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La reintegrazione del danno ambientale tra criteri giuridici e approcci economici
The reintegration of environmental damage: legal criteria and economic approaches
Antonio Di Martino
Abstract
The impact of productive 
activities on ecosystems calls for a careful consideration of environmental risk 
by firms.
The legislator is requested more and more to adopt rules able to safeguard the 
environment and the market, so as to attribute the pollution costs to the person 
responsible for them, to promote a "green competition" and penalize the wastes 
of natural resources.
Environmental risks and the increasing expectations on the respect of ecosystems 
impose to the legislator to introduce policy instruments able to prevent damages 
to environmental resources. At the same time, firms needs to estimate the costs 
necessary to respect environmental law.THis work deals with the issue of 
valuation of environmental damage, with reference to compensation, following EU 
and national rules. Some methodologies to calculate the environmental damage 
defined by economic theory are also presented.. 
Key words: 
Environmental hazards; Liability; Repairing the damage; Economic analysis of the 
damage
 
1. Introduzione 
L’individuazione e la gestione in chiave competitiva dei rischi aziendali sono 
fattori determinanti per il successo di un’impresa: la corretta amministrazione 
di tali rischi (risk management) incide sui costi e sui ricavi, che 
possono crescere o ridursi a seconda delle soluzioni praticate, là dove nuovi 
prodotti e/o servizi possono assicurare all’impresa nuove fette di mercato o 
maggiori margini di profitto.
Al contempo, si è evoluta la concezione sul ruolo dell’impresa nel sistema 
socio-economico: accanto alla prioritaria funzione economica, è diffusa 
l’opinione che l’impresa svolga anche un compito sociale, nella misura in cui 
essa soddisfa – o, al contrario, trascura o contrasta – esigenze di natura non 
strettamente economica. Oltre alla produzione di beni o servizi, le attività 
imprenditoriali originano particolari “prodotti secondari”, quali ad esempio 
l’occupazione, l’impatto ambientale e le condizioni di lavoro. 
Agli operatori economici è quindi richiesto un crescente coinvolgimento nel 
tessuto sociale in cui operano: detto altrimenti, di essere dei “cittadini 
modello”. Il mero rispetto della legge non è più sufficiente; occorre altresì 
che l’impresa giochi (e sappia trasmettere all’esterno) un ruolo attivo nel 
sociale. Valori come legalità, cultura del rispetto, iniziative nel campo 
sociale, diventano fattori critici di competitività nella misura in cui 
contribuiscono a creare un’immagine aziendale, a formare una buona reputazione 
e, in ultima analisi, a migliorare il rapporto fiduciario con la clientela, 
acquisita e potenziale.
Diventa strategica in quest’ottica anche la gestione dei rischi ambientali: 
l’impatto delle attività industriali sull’ecosistema e le crescenti implicazioni 
economiche legate all’ambiente impongono alle imprese di analizzare/gestire con 
la massima attenzione la variabile ecologica per offrire risposte puntuali ed 
efficaci al mercato, alla società e alle istituzioni1.
Né mancano, correlativamente, le ricadute sul sistema normativo e sul ruolo del 
legislatore: non a caso, le politiche ambientali di ultima generazione mostrano 
un chiaro favore verso forme d’integrazione sempre più stringenti tra norme di 
salvaguardia ambientale e regole di mercato, così da imputare i costi 
dell’inquinamento (c.d. esternalità) sul soggetto che li ha prodotti, promuovere 
una “concorrenza verde” e penalizzare gli sprechi delle risorse naturali2.
Orbene, tra gli strumenti di gestione dei rischi ambientali figura l’istituto 
della responsabilità civile: invero, a date condizioni, essa consente il 
ripristino delle condizioni precedenti l’illecito ambientale in modo da 
assicurare sia la responsabilità del danneggiante, sia il diritto al 
risarcimento delle parti lese. Non va trascurato infatti che il rischio 
d’impresa, per quanto ottimizzato, rimane comunque elemento immanente alla 
conduzione delle attività produttive: anzi, la peculiarità della moderna 
economia – in quanto basata sull’impiego massiccio di mezzi di produzione 
intrinsecamente pericolosi per persone e cose, e sull’accettazione di un 
pericolo che è socialmente assunto come componente ineliminabile del sistema 
produttivo – è tale per cui le occasioni di danno (e, quindi, di responsabilità) 
sono direttamente proporzionali al suo grado di industrializzazione. 
Il rischio di emergenze ecologiche (e, talvolta, di vere catastrofi), da un 
lato, e le crescenti aspettative di rispetto ambientale da parte della 
collettività, dall’altro, impongono pertanto al legislatore di predisporre 
idonei strumenti di tutela contro i (possibili) pregiudizi all’ecosistema; 
correlativamente, il sistema delle imprese ha bisogno di conoscere ex ante 
i costi necessari per far fronte al rispetto della normativa ambientale e 
rendere le attività produttive funzionali alla tutela dell’ambiente.
Alla luce delle considerazioni sopra svolte, il presente contributo si 
soffermerà sul tema della valutazione del danno ambientale ai fini del 
risarcimento civile: si esamineranno così le regole previste, a livello 
comunitario e nazionale, per quantificare in termini monetari i pregiudizi a un 
bene giuridico così peculiare, qual è l’ambiente. Saranno inoltre presentati 
alcuni metodi di calcolo elaborati in argomento da quella particolare disciplina 
che va sotto il nome di economia dell’ambiente.
2. La valutazione del danno ambientale nell’ordinamento comunitario 
(direttiva 2004/35/CE)
2.1. Le fattispecie di danno
La natura immateriale del “bene ambiente” e la mancanza di una valutazione 
secondo precise regole di mercato, rendono alquanto difficoltosa 
l’individuazione di precisi criteri per il calcolo monetario del valore di 
siffatto bene3; alcuni 
studiosi ritengono anzi che non vi sia fondamento scientifico nel tentativo di 
contabilizzare questo valore: tutt’al più, secondo quest’impostazione, è 
possibile ricavare soltanto degli ordini di grandezza approssimativi, in 
relazione ai differenti giudizi di valore/preferenza che la società suole 
attribuire alle risorse naturali.
Ciò malgrado, individuare tecniche, per quanto perfettibili, di monetizzazione 
dell’ambiente è un’operazione necessaria per un duplice ordine di ragioni: in 
primo luogo, per attribuire un valore economico ai fenomeni di pregiudizio 
all’ambiente, favorendone la quantificazione giudiziale; in secondo luogo, per 
consentire al sistema delle imprese di conoscere (a priori) i costi che è 
necessario affrontare allo scopo di allineare le produzioni ai contenuti della 
legislazione ambientale.
Sotto il primo profilo, la direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e 
del Consiglio del 21 aprile 20044 
(di seguito, denominata “direttiva”) è lo strumento adottato dall’Unione europea 
sul tema della “responsabilità ambientale in materia di prevenzione e di 
riparazione del danno ambientale”.
La direttiva ha l’obiettivo dichiarato di introdurre negli ordinamenti degli 
Stati membri regole uniformi sulla responsabilità (civile) per la prevenzione e 
riparazione del danno ambientale a costi ragionevoli per la società (considerando 
n. 3), nella convinzione che prevenzione e riparazione di tale illecito 
costituiscano concreta attuazione del principio “chi inquina paga” (considerando 
n. 2; art. 1 direttiva). 
