processo di comunicazione; modelli decisionali «soddisfacenti» e «incrementalisti».
Negli ultimi trent’anni sono state molte le proposte di sostituire il modello razionale come base di decisione, ma nessuna s’è imposta. Come definizione di pianificazione, l’A. propone quella di «una deliberata attività sociale o organizzativa tesa a sviluppare una strategia ottimale di azione futura per realizzare un insieme desiderato di scopi, per risolvere problemi insoliti in contesti complessi e accompagnata dal potere e dall’intenzione di destinare risorse e agire come indispensabile per implementare la strategie scelte».
La scelta tra le alternative dipende dal criterio di valutazione adottato: uno comunemente utilizzato è l’efficienza. L’analisi costi-benefici fu creata negli anni Cinquanta e ritiene che la selezione di un progetto deve essere determinata dal suo contributo netto all’economia. Applica il concetto di marginalità nel senso che «la proposta più efficiente è quella che genera il maggiore beneficio per ciascuna unità di investimento», contributo espresso dal rapporto tra benefici e costi. Uno dei vantaggi è che tutti i risultati debbono essere qualificati in termini monetari; ma è anche uno svantaggio. Quando i risultati non possono essere espressi in vantaggi monetari si può usare l’analisi costi-efficacia, ove i risultati sono valutati in termini di output; peraltro opera solo nell’ambito di programmi/servizi con output simili, ed è difficile interpretare i risultati in un senso assoluto.
Altra è l’analisi di impatto che usa una matrice e un certo sistema di punteggio per indicare i relativi valori e utilità, secondo fattori che variano in dipendenza del tema trattato; la più conosciuta è l’analisi di impatto ambientale resa obbligatoria dal National Environmental Policy Act del 1969 per molte iniziative. Altri metodi di valutazione sono stati sviluppati specificamente per la pianificazione, tentando di combinare valutazioni di efficienza e di equità: il «Bilancio di Pianificazione Sociale» sviluppato da Lichfield, la «Matrice del perseguimento degli obbiettivi» di Hill sono stati utilizzati per selezionare proposte alternative in aree diverse.
Le acquisizioni più recenti non si arrestano alla selezione dell’alternativa preferita e alla sua comunicazione nella forma di un piano, ma include l’implementazione che «è il portare avanti una fondamentale decisione politica». Approcci alla pianificazione:
1) secondo l’oggetto: dividendola secondo linee settoriali-funzionali, per lo più riflettendo le partizioni istituzionali: fisica, economica, trasporti;
2) prospettiva strumentale: scopi/strumenti;
3) approccio contestuale: relaziona i diversi tipi di pianificazione e diversi contesti e ideologie sociopolitiche.
1) Modelli sostantivi. Diverse rassegne della pianificazione dividono il campo secondo linee settoriali - funzionali.
La pianificazione fisica tratta del suolo e dell’ambiente costruito: a seconda delle scale può essere divisa in urbana, rurale, regionale. Vi rientra la progettazione urbana; e la pianificazione dell’uso del suolo, che si occupa delle modalità della localizzazione delle persone e delle loro attività (C.M. Haar, Land Use Planning: A Case Book on the Use, Misure and Reuse of Urban Land, Boston, 1975).
Molti paesi, tra cui la Gran Bretagna (Mc. Auslan, Land Law and Planning, London, 1975) e l’Europa Occidentale (N. Lichfield e H. Darin-Drabkin, Land Policy in Planning, London, 1980), hanno una gerarchia di normative sull’uso del suolo e sul controllo delle costruzioni che và dal governo locale fino ai livelli nazionali.
La pianificazione dell’ambiente e delle risorse emerse negli anni Settanta: apparvero legislazioni come il Clean Air & Water Acts e agenzie ambientali come la Environmental Protection Agency e la Sierra Club. La pianificazione ambientale funziona come una coperta che abbraccia una vasta estensione di interessi. Altri settori: trasporti; investimenti pubblici; abitazioni (R. Montgomery e D.R. Mandelker (a cura di), Housing in America, II ed., New York, 1979).