Agli effetti di tale disciplina, per danno all’ambiente si intende “ogni 
mutamento negativo misurabile di una risorsa naturale o un deterioramento 
misurabile di un servizio di una risorsa naturale, che può prodursi direttamente 
o indirettamente” (art. 2, comma 2); il concetto di danno ambientale è 
ulteriormente circoscritto alle tre fattispecie, rispettivamente, del 
pregiudizio alle specie e agli habitat naturali protetti, alle acque ed al 
terreno (art. 2, comma 1)5.
2.2. La riparazione dei danni all’ambiente. L’Allegato II alla direttiva
La direttiva stabilisce la regola generale alla cui stregua l’operatore, che con 
la sua attività causi (o minacci di cagionare) un danno ambientale, ne sarà 
considerato finanziariamente responsabile: in tal modo, anche gli altri 
imprenditori saranno indotti ad adottare misure e sviluppare pratiche atte a 
minimizzare il rischio di pregiudizi all’ecosistema (considerando n. 2).
L’operatore è dunque tenuto ad assumere, a seconda dei casi, le misure di 
prevenzione (art. 5) e di riparazione (art. 6) ritenute utili allo scopo.
Con particolare riferimento a quest’ultima eventualità, la direttiva individua – 
all’articolo 7 ed in un apposito Allegato II – i criteri che gli operatori 
economici e le competenti autorità pubbliche dovranno seguire per la 
reintegrazione del danno. 
In proposito, vengono differenziate le ipotesi del danno all’acqua e agli 
habitat protetti, oppure al terreno.
In riferimento alla prima fattispecie (danno all’acqua o alle specie e agli 
habitat naturali protetti), la reintegrazione del danno è finalizzata a 
riportare l’ecosistema alle condizioni originarie, tramite misure di riparazione 
primaria, complementare e compensativa6.
La riparazione primaria consta in “qualsiasi misura di riparazione capace 
di riportare le risorse e/o i servizi naturali danneggiati alle o verso le 
condizioni originarie”.
Qualora tale risultato non possa conseguirsi, si intraprenderanno le attività di
riparazione complementare, vale a dire “ogni misura riparatoria 
finalizzata a compensare il mancato ripristino completo delle risorse e/o dei 
servizi naturali danneggiati”; lo scopo di tale riparazione è dunque di 
ottenere, se opportuno anche in un sito alternativo, risorse naturali e/o 
servizi di livello analogo a quello che si sarebbe potuto ottenere qualora il 
sito danneggiato fosse tornato alle condizioni originarie. Laddove possibile ed 
opportuno – così dispone l’allegato II –, il sito alternativo dovrebbe essere 
collegato geograficamente all’ecosistema danneggiato, tenuto conto degli 
interessi della popolazione colpita.
La riparazione compensativa, infine, è avviata ogni qual volta occorra 
bilanciare la perdita temporanea di risorse e/o servizi naturali, a decorrere 
dalla data di verificazione del danno e fino a quando non vengano completate le 
operazioni di riparazione primaria; in tal caso, la compensazione consisterà in 
ulteriori miglioramenti alle specie e agli habitat naturali protetti o alle 
acque nel sito danneggiato o in un sito alternativo7.
La riparazione del danno ambientale deve accompagnarsi all’eliminazione di 
qualsiasi rischio significativo di effetti nocivi per la salute umana. 
La concreta individuazione delle misure di riparazione8 
è ulteriormente analizzata dal legislatore comunitario, distinguendo:
1. per le misure di riparazione primaria, l’implementazione di azioni che 
riportino direttamente le risorse naturali e i servizi alle condizioni 
originarie o in tempi brevi (e, dunque, attraverso interventi umani 
“artificiali”, finalizzati al processo di ripristino) o mediante ripristino 
naturale 
2. per le misure di riparazione complementare e compensativa, considerando 
nell’ordine:
in prima analisi, l’uso di metodi di equivalenza risorsa-risorsa o 
servizio-servizio9. A 
tal fine dovranno prendersi in considerazione innanzitutto le azioni che 
forniscano risorse naturali e/o servizi dello stesso tipo, qualità e quantità di 
quelli danneggiati e, solo qualora ciò non fosse possibile, si forniranno 
risorse naturali e/o servizi di tipo alternativo (ad esempio, una riduzione 
della qualità potrebbe essere compensata da una maggiore quantità di misure di 
riparazione) 
nell’impossibilità di impiegare metodi di equivalenza risorsa-risorsa o 
servizio-servizio, andranno utilizzare tecniche di valutazione alternative. A 
tale scopo, l’autorità competente può prescrivere il metodo (come, ad esempio la 
valutazione monetaria) utile a determinare la portata delle necessarie misure di 
riparazione complementare e compensativa; qualora la valutazione delle risorse 
e/o dei servizi perduti fosse praticabile, ma la valutazione delle risorse 
naturali e/o dei servizi di sostituzione non possa eseguirsi in tempi o a costi 
ragionevoli, l’autorità competente potrà scegliere misure di riparazione il cui 
costo sia equivalente al valore monetario stimato delle risorse naturali e/o dei 
servizi perduti. 
Nella valutazione tra le varie opzioni di riparazione disponibili, è possibile 
scegliere anche misure di riparazione primaria che non restituiscano 
completamente l’acqua o le specie e gli habitat naturali protetti danneggiati 
alle condizioni originarie, ovvero li riportino più lentamente verso tali 
condizioni. Detta decisione sarà possibile sempre che le risorse naturali e/o i 
servizi perduti sul sito primario a seguito della decisione vengano compensati 
attraverso un potenziamento delle azioni complementari o compensative, così da 
fornire un livello di risorse naturali e/o servizi simile a quello perduto: è il 
caso, per esempio, di risorse naturali e/o servizi equivalenti forniti altrove a 
costo inferiore. 
Viceversa, l’autorità competente può decidere di non intraprendere ulteriori 
misure di riparazione, qualora:
a. le misure di riparazione già intraprese garantiscano l’assenza di un rischio 
significativo di effetti nocivi per la salute umana, l’acqua, le specie e gli 
habitat naturali protetti 
b. i costi delle misure di riparazione da adottare per raggiungere le condizioni 
originarie o un livello simile siano sproporzionati rispetto ai vantaggi 
ambientali ricercati.
Per la seconda ipotesi (riparazione del danno al terreno), l’allegato II 
della direttiva prescrive l’adozione di misure necessarie a garantire, come 
minimo, che gli agenti contaminanti pertinenti siano “eliminati, controllati, 
circoscritti o diminuiti” e, quindi, che il terreno contaminato non presenti più 
un rischio significativo di effetti nocivi per la salute umana, in relazione al 
suo uso attuale o previsto per il futuro. La presenza di simile rischio per la 
salute andrà valutato mediante procedure di misurazione del rischio che tengano 
conto, rispettivamente, delle caratteristica e funzioni del suolo, del tipo e 
della concentrazione delle sostanze, dei preparati, degli organismi o 
microrganismi nocivi, dei relativi rischi e della possibilità di dispersione 
degli stessi. L’utilizzo del terreno va determinato in base alle normative 
sull’assetto territoriale o ad eventuali altre normative di settore, in vigore 
al tempo in cui si è verificato il danno: qualora l’uso del terreno fosse in 
seguito modificato, si adotteranno tutte le misure necessarie per evitare di 
causare effetti nocivi per la salute umana. In mancanza infine di normative 
sull’assetto territoriale o di altre normative pertinenti, l’uso del terreno va 
determinato in base alla natura dell’area in cui si è verificato il danno, 
tenendo conto dello sviluppo previsto per la stessa.