La pianificazione sociale ed economica nel senso dello sviluppo economico a livello regionale e locale (A. Downs, Neighbourhood and Urban Development, Washington, 1981), e della pianificazione dello sviluppo delle comunità e del vicinato [R. Cassidy, Livable Cities: A Grass-Roots Guide to Rebuilding Urban America, New York, 1980); da ultimo della gestione fiscale e dei bilanci, delle politiche, della sanità, della sicurezza
pubblica, della giustizia.
Ci si domanda se sia utile l’estensione dell’etichetta della pianificazione a un ambito tanto ampio: la risposta può variare a seconda dei contesti nazionali.
2) Modelli strumentali. La classificazione strumentale si concentra sugli obbiettivi e gli strumenti: è la pianificazione regolativa. Classico caso: piano regolatore locale, e regolamento di zonizzazione. Per essere efficace richiede di poter legiferare e imporre le regole che consentono l’implementazione del piano; il potere deve estendersi a tutta l’area del piano, e tutti gli attori del processo di sviluppo dell’area vi devono essere soggetti; dev’esservi l’impegno ad attuare il piano in accordo con i suoi intenti originari e i fini sociali. Raramente queste condizioni sono soddisfatte. Questa prospettiva è stata applicata specie per l’uso del suolo (per la comparazione tra Gran Bretagna e USA: M. Clawaon e P. Hall, Planning and Urban Growth: an Anglo-America Comparison, Baltimora, 1973), ma non è confinata a questo.
La pianificazione allocativa usa diversi strumenti: non la proibizione, ma il procacciamento di risorse. Le risorse allocate possono appartenere alla medesima agenzia, o ad altre: per es. incentivi fiscali per riallocare investimenti industriali in regione periferiche o a elevata disoccupazione. Ancora: la pianificazione dello sviluppo; indicativa degli strumenti di persuasione cosicché possono essere decisivi comitati di quartiere e organizzazione locali.
In realtà nessuno di questi tipi di pianificazione esiste autonomamente.
3) Modelli contestuali. relazionati ai loro contesti nel tempo, nelle istituzioni sociali e nelle premesse ideologiche.
La pianificazione comprensiva si sviluppò dal modello di pianificazione fisica che prevaleva negli anni Venti e Trenta, e si prefigge di tenere in conto tutti i fattori (M.C. Branch, Comprehensive City Planning, Chicago, 1985); è basata sull’ideologia tecnocratica. Fu istituzionalizzata nel programma 701 dello Housing Act del 1954, che richiedeva ai governi locali piani comprensivi onde accedere ai finanziamenti.
La pianificazione sociale si è sviluppata negli anni Sessanta, in relazione ai servizi umani e sociali, è orientata ai bisogni sociali, e tiene conto dei bisogni di gruppi particolari. Ha avuto il maggiore impatto nella pianificazione dei programmi sostenuti dal governo. Si basa su premesse democratiche, è disponibile verso la molteplicità degli interessi conflittuali. Fu una reazione ai lavori centralisti e tecnocratici la Advocacy Planning: il pianificatore avvocato ossia portavoce del povero, del vicinato, dei gruppi deboli; questo ruolo fu istituzionalizzato in molti programmi della Guerra alla Povertà degli anni Sessanta, ed è tutt’oggi praticato in iniziative di pianificazione comunitaria e a difesa dei consumatori e dell’ambiente. Non sono mancate critiche.
Nella pianificazione burocratica il pianificatore è un impiegato di governo, neutrale rispetto ai ruoli. Appare spesso nella descrizione di Gran Bretagna e Francia (J. K. Fried e W.N. Jessop, Local Government and Strategic Choice, London, 1969). Mentre nel mercato le decisioni sono create dal basso verso l’alto, la pianificazione procede dall’alto verso il basso.