2.3. Alcuni problemi interpretativi
La disciplina sopra esposta evidenzia come la direttiva sia orientata verso un 
approccio di valutazione che privilegia il ripristino rispetto ai provvedimenti 
monetari, considerato che i costi di ripristino sono più facili da stimare, si 
basano su un ristretto numero di metodologie di valutazione e, infine, sono 
verificabili ex post10. 
Come visto, tali costi comprendono non solo le spese per il ripristino dello 
stato dei luoghi (riparazione primaria), ma anche i costi necessari ad ottenere 
in altro sito un livello analogo di naturalità, ogni qualvolta il ripristino 
dello stato originario dei luoghi non sia stato ottenuto (riparazione 
complementare), nonché le spese per il miglioramento ulteriore delle specie o 
degli habitat nel sito originario o alternativo utili a compensare le perdite 
temporanee di risorse o di servizi ambientali tra il momento del danno e il 
completamento della riparazione primaria o complementare (riparazione 
compensativa).
La dottrina occupatasi dell’argomento non ha mancato di evidenziare talune 
criticità legate a tale disciplina.
In primo luogo, si segnala il problema del rapporto intercorrente tra la 
riparazione primaria e quella complementare: in particolare, occorre domandarsi 
se la scelta tra le due alternative possa effettuarsi anche nell’ipotesi in cui 
la riparazione primaria sia possibile, ancorché non conveniente per l’operatore. 
Sul punto, la direttiva ammette esplicitamente l’alternativa, anche qualora il 
ripristino sia in linea di principio possibile, ogni qualvolta le risorse 
naturali e/o i servizi perduti sul sito primario siano compensati mediante 
l’accrescimento di azioni complementari o compensative tese a fornire un livello 
di risorse naturali e/o servizi simile a quello perduto: solo a titolo 
esemplificativo, si porta il caso di risorse e/o servizi naturali equivalenti 
forniti altrove a costi inferiori. È previsto inoltre che l’autorità competente 
possa evitare di assumere qualsiasi iniziativa di riparazione, anche 
complementare, solo in assenza di rischio di ulteriore danno ambientale e sempre 
che i costi delle misure di riparazione da adottare per raggiungere le 
condizioni originarie o un livello simile siano sproporzionati rispetto ai 
vantaggi ambientali ricercati.
Può accadere allora che, in determinate ipotesi, non appaia realizzabile né il 
ripristino delle condizioni originarie, né il conseguimento di un livello 
equivalente di risorse e servizi ambientali nello stesso sito o in un sito 
alternativo (ad esempio, estinzione irreversibile di specie animale e/o 
vegetale): può in tal caso l’autorità competente possa pretendere una somma di 
denaro a titolo di risarcimento per equivalente? A tale interrogativo la 
dottrina11 ha dato 
una risposta negativa: si argomenta che, ai sensi degli articoli 8 e segg della 
direttiva, l’operatore è obbligato unicamente al pagamento dei costi relativi 
alle misure di prevenzione e riparazione e che tali costi – ai sensi dell’art. 2 
della stessa direttiva – sono tali da ricomprendere soltanto quelli occorrenti 
alla valutazione del danno ambientale (o della sua minaccia), alle spese 
amministrative, legali e di applicazione, ai costi di raccolta dei dati e altri 
costi generali, nonché ai costi di controllo e sorveglianza. Inoltre l’allegato 
II alla direttiva ammette la valutazione monetaria del bene danneggiato al solo 
fine di individuare un metodo di equivalenza tra risorse e servizi che sia 
funzionale all’applicazione delle misure complementari o compensative; il 
medesimo documento ha cura di precisare che la riparazione compensativa non può 
comunque consistere in una compensazione finanziaria al pubblico per le perdite 
di risorse e/o di servizi naturali.
Altro elemento di criticità è legato alle coperture finanziarie degli interventi 
di riparazione (e, più in generale, di ristoro del danno): premesso che 
l’insolvenza degli operatori è un fattore che può ostacolare il recupero dei 
costi in linea con il principio “chi inquina paga” da parte delle autorità 
competenti, gli Stati membri sono chiamati ad adottare le misure necessarie ed 
utili a promuovere un sistema di garanzie al quale gli operatori possano 
ricorrere per la copertura dei danni.
In linea con siffatti indirizzi, la Commissione europea – nel predisporre la 
proposta di direttiva sulla responsabilità ambientale – aveva sancito 
l’obbligatorietà di tale assicurazione, sul triplice presupposto che le Autorità 
pubbliche avessero a disposizione un efficace strumento di effettiva riparazione 
dei pregiudizi all’ecosistema, in linea con il principio del “chi inquina paga”, 
che agli operatori industriali fosse consentito di ripartire i rischi e, infine, 
che il settore assicurativo potesse sviluppare un mercato consistente12.
L’assunto è stato tuttavia contrastato dagli operatori del settore, i quali 
paventavano il rischio che un regime, come quello delineato nella proposta di 
direttiva, potesse compromettere la competitività delle imprese europee, sia nel 
mercato interno che nei rapporti commerciali con i paesi esteri. Le perplessità 
riguardavano: innanzitutto, l’indeterminatezza della valutazione del danno alla 
“biodiversità”, con la conseguente impossibilità per le imprese di stimare in 
anticipo i costi connessi all’applicazione del nuovo regime; in secondo luogo, 
l’ampiezza del regime di responsabilità previsto dalla bozza di direttiva, per 
l’impossibilità del settore assicurativo di fornire coperture a tutti i rischi 
inclusi nel testo normativo. 
Alla fine, il legislatore comunitario ha deciso di mitigare questo profilo della 
disciplina: invero, l’articolo 14 della direttiva accoglie una formula 
palesemente programmatica, statuendo che “gli Stati membri adottano misure 
per incoraggiare lo sviluppo, da parte di operatori economici e finanziari 
appropriati, di strumenti e mercati di garanzia finanziaria, compresi meccanismi 
finanziari in caso di insolvenza, per consentire agli operatori di usare 
garanzie finanziarie per assolvere alle responsabilità ad essi incombenti ai 
sensi della presente direttiva” (comma 1°) e che “anteriormente al 30 
aprile 2010 la Commissione presenta una relazione in merito all’efficacia della 
direttiva in termini di effettiva riparazione dei danni ambientali e in merito 
alla disponibilità a costi ragionevoli e alle condizioni di assicurazione e di 
altri tipi di garanzia finanziaria per le attività contemplate dall’allegato III. 
La relazione esamina anche relativamente alla garanzia finanziaria i seguenti 
aspetti: un approccio graduale, un massimale per la garanzia finanziaria e 
l’esclusione di attività a basso rischio. Alla luce di tale relazione e di una 
valutazione approfondita dell'impatto, che include un’analisi costi/benefici, la 
Commissione presenta, se del caso, proposte per un sistema di garanzia 
finanziaria obbligatoria armonizzata” (comma 2°).
La formula costituisce il punto di equilibrio raggiunto dai soggetti coinvolti 
(autorità pubbliche, associazioni ambientaliste e industriali, settore 
assicurativo): ciò malgrado, un sistema comunitario (ed uniforme) di garanzie 
finanziarie per il danno ambientale rappresenta la condizione necessaria a 
garantire l’effettiva applicazione del principio “chi inquina paga” in modo 
omogeneo sul territorio della Comunità, evitando distorsioni della concorrenza 
tra le imprese13. 
3. Il risarcimento del danno ambientale nell’ordinamento italiano
Il nostro legislatore ha regolato la responsabilità civile per danno ambientale 
in epoca anteriore all’emanazione della direttiva 2004/35/CE. Alla materia si 
rivolgeva una pluralità di discipline, vale a dire:
 una normativa di carattere generale, costituta dall’art. 18 della legge 8 
luglio 1986, n. 349 (“Istituzione del Ministero dell’ambiente e norme in materia 
di danno ambientale”), che attribuisce allo Stato e agli enti territoriali la 
legittimazione ad agire in giudizio per chiedere il risarcimento del danno 
all’autore di un pregiudizio all’ambiente commesso mediante comportamenti 
colposi o dolosi assunti in violazione di leggi o di provvedimenti 
amministrativi 
 alcune discipline di settore, quali l’art. 17 del decreto legislativo 5 
febbraio 1997, n. 22 (in materia di bonifiche) e l’art. 58 d. lgs. 11 maggio 
1999, n. 152 (in tema di tutela delle acque dall’inquinamento)14.
Le normative in questione risultano oggi abrogate dal c.d. Codice dell’ambiente 
(decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152), sopravvenuto in sede di attuazione 
della direttiva comunitaria: ciò nonostante, la disamina dell’art. 18 l. 349/86 
appare, in questa sede, utile e necessaria in considerazione sia della 
circostanza per cui la normativa in questione è comunque destinata ad applicarsi 
agli illeciti ambientali commessi anteriormente al 29 aprile 200615, 
sia delle elaborazioni svolte dalla dottrina e dalla giurisprudenza che con tale 
disciplina si sono misurate. 
3.1. L’articolo 18 della Legge 8 luglio 1986, n. 349
L’art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349 ha rappresentato 
nell’ordinamento italiano, per circa due decenni, il primo esempio di tutela 
specifica in tema di risarcibilità del danno all’ambiente, indipendentemente 
dalla violazione di diritti soggettivi altrui: tale articolato ha dato 
attuazione nel nostro Paese al principio comunitario “chi inquina paga”, secondo 
il quale i costi dell’inquinamento devono essere sopportati dal responsabile 
attraverso l’introduzione dell’obbligo di risarcire il danno cagionato 
all’ambiente a seguito di una qualsiasi attività compiuta in violazione di un 
dispositivo di legge16.
Si tratta di una forma peculiare di responsabilità extracontrattuale (o 
aquiliana) connessa a fatti, dolosi o colposi, cagionanti un danno ingiusto 
all’ambiente, dove l’ingiustizia viene individuata nella violazione di una 
disposizione di legge e dove il soggetto titolare del risarcimento è lo Stato.
La disciplina in commento non definisce il concetto di “ambiente”, palesando 
piuttosto la volontà legislativa di estenderne la tutela a situazioni giuridiche 
non corrispondenti a categorie di beni (individuali) tradizionalmente protetti, 
come la salute o la proprietà17.
In proposito, la dottrina18 
ha distinto un duplice regime di responsabilità ambientale, basato, 
rispettivamente, sull’applicazione o delle fattispecie di danno previste dal 
codice civile ovvero dalla specifica normativa di settore. Il discrimen 
si fonda sulla distinzione tra danno da inquinamento (o danno all’ambiente) e 
danno ambientale “in senso stretto”: il primo riguarda il pregiudizio alla 
persona o al patrimonio subito dall’individuo in seguito a fenomeni di 
inquinamento generatisi in precedenza; il secondo afferisce alle alterazioni 
arrecate alle risorse naturali ed agli ecosistemi, prescindendo da ogni 
riferimento ai riflessi che questo danno possa arrecare nei confronti di persone 
e cose.
Nell’ipotesi di danno da inquinamento, la disciplina applicabile risiede negli 
artt. 2043 e segg. del codice civile poiché, in questi casi, l’inquinamento 
risulta solo la causa del danno prodotto a terzi. Legittimato all’azione è il 
soggetto che abbia visto leso il proprio diritto in conseguenza o di un’azione 
dolosa o colposa (art. 2043) o di un’attività descritta agli artt. 2049-2051 
(ipotesi c.d. di responsabilità oggettiva), con competenza in capo al giudice 
ordinario e secondo un regime che prevede il risarcimento per equivalente.
Nel caso invece del danno ambientale stricto sensu, l’ambiente rileva 
come bene giuridico immateriale, meritevole di risarcimento indipendentemente 
dalla lesione dei diritti soggettivi individuali, sulla scorta di una normativa 
che valorizza gli aspetti sanzionatori della tutela pubblicistica rispetto a 
quelli risarcitori (propri del diritto privato)19.
Con riferimento a quest’ultima disciplina, quanto al contenuto del risarcimento, 
vengono in rilievo i commi sesto e ottavo dell’articolo 18 ai cui sensi:
- “il giudice, ove non sia possibile una precisa quantificazione del danno, ne 
determina l’ammontare in via equitativa, tenendo comunque conto della gravità 
della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino, e del profitto 
conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni 
ambientali” (comma 6) 
- “il giudice, nella sentenza di condanna, dispone, ove sia possibile, il 
ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile” (comma 8).
Malgrado l’ordine seguito dal legislatore, dottrina e giurisprudenza sono 
concordi nell’attribuire un diverso ordine logico-giuridico ai rimedi previsti 
dall’art.18, e cioè: in primo luogo, il ripristino dei luoghi a spese del 
responsabile, da disporsi “ove possibile”; in secondo luogo, il risarcimento per 
equivalente; in terzo luogo, la valutazione equitativa del giudice. L’assunto si 
fonda sul rilievo che il ripristino dello stato dei luoghi, quale forma 
ordinaria di risarcimento civile del danno ambientale, è funzionale alle 
esigenze dettate dalla normativa in esame in riferimento ad una tipologia di 
bene come l’ambiente20: 
tuttavia, è appena il caso di osservare – in riferimento, stavolta, al rapporto 
tra risarcimento per equivalente e risarcimento in via equitativa – che, mentre 
per la valutazione equitativa la legge fissa dei criteri di orientamento per il 
giudice per quanto una precisa quantificazione del danno, per l’ipotesi di 
risarcimento per equivalente difetta l’indicazione di puntuali parametri di 
riferimento.
3.2. I parametri legislativi per la riparazione del danno ambientale: in 
particolare, il risarcimento in forma specifica
La sanzione civile principale per la rifusione del danno ambientale è dunque 
costituita dal risarcimento in forma specifica, vale a dire il ripristino dello 
stato dei luoghi: in tale ipotesi, il giudice ha il compito di ordinare la 
riduzione in ripristino ogni volta questo sia materialmente possibile, 
indipendentemente dai costi; correlativamente, l’autore dell’illecito sarà 
obbligato a sopportare il costo di un’operazione individuata nel suo contenuto, 
ma non nell’ammontare della spesa. La misura può essere disposta dal giudice 
anche d’ufficio. 