La pianificazione radicale o antipianificazione: a fine degli anni 60/inizi degli anni Settanta emersero proposte di coinvolgere i pianificatori nella trasformazione della società al di fuori del governo istituzionale o in opposizione a esso. Dall’«far da sé» fino alla pianificazione comunitaria (R. Goodman, After the Planner, New York, 1971; S. Grabow e A. Heskin, Foundation of a Radical Concept of Planning, in Journal of the American Institute of Planners, 39, marzo 1973; J. Friedman, Planning in the Public Domain: From Knowledge to Action, Princeton, 1987).
Il problema è che possono essere solo attività interstiziali. I pianificatori radicali, una volta vinta la battaglia, divengono parte delle istituzioni. Ne sono state proposte diverse versioni, tutte fondate sulle premesse di lassaiz faire, ossia sulla convinzione che i rapporti tra le persone possono produrre buoni risultati accompagnati solo da un minimo di regolamentazione. Un esempio ne è il modello decisionale incrementale, il quale suggerisce di sviluppare le politiche per tentativi anziché per pianificazione deliberata: è stato illustrato con l’espansione senza regole ma ordinata di Houston in Texas (B.H. Siegan, Land Use Without Zoning, Lexigton, 1973, successivamente criticato, tra l’altro per l’intrattabilità dei problemi del traffico), e una proposta di deregulation sperimentale nell’Inghilterra del sud est.
Per l’A. attualmente non vi è un modello dominante, sebbene vi sia molta enfasi sulla «pianificazione ecologica», i cui fautori peraltro non mostrano alcuno zelo messianico. I ruoli dei pianificatori possono così riassumersi: tecnico-amministratore; agitatore; mediatore; imprenditore; avvocato e guerrigliero; altri: levatrice, comunicatore. Quindi il ruolo del pianificatore è mutevole e incerto.
Le basi della legittimazione dei pianificatori sono:
– la competenza tecnico professionale;
– la posizione burocratica: i politici rispondono al pubblico interesse, o a gruppi di interesse?
– la preferenza degli utenti.
Queste basano la legittimazione della pianificazione sulla partecipazione nel modello decisionale.
La fonte di autorità: l’internalizzazione dei valori del pianificatore gli fornisce l’autorità per pianificare; regge finché regge il consenso ai valori.
Pianificazione e mercato. La «tragedia dei pascoli comuni» (descritta da Garret Nardin, The Tragedy of the Commons, Science, 162, dicembre 1968, p. 1243) fu provocata dalle esternalità delle azioni di un singolo. Altro ostacolo del mercato libero sono i monopoli.
I vantaggi e le limitazioni del libero mercato e dell’intervento sociale pianificato sono riassunte da R. Darendorf, Market and Plan: Two Tipes of Rationality, in Id., Essays in Theory of Society, Stanford, 1980. Charles Lindblond, The Science of Muddling Thought, in Public Administration Review, 19 (1958), p. 59, coniò il termine «disgiunto incrementalismo» per designare la decisione derivante dall’interazione tra le decisioni di individui e di organizzazioni nell’area politica; e chiamò l’interazione «mutuo aggiustamento di parte». Si tratta però di un modello conservativo, inoperante in situazioni di cambiamento. Se è quindi indiscussa la sua valenza descrittiva, molto più dubbia è la sua desiderabilità.
Fonti di legittimazione:
a) pubblico interesse: rappresenta l’aggregazione di tutti i valori delle comunità, o l’insieme di fini e di obiettivi concordi. Negli anni Trenta e Cinquanta veniva data per scontata l’abilità dei pianificatori e amministratori a identificare questo pubblico interesse e giustificare nel loro nome le proposte; successivamente il concetto di pubblico interesse fu attaccato dalla scuola di pensiero dei «pluralisti» i quali ritenevano le decisioni politiche il risultato dell’azione reciproca di interessi plurali o differenti (G. Shubert, The Public Interest, Glencoe, 1960, p. 233). Questo risultato divenne generalmente accettato negli anni Sessanta e Settanta; peraltro il criterio del pubblico interesse è ancora vivo, e viene spesso legittimato, magari non più sulla scorta di un’immagine scientifica, bensì sulla base di un’analisi razionale, e adottando espressamente criteri di valore; in altra prospettiva il pubblico interesse viene identificato con l’interesse di individui e gruppi rilevanti nella comunità, al che il problema si sposta nell’individuare i gruppi rilevanti.
Altro criterio è la prospettiva procedurale, per cui si può dire che un processo di pianificazione e i suoi risultati sono nel pubblico interesse se tutti i gruppi coinvolti hanno avuto accesso al processo di pianificazione e sono stati coinvolti nelle decisioni rilevanti (J. Friedman, The Public Interest and Community Partecipation: Towards a Reconstruction of Public Philosophy, in Journal of The American Institute of Planners, 39, gennaio 1973, p. 2).
Questa visione porta a un altro tipo di legittimazione: la partecipazione pubblica che è stata invocata, da quando è stata istituzionalizzata la pianificazione locale, per attribuire le qualità del «processo dovuto», attraverso il coinvolgimento di tutti gli individui, gruppi, organizzazioni toccati dai suoi risultati. Questa partecipazione ha preso forma di pubbliche audizioni/obiezioni sulle proposte. Gli anni Sessanta furono «la decade della partecipazione» atteso che la «massima partecipazione possibile» fu inserita nei programmi di Community Action e di Model Cities (J.H. Strange, Citizen Partecipation in Comunity Action and Model Cities Programs, in Public Administration Review, 32, ottobre 1965, 655). La partecipazione pubblica può servire a una varietà di scopi: coinvolgere il vasto pubblico e così aumentare le loro fiducie e identificazioni nel governo e nelle sue decisioni; consentire alle comunità di avanzare pretese concrete (J.J. Glass, Citizen Partecipation in Planing: The Relationship Between Objectives and Tecnique, in Journal of the American Planning Association, 45, aprile 1979, 180).
Le tecniche elaborate sono le più varie.
L’aspirazione è ineccepibile, le tecniche incerte (M.G. Kweit e R.W. Kweit, Implementing Citizen Partecipation in a Bureaucratic Society, New York, 1981).
Secondo alcuni studi la partecipazione può avere un impatto positivo ma di breve periodo. L’impatto è stato lieve, ma i costi elevati (Citizen Partecipation in America, Lexington, 1978), e nei fatti non risulta una precisa aspirazione del grande pubblico (M. Fagange, Citizens Partecipation in Planning, Oxford, 1977), salvo non si avverta l’incombenza di una crisi che influenzi la vita quotidiana.
Fattore centrale è l’organizzazione, e la modalità migliore è stata l’elezione da parte del quartiere o della comunità di un comitato con autorità formale. Ma è sicuro che sia positivo? Non c’è il rischio di manipolazione? Per chi pianificare? la discussione sui fini/valori è limitata. Il codice etico del pianificatore americano impone di seguire il pubblico interesse (W.H. Lucy, APA’s Ethical Principles Include Simplistic Planning Theories, in Journal of the American Planning Association, 54, 1988, 147). Altri propongono l’incremento alla crescita umana (F. Faludi, Planning Theory, Oxford, 1973).
Un altro paragrafo del Codice Etico Professionale impone al pianificatore di «sforzarsi di espandere la scelta e l’opportunità per tutte le persone», coinvolgendo così il requisito dell’equità (N. Krumholtz e J. Forester, Marking Equity Planning Work, Philadelphia, 1990).
La pianificazione comprensiva a partire dagli anni Sessanta è stata sostituita da modelli rivali. Negli anni Settanta la pianificazione dilaga. I professionisti più tradizionalisti organizzati nell’American Institute of Planners e la American Society of Planning Officials decuplicarono.
A fine anni Settanta lo scenario è mutato, e coesistono modelli incompatibili (H. Baum, The Invisibile Bureaucracy: The Unconscious in Organizational Problem Solving, New York, 1987). Risulta quindi ambiguo il ruolo del pianificatore. Il trionfo delle pianificazioni in USA si verificò a cavallo della seconda guerra mondiale; negli anni Settanta sotto l’amministrazione Reagan entrò in crisi. La società sarà sempre più complessa, e quindi vi sarà sempre più bisogno di pianificazione.