La stima del danno basata sul costo del ripristino è del tutto indipendente 
dalla condizione in cui versavano la componenti ambientali danneggiate nel 
momento in cui inizia l’attività illecita da cui deriva il danno. Essa è inoltre 
relativa al danno in sé subito dai beni ambientali e, dunque, è indipendente 
anche da spese di bonifica o di ripristino già da chiunque sostenute o da 
sostenere. Infine, devono essere ricostruite le spese necessarie per una 
eliminazione completa del danno, e non per trattamenti che si limitano a 
contenere o a ridurre le contaminazioni.
Il legislatore ha comunque previsto un limite specifico all’applicazione di tale 
rimedio: in particolare, il giudice dispone la misura del ripristino “ove 
possibile”, avendo preliminarmente accertato che il sito danneggiato non è 
più ricostituibile e/o riproducibile nella sua capacità funzionale ovvero che 
l’equilibrio ecologico risulta alterato in misura tale da non rendere più 
ipotizzabile il ritorno ad una situazione simile a quella preesistente alla 
commissione dell’illecito21.
Il rimedio in commento presenta carattere di specialità rispetto al dettato 
dell’art. 2058 c.c. che, com’è noto, costituisce il riferimento generale della 
disciplina dettata dal codice civile in tema di reintegrazione in forma 
specifica: ai sensi di tale articolo, la restituito in integrum 
costituisce una misura eccezionale, in quanto operabile solo su domanda espressa 
del danneggiato (comma 1) e sempre che non risulti eccessivamente onerosa per il 
debitore (comma 2).
Orbene, la norma dell’articolo 18 non considera questa seconda ipotesi: l’unico 
presupposto (di cui il giudice deve tener conto nel disporre il ripristino) è la 
materiale possibilità di riprodurre una situazione ambientale uguale o simile a 
quella precedente al danno; la riduzione in ripristino dello stato dei luoghi è 
pertanto svincolata da qualsiasi valutazione del giudice in ordine ai costi 
gravanti sul danneggiante per rimuovere gli effetti dannosi del suo 
comportamento illecito22.
È ritenuto ammissibile anche un ripristino solo parziale che, in tal caso, si 
cumulerà al risarcimento pecuniario per la parte restante23.
3.3. (Segue): il risarcimento per equivalente
Qualora il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, si fa luogo al 
risarcimento per esatto equivalente. 
Il rimedio (previsto dal comma 6° dell’articolo 18) consta nel pagamento di una 
somma di denaro corrispondente nel suo ammontare alla perdita subita dal 
danneggiato in conseguenza dell’illecito. Il giudice deve perciò valutare la 
possibilità di giungere a una quantificazione precisa del danno ambientale: il 
compito appare assai arduo, posto che il legislatore non ha indicato alcun 
criterio idoneo a misurare in termini monetari l’illecito ambientale. 
Nel silenzio della legge, gli interpreti hanno fatto riferimento alla disciplina 
prevista dall’art. 2056 c.c. (“Valutazione dei danni”) il quale, a sua volta, 
rinvia alle disposizioni afferenti al danno da inadempimento dell’obbligazione 
ex artt. 1223, 1226 e 1227 del codice civile: di conseguenza, la liquidazione 
monetaria dell’illecito ambientale terrà conto della duplice componente del 
danno emergente (ovvero, la diminuzione di valore che deriva al bene dall’evento 
lesivo) e del lucro cessante (vale a dire, quei danni di natura patrimoniale 
ascrivibili alla mancata realizzazione di guadagni in conseguenza dell’evento 
lesivo), una volta accertato la sussistenza del nesso eziologico tra l’illecito 
e il danno.
Rimane irrisolta, tuttavia, la questione inerente alle difficoltà di attribuire 
un valore economico al “bene ambiente”, stante la particolare natura di tale 
bene: nonostante i numerosi (e meritevoli) sforzi interpretativi della dottrina 
e della giurisprudenza di legittimità, restano le innegabili difficoltà nel 
quantificare il danno ambientale attraverso metodologie certe e, dunque, 
utilizzabili in ogni occasione al fine di rendere omogenee le diverse decisioni 
delle Corti (sul punto, infra, paragrafo 5)24.
In questo contesto è stato praticamente impossibile prescindere dal ricorso al 
criterio della valutazione equitativa del danno ambientale. 
3.4. (Segue): la valutazione equitativa
La valutazione in via equitativa ha costituito la tecnica più efficace per 
giungere a determinare il quantum del danno ambientale. 
Si tratta di uno strumento di non facile utilizzazione, nella misura in cui 
accolla al giudice l’arduo compito della valutazione del danno quando sia stata 
verificata l’impossibilità di stabilire una quantificazione precisa dello 
stesso. A differenza delle regole generali ricavabili dal nostro codice civile 
(art. 1226 c.c.), che rimettono la valutazione equitativa al libero 
apprezzamento del giudice, in materia di danno ambientale il ricorso all’equità 
è subordinato a precisi parametri legali, prefissati dal sesto comma dell’art. 
18: è previsto infatti che “il giudice, ove non sia possibile una precisa 
quantificazione del danno, ne determina l’ammontare in via equitativa, tenendo 
comunque conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per 
il ripristino e del profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo 
comportamento lesivo dei beni ambientali”.
Siamo in presenza quindi di una valutazione equitativa “a carattere vincolato”, 
connessa a specifici parametri di legge che il giudice deve obbligatoriamente 
considerare nello svolgimento della propria attività di misurazione del danno 
ambientale: una circostanza, quest’ultima, che segna un profondo distacco dalla 
disciplina generale del codice civile, là dove la determinazione equitativa è 
lasciata alla libera valutazione dell’organo giurisdizionale, senz’alcuna 
indicazione di parametri normativi condizionanti25.
3.4.1. La gravità della colpa
Il criterio inerente alla gravità della colpa individuale26, 
in quanto afferisce all’elemento psicologico dell’autore dell’illecito, mira a 
valorizzare la consapevolezza, da parte dello stesso soggetto, in ordine alle 
conseguenze che le sue scelte, relative ai metodi di produzione, possono 
determinare sui costi/pregiudizi per l’ambiente27.
Si tratta di una previsione legislativa dalla quale discendono notevoli 
implicazioni sotto il duplice profilo della natura di questa specifica 
componente di liquidazione per equivalente, da un lato, e dei suoi rapporti con 
le previsioni del successivo comma ottavo dello stesso art. 18, dall’altro.
Circa il primo profilo, è stato asserito che la decisione in via equitativa 
prevista dall’art.18, prevedendo come parametro di quantificazione (anche) il 
grado della colpa, darebbe luogo, anziché ad un risarcimento, all’irrogazione di 
una pena privata28. 
Di identico avviso è la giurisprudenza: in una pronuncia del 1995, la Corte di 
Cassazione ha affermato che “[...] l’ordinamento ha voluto tener conto non solo 
del profilo risarcitorio, ma anche di quello sanzionatorio, che pone in primo 
piano non solo e non tanto le conseguenze patrimoniali del danno arrecato (i 
c.d. danni conseguenza), ma anche e soprattutto la stessa produzione dell’evento 
e cioè l’alterazione, il deterioramento, la distruzione, in tutto o in parte 
dell'ambiente, ossia la lesione in sé del bene ambientale”29.
Quanto ai problemi di coordinamento tra il comma sesto, che prevede i suddetti 
parametri, e il comma ottavo, si è rilevato che “se il giudice condanna al 
ripristino dello stato dei luoghi, il costo sarà esattamente quello che serve 
per il ripristino: se, ad esempio, per il ripristino serve 100, il responsabile 
dovrà pagare 100. Questa […] è la prima ipotesi nell’ordine logico delle 
sanzioni previste dall’art. 18”30.
È indubbio che la presenza di tale parametro nel sistema di valutazione del 
danno ambientale comporta una riflessione sulla funzione del risarcimento 
medesimo: prevedendo il riferimento alla gravità della colpa individuale, il 
legislatore ha inteso attribuire alla responsabilità civile ambientale un 
carattere misto, risarcitorio e sanzionatorio insieme31.
3.4.2. Il costo necessario per il ripristino
Il secondo parametro individuato dal legislatore per misurare il danno 
ambientale in via equitativa consiste nel costo necessario per il ripristino: si 
tratta, anzi, del solo criterio oggettivo in quanto legato alla situazione 
obiettiva determinatasi a seguito della lesione.
L’aspetto di maggior rilievo riguardante tale criterio è certamente dato dal 
coordinamento tra la previsione del sesto comma e quella del comma ottavo 
dell’art. 18, posto che entrambe le norme menzionano appunto il ripristino dei 
luoghi.
Secondo la lettera della legge, il giudice disporrà “ove sia possibile” il 
ripristino dello stato dei luoghi (comma ottavo); in caso contrario, egli 
procederà ad una valutazione equitativa nel cui ambito il costo necessario per 
il ripristino sarà solo uno dei criteri di cui tenere conto nella valutazione 
complessiva del danno. 
La dottrina32 suole 
distingue due situazioni.
Innanzitutto, può verificarsi il caso in cui un ripristino, pur tecnicamente 
possibile, non sia immediatamente eseguibile (si pensi, ad esempio, ad un 
terreno per il quale siano necessari alcuni anni per la completa decantazione 
naturale delle sostanze che l’hanno contaminato): in simili situazioni, la 
condanna del responsabile è giustificata dalla circostanza che il ripristino non 
è eseguibile nel presente, ma può esserlo nel futuro. I costi relativi potranno 
essere ricavati dal giudice sulla base di consulenze tecniche oppure di progetti 
di ripristino.
Il problema si pone soprattutto nell’ipotesi in cui risulti impossibile 
riportare i luoghi allo stato antecedente al danno ambientale poiché, in tal 
caso, viene da domandarsi come sia possibile annoverare il costo di un 
ripristino al fine per una valutazione del danno in via equitativa. 
All’obiezione si è replicato osservando che la valutazione equitativa del danno 
ambientale, lungi dal costituire la mera somma di diversi addendi, deve 
rappresentare una valutazione complessiva che tenga comunque conto dei tre 
parametri indicati dal legislatore di modo che il giudice – di fronte ad un caso 
di impossibilità concreta di ripristino dei luoghi (e dunque di quantificazione 
dei costi reali relativi) – possa fondare la propria decisione su un costo per 
il ripristino “orientativo”, dedotto in sulla scorta di consulenze tecniche e/o 
di progetti di ripristino.
3.4.3. Il profitto conseguito dal trasgressore
L’ultimo criterio dettato dalla legge consiste nel profitto conseguito dal 
trasgressore che – analogamente al parametro della gravità della colpa – svolge 
una funzione deterrente, volta a dissuadere il potenziale danneggiante dal porre 
in essere la lesione del bene33.
Il parametro fornisce al giudice uno strumento flessibile nella valutazione del
quantum, in modo che la condanna inflitta al responsabile non sia più 
bassa dell’effettivo ammontare del danno arrecato attraverso la condotta lesiva: 
in nessun caso il giudice potrà esimersi dal valutare l’arricchimento ingiusto 
ottenuto dal danneggiante attraverso la lesione e dovrà, necessariamente, 
condannarlo ad un risarcimento superiore a tale arricchimento.
La stima del danno in applicazione del criterio de quo viene ricondotta 
fondamentalmente ai seguenti due approcci, quali il riferimento: 
1. ai guadagni conseguiti dal trasgressore in condizione di mancato rispetto 
delle norme e, per questa ragione, da considerare illeciti e risarcibili 
2. alle spese evitate dal trasgressore, ovvero alle risorse finanziarie che il 
trasgressore avrebbe dovuto sostenere per evitare il danno e/o per attenersi 
alla normativa, e che invece ha risparmiato o investito in altro modo.
Tale parametro si ricollega al carattere “normalmente” doloso delle azioni 
realizzate in pregiudizio dell’ambiente: il criterio ben difficilmente sarà 
applicabile a fronte di fatti colposi poiché, in simili fattispecie, il 
trasgressore non ricava in genere un profitto in conseguenza del mancato 
rispetto di prescrizioni ambientali ma, semmai, avrebbe potuto ottenere un 
profitto maggiore se l’incidente (ad esempio l’affondamento di una nave cisterna 
sovraccarica di petrolio) non si fosse verificato.
Il richiamo al profitto conseguito dal trasgressore è stato accolto con favore 
dalla dottrina, apparendo chiaro che “[…] è soltanto l’entità dei risarcimenti 
che si fanno gravare sulle imprese responsabili dell’inquinamento a rendere 
adeguato (almeno in parte) ai fini della tutela ambientale l’istituto della 
responsabilità civile, facendo sì che le scelte imprenditoriali vengano 
indirizzate verso forme e tecniche di produzione meno dannose per l’ambiente”34.
3.5. La valutazione del danno ambientale nella giurisprudenza di merito
Le riviste specializzate danno notizia di (sole) due sentenze con le quali i 
giudici di merito, dal 1986 ad oggi, hanno provveduto alla quantificazione dei 
danni all’ambiente in base ai criteri stabiliti dalla legge n. 349/86. 
Il primo provvedimento è stato pronunciato dalla Pretura di Rho in data 29 
giugno 1989 in relazione ad una fattispecie d’inquinamento doloso di un corso 
d’acqua (il torrente Lura) nel quale alcune società industriali (Petrolcar, 
Autoservizi industriali e Ecotrans) avevano sversato rifiuti tossico-nocivi: il 
giudice ha riconosciuto la responsabilità penale degli imputati, condannandoli 
al risarcimento in favore delle parti civili (Ministero dell’ambiente, Provincia 
di Milano, Comune e U.S.L. di Rho) della somma di 500 milioni di Lire.