E da queste considerazioni occorre adesso muovere per una più circostanziata prospettiva di analisi di ulteriori orientamenti della dottrina e di diritto giurisprudenziale (continua ).
(**)
INDICE DEL PRIMO VOLUME
Nozione e rilevanza costituzionale
PREMESSA
CAPITOLO PRIMO
Per una definizione della proprietà 9
1.1 La proprietà nel vocabolario giuridico 9
1.2 La prospettiva costituzionale 20
1.3 Nel quadro dei diritti dell’uomo 22
1.4 Le new properties 29
CAPITOLO SECONDO
La proprietà nei modelli stranieri e attraverso la comparazione 45
2.1 La proprietà nei modelli stranieri notevoli 45
2.1.A) Property 45
2.1.B) Proprieté 66
2.1.C) Eigentum 74
2.2 Lo ius aedificandi 79
2.3 L’espropriazione 92
2.4 Le immissioni 100
2.5 Diritti e rimedi in prospettiva comparatistica 107
2.6 Il trust 119
2.7 Trasferimento della proprietà e sistemi di pubblicità 125
2.8 Il numero chiuso dei diritti reali 140 - 471
CAPITOLO TERZO
La prospettiva dell’analisi economica 149
3.1 Un metodo di studio della proprietà. L’analisi economica del diritto 149
3.1.A) Introduzione 149
3.1.B) Le premesse dell’analisi economica del diritto:
il teorema di Coase 151
3.1.C) Diritto di proprietà e teoria economica 161
3.1.D) Costi transattivi e disciplina della proprietà:
la tesi di Posner 165
3.1.E) Costi transattivi e disciplina della proprietà:
la tesi di Calabresi e Melamed 170
3.1.F) La letteratura successiva 178
3.1.G) Alcuni ripensamenti 180
3.2 I property rights nell’analisi economica 207
3.2.A) La prospettiva rimediale 207
3.2.B) Il matrimonio tra comparazione e analisi economica 210
3.2.C) In tema di property rights 228
3.3 Il numero chiuso dei diritti reali tra teoria economica e property law 235
3.4 Le new properties nell’analisi economica 252
CAPITOLO QUARTO
La funzione sociale della proprietà 257
4.1 La proprietà nella Costituzione repubblicana del 1948.
I lavori dell’Assemblea Costituente 257
4.2 Le diverse letture dell’art. 42 Cost. 262
4.3 Le garanzie costituzionali della proprietà privata 279
4.4 La funzione sociale della proprietà. Profili storici e ideologici 291
4.5 Proprietà privata ed espropriazione 297
4.6 L’occupazione acquisitiva 304
4.7 La funzione sociale e la «socialità» nella Costituzione 318
4.8 La funzione sociale e la Costituzione materiale 320
4.9 Gli statuti della proprietà e la disciplina dei beni 331
4.10 La funzione sociale alla vigilia del nuovo millennio 340
CAPITOLO QUINTO
La proprietà e le proprietà 357
5.1 La proprietà tra diritto soggettivo e interesse legittimo 357
5.2 La proprietà e le proprietà 365
5.3 La proprietà conformata e la proprietà vincolata 369
5.4 Titolarità individuale e fruizione collettiva (beni culturali
e ambientali) 381
5.5 La proprietà edilizia 386
5.5.A) Le peculiarità della proprietà edilizia 386
5.5.B) Il bene «casa» e il diritto all’abitazione 389
5.5.C) La disciplina urbanistica ed edilizia 400
5.5.D) La proprietà dei suoli urbani 409
5.6 La proprietà agraria 412
5.6.A) La proprietà agraria e la disciplina del Codice civile 412
5.6.B) La proprietà agraria nella Costituzione 415
5.6.C) La legislazione speciale del primo dopoguerra:
la riforma agraria 423
5.6.D) L’accesso alla proprietà contadina e il diritto di prelazione