Nell’occasione il Pretore ha fatto applicazione dei criteri di valutazione 
equitativa stabiliti dall’art. 18, comma 6, secondo l’iter 
logico-giuridico che si riporta:
 quanto alla gravità della colpa, essa è stata ritenuta in massimo grado 
“posto che si è aggirata la normativa rigorosa stabilita dal legislatore, si 
sono vanificati con un solo fatto e senza la minima difficoltà tutti gli sforzi 
compiuti dalle autorità statali e locali per tentare di arginare il fenomeno 
dell’inquinamento in zone densamente popolate nelle quali le condizioni di vita 
della popolazione sono già precarie sotto il profilo del diritto primario alla 
salute, costituzionalmente tutelato”36
 il secondo parametro, ossia il costo necessario per il ripristino, è 
stato valutato in relazione ad un progetto esistente per la bonifica del bacino 
di cui faceva parte il torrente inquinato, specificandosi che “per i soli 
interventi relativi al torrente Lura risulta siano stati stanziati circa 42 
miliardi, ciò che induce a valutare l’entità del danno risarcibile nella 
fattispecie de quo in misura proporzionale – seppure ridotta in relazione alla 
parte di danno arrecato – a tale cifra”37
 infine, il profitto conseguito dal trasgressore è stato considerato 
particolarmente alto, poiché “lo smaltimento regolare dei rifiuti avrebbe 
comportato costi molto elevati in considerazione dell’estrema scarsità 
dell’attuale offerta di mercato relativa allo smaltimento regolare di rifiuti 
tossico-nocivi e del notevole quantitativo di rifiuti da smaltire”. 
Per stessa ammissione del pretore, però, il ricorso ai parametri sopra 
menzionati non permetteva comunque la determinazione di una somma precisa: nella 
sentenza si legge che “da quanto sopra non emerge comunque la determinabilità 
di una somma precisa nel suo ammontare, né si potrebbe addivenire a determinare 
una più precisa quantificazione mediante una eventuale successiva causa civile, 
nella quale, malgrado i tempi estremamente lunghi non si potrebbe acquisire 
alcun ulteriore elemento, né stabilire alcun diverso criterio ai fini di 
quantificare il danno risarcibile. Si ritiene, pertanto, più opportuno 
quantificare in questa sede il danno usufruendo dello strumento normativo ad hoc 
che l’art. 18 L. 349/86 ha posto a disposizione del giudice ordinario anche 
penale”. Ai commentatori della sentenza è parso pertanto difficile 
comprendere i passaggi logici effettuati dal giudice per addivenire alla 
liquidazione della somma pari a 500 milioni: in particolare, sfuggono le voci di 
danno che, nel ragionamento del giudice, sono state valutate per la 
quantificazione del risarcimento, né si comprende il quid assunto dal 
pretore per misurare il lucro cessante e il danno emergente in materia 
ambientale ex art. 1223 c.c. 
La seconda sentenza che ha visto un giudice quantificare il danno all’ambiente 
sulla scorta dei criteri stabiliti dall’art. 18 della legge n. 349/1986 risale 
al 2002: con sentenza del Tribunale di Venezia38, 
gli imputati ed il responsabile civile Enichem S.p.a. furono condannati 
solidalmente tra loro al risarcimento in favore delle parti civili. Il giudice 
ha quantificato in complessivi 225.000 Euro il danno risarcibile avendo 
accertato un’alterazione dell’ambiente in seguito alla fuoriuscita accidentale 
dallo stabilimento Enichem di rilevanti quantità di ammoniaca.
Anche in tale fattispecie il risarcimento è stato valutato in via equitativa, sulla scorta delle seguenti argomentazioni:
 la sentenza premette che, nel caso di specie, non è risultata “possibile 
una precisa quantificazione del danno poiché l’evento ha assunto connotazioni 
tali che non è stato possibile il ripristino, né è stata possibile alcuna 
misurazione, in termini sia quantitativi che qualitativi, della alterazione o 
modificazione dell’ambiente” e che “[…] anche a voler quantificare e «misurare» 
un valore d’uso, comunque poi rimane irrisolta la monetizzazione se il bene non 
ha un mercato. In tal senso, pur ponendosi un problema di inquadramento della 
natura del danno qui in esame (risarcitorio o sanzionatorio) quel che rileva è 
che i criteri indicati dall’art. 18 consentono di quantificare l’ammontare del 
danno che altrimenti rimarrebbe indeterminabile” 
 sul criterio afferente alla gravità della colpa del danneggiante, il giudice 
riporta nella motivazione un assunto che, per quanto ineccepibile (“Colpa e 
danno possono non essere correlati, potendo la prima essere minima e massimo il 
secondo e viceversa”), non aiuta tuttavia a comprendere quale sia stato il 
contributo di questo parametro nella misurazione del risarcimento 
 il costo necessario per il ripristino è stato calcolato dal Tribunale sulla 
base del valore di un’attività di ripristino ambientale mirata a “depurare 
almeno l’acqua derivante dall’abbattimento dell’ammoniaca presso un impianto 
pubblico di depurazione”. Il giudice ha tuttavia valutato la suddetta 
attività solo a “parziale computo del danno” poiché l’intervento di depurazione, 
connotandosi come intervento d’emergenza, “non può considerarsi risolutivo di 
ogni problema, essendo certo che non consente l'abbattimento dell'intera 
quantità di ammoniaca presente in atmosfera” 
 in relazione, infine, al parametro del profitto conseguito dal trasgressore, 
il giudice ha ritenuto di fare riferimento ai giorni necessari per l’esecuzione 
dei lavori di sostituzione della valvola B, quantificati in “due giorni 
durante i quali i reparti non avrebbero potuto produrre in quanto sarebbe stata 
chiusa la linea spurghi ammoniacali”. In tal modo, viene calcolato il valore 
della produzione a cui l’impresa avrebbe dovuto rinunciare se avesse dato luogo 
all’intervento di manutenzione utile ad evitare il verificarsi dell’incidente. 
Si trova precisato, inoltre, che il profitto del trasgressore non va 
identificato negli utili aziendali perché “se così non fosse, imprese in 
difficoltà o in uno stato di insolvenza sarebbero, in base al criterio del 
profitto del trasgressore, immuni da responsabilità per danno ambientale. 
Invero, nelle medesime condizioni sarebbero anche imprese floride in fase di 
crescita ma con notevole e fisiologico indebitamento verso banche che, quindi, 
potrebbero non avere utili di esercizio”.
Nell’esprimere alcune valutazioni sulla giurisprudenza testé richiamata, due 
osservazioni si possono trarre:
1. malgrado la specifica tutela offerta dalla legge n. 349 del 1986, i giudici 
hanno fatto un uso sinora limitato della disciplina in esame: la circostanza 
pare giustificarsi in relazione alla particolare natura dell’ambiente, vale a 
dire di un bene che non si presta di per sé ad essere misurato in termini 
meramente monetari essendo inappropriabile, non commerciabile e, quindi, come 
tale, privo in sé di un valore economico39
2. ambedue le sentenze commentate procedono alla valutazione del danno 
ambientale in via equitativa: pur nella specificità delle situazioni sottostanti 
alle pronunce dei giudici, la circostanza è emblematica delle oggettive 
difficoltà che si frappongono all’utilizzazione degli altri canoni previsti 
dall’art. 18 (il ripristino dei luoghi ed il risarcimento per equivalente) che 
pure, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbero essere i criteri guida – o, 
comunque, ordinari – nella valutazione dei pregiudizi alle risorse ambientali.