a favore dei coltivatori diretti 426
5.6.E) La tipizzazione dei contratti agrari 432
5.7 La proprietà dei gruppi 437
5.8 La proprietà fiduciaria 456
5.9 La proprietà-garanzia 465
Tavola delle abbreviazioni dei periodici italiani citati 470
INDICE DEL SECONDO VOLUME
POTERI DEI PRIVATI E STATUTO DELLA PROPRIETA’ IL CODICE CIVILE E LE LEGGI SPECIALI
CAPITOLO PRIMO
Dal Codice napoleonico al modello contemporaneo 7
1.1 I poteri del proprietario nella definizione di «proprietà» del codice napoleonico 7
1.2 Le definizioni di «proprietà» nei codici italiani preunitari 21
1.3 La proprietà nello statuto albertino 25
1.4 La disciplina della proprietà nel Codice civile italiano del 1865 29
1.5 Proprietà e impresa. La vicenda del conflitto tra proprietari terrieri e imprenditori di trasporti ferroviari 45
1.6 Proprietà e intervento dello Stato. Le opere pubbliche e i lavori pubblici 55
1.7 Le trasformazioni del diritto di proprietà: (a) La proprietà come potere relativo, limitato dal diritto pubblico 60
1.8 (b) L’idea di «funzione sociale» della proprietà nelle elaborazioni del socialismo giuridico 73
1.9 (c) La legislazione di guerra 83
1.10 (d) La funzione sociale nei testi costituzionali. La Costituzione di Weimar 87
1.11 Verso una nuova definizione di proprietà. L’interventismo corporativo e la codificazione del 1942 95
1.12 La legislazione speciale. Proprietà agraria e proprietà edilizia 115
1.13 L’evoluzione successiva 128
CAPITOLO SECONDO
Una vicenda da concettuale: il numero chiuso dei diritti reali 149
2.1 Introduzione 149
2.2 La definizione di un dogma: la tesi di Venezian 152
2.3 Il diritto di cacciare sul fondo altrui. Uso e servitù irregolari 156
2.4 La trascrizione degli obblighi personali 171
2.5 Il principio del numero chiuso dei diritti reali sullo sfondo della crisi del modello tradizionale di proprietà 183
2.6 Convenzioni di lottizzazione, asservimenti, cessioni di cubatura 207
2.7 La vicenda dei diritti reali nella dottrina recente 239
CAPITOLO TERZO
L’oggetto del diritto di proprietà 251
3.1 La nozione di oggetto del diritto di proprietà 251
3.2 I limiti all’appropriazione 263
3.2.A) Res nullius, caccia e pesca, le energie 263
3.2.B) Lo statuto del corpo umano 268
3.2.C) L’informazione, i programmi per elaboratori 271
3.2.D) Suolo e sottosuolo 277
3.3 L’ambiente come bene 290
CAPITOLO QUARTO
I limiti temporali al diritto di proprietà 301
4.1 La proprietà temporanea 301
4.2 La multiproprietà 308
CAPITOLO QUINTO
Il contenuto dei poteri del proprietario 323
5.1 Le limitazioni nell’interesse pubblico 323
5.2 La disciplina urbanistica ed edilizia 357
5.2.A) Nozione e ambito dell’urbanistica 357
5.2.B) La facoltà edificatoria 384
5.2.C) Autonomia privata e disciplina urbanistica 394
5.3 Il potere dei privati di vincolare la destinazione d’uso dei beni 414
5.4 La legislazione vincolistica 423
5.5 Immissioni e tutela della salute 430
Tavola delle abbreviazioni dei periodici italiani citati 446
(*) Questi materiali antologici raccolti da Andrea Fusaro sono parte di capitolo del secondo volume di Poteri dei privati e statuto della proprietà, S.e.a.m. editore, Roma 2002, dove si traggono gli argomenti segnalati dall’indice dell’opera (**).