Malgrado queste difficoltà, alla disciplina del 1986 va comunque il merito di 
aver riconosciuto rilevanza autonoma al bene ambiente e introdotto nel nostro 
ordinamento la specifica disciplina risarcitoria del danno ambientale, colmando 
così un’evidente lacuna legislativa in una materia che ha assunto una sempre 
maggiore attualità: d’altronde, la vasta letteratura e l’ampia giurisprudenza 
formatesi sul tema ne sono la prova più evidente.
4. Il danno ambientale nel sistema del d. lgs. n. 152/2006 (c.d. Codice 
dell’ambiente)
Come si è già anticipato, la disciplina in tema di danno all’ambiente si 
rinviene adesso nel decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 («Norme 
in materia ambientale»)40 
che all’argomento dedica la Parte VI dell’articolato (articoli da 299 a 318) e, 
contestualmente, abroga la precedente disciplina dell’articolo 18 della legge n. 
349/86 (art. 318, comma 2 lett. a )41.
L’iter della riforma è stato a dir poco travagliato42: 
il c.d. Codice dell’ambiente è entrato in vigore in un diffuso clima di ostilità 
(da parte di Regioni, autonomie locali, dottrina specialistica) e con la 
dichiarata intenzione del nuovo Governo di centro-sinistra (nel frattempo, 
entrato in carica) di riformarlo.
Pur con queste cautele, si procede all’esame della disciplina afferente 
all’argomento oggetto del presente contributo. 
Nel suo complesso, la riforma appare, sotto molteplici aspetti, fedele 
all’impostazione del regime comunitario, sebbene presenti peculiarità che 
rendono alquanto difficoltosa l’interpretazione dell’articolato. 
Quanto alla definizione di danno ambientale, l’art. 300, comma 1, del decreto 
ripropone la formula già enucleata in sede di direttiva comunitaria, fatta salva 
la sostituzione dell’espressione “mutamento negativo misurabile” con la 
locuzione “deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di 
una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”: circa la 
portata di tale modifica, si sono registrate opinioni nel senso sia del puntuale 
recepimento della disciplina comunitaria, sia del carattere generico della 
formula definitoria43.
Altro problema interpretativo riguarda il carattere esaustivo o meno di tale 
disposizione. Una parte della dottrina, valorizzando l’interpretazione letterale 
della norma, ritiene che esulino da tale nozione (e, dunque, dalla normativa in 
esame) alcune categorie di danno che la dottrina e la giurisprudenza 
riconducevano alla disciplina dell’art. 18 l. 349/86, quali il danno ai beni 
paesaggistici ovvero il danno derivante direttamente da inquinamento atmosferico 
che pone a rischio la salute pubblica44; 
altri autori, viceversa, sulla scorta del combinato disposto tra l’art. 300, 
comma 1 (che riprende la nozione di danno di cui alla direttiva) e l’art. 311, 
comma 2 (che fa riferimento in generale al deterioramento, alterazione o 
distruzione totale o parziale dell’ambiente), tende a considerare le ipotesi di 
danno enumerate all’articolo 300 del codice come un lenco non esaustivo, bensì 
meramente esemplificativo45.
Sul piano della tecnica sanzionatoria, anche il codice dell’ambiente distingue 
tra misure di prevenzione (art. 304) e misure di ripristino (art. 305) del 
danno.
Per questa seconda eventualità, il legislatore si mostra chiaramente favorevole 
ai provvedimenti di reintegrazione del danno in forma specifica rispetto al 
rimedio del risarcimento per equivalente patrimoniale: il ricorso a quest’ultima 
soluzione è consentito soltanto a condizione che il ripristino non sia eseguito, 
in tutto o in parte, dal responsabile entro il termine ingiunto, o risulti 
impossibile in tutto o in parte, oppure sia eccessivamente oneroso ai sensi 
dell’articolo 2058 del codice civile46; 
in tal caso, la liquidazione del danno deve determinarsi in una somma pari al 
valore economico del pregiudizio, accertato o residuato (art. 313, comma 2). 
Per quanto attiene poi ai criteri di riparazione del danno ambientale, soccorre 
l’Allegato 3 al decreto delegato: esso riproduce fedelmente i contenuti 
dell’allegato II alla direttiva comunitaria e, dunque, si rinvia alla disamina 
svolta in precedenza a proposito di quest’ultimo documento (retro, paragrafo 
2.2.)47.
A differenza invece della direttiva comunitaria – che, come si è visto, risulta 
alquanto sfuggente sul tema della riparazione monetaria del danno all’ambiente – 
nel decreto legislativo n. 152/06 si rinvengono maggiori indicazioni in 
argomento, sebbene si adottino soluzioni che danno adito a non poche 
perplessità. 
La legge delega richiedeva che fossero individuati i criteri utili a risolvere 
il problema, particolarmente avvertito sotto il vigore dell’art. 18 della legge 
n. 349/86, della quantificazione del danno. La disciplina contenuta negli 
articoli 311 e segg. del decreto è stata definita “[…] particolarmente carente, 
in quanto ripropone sostanzialmente molti dei nodi rimasti irrisolti dalla 
disciplina vigente (rectius: precedente), indicando soltanto gli indici 
per la valutazione equitativa del danno”48.
Nello specifico, la normativa in questione riconosce al Ministro dell’ambiente e 
della tutela del territorio la legittimazione ad agire per il recupero del danno 
ambientale attraverso due procedure alternative: o adire la via giudiziaria, 
anche esercitando l’azione civile in sede penale; oppure procedere al recupero 
in via amministrativa attraverso la procedura (regolata dagli artt. 312 e 
seguenti del decreto de quo) che prevede l’emissione di un’ordinanza 
immediatamente esecutiva con la quale si ingiunge al responsabile del fatto il 
ripristino ambientale entro un termine fissato, a titolo di risarcimento in 
forma specifica oppure, in caso di inottemperanza ovvero qualora il ripristino 
risulti in tutto o in parte impossibile oppure eccessivamente oneroso, di una 
successiva ordinanza con la quale viene ingiunto il pagamento, entro il termine 
di sessanta giorni dalla notifica, di una somma pari al valore economico del 
danno accertato e residuato, a titolo di risarcimento per equivalente pecuniario49.
La valutazione economica del danno ambientale, così disciplinata, adempie ad una 
funzione ben diversa dalla quella prevista dall’allegato II alla direttiva, ove 
detta valutazione rappresenta unicamente il criterio suppletivo per definire le 
misure di riparazione complementare e compensativa, allorquando sia impossibile 
applicare il metodo generale dell’equivalenza “risorsa – risorsa” o “servizio – 
servizio” e si debbano utilizzare tecniche di valutazione alternative.
Nel caso in esame, invece, si trova affermato il principio della liquidazione 
monetaria del danno, alla stregua del valore economico del danno “accertato”, 
ove il ripristino resti in tutto od in parte non eseguito50.
La quantificazione del danno deve comprendere il pregiudizio arrecato alla 
situazione ambientale, con particolare riferimento al costo necessario per il 
suo ripristino (art. 314, comma 3): la norma appare formulata in termini ingenui 
in quanto ignora i problemi di liquidazione monetaria del pregiudizio ambientale 
e, quindi, i gravi rischi di disparità di trattamento nei confronti dei soggetti 
responsabili, in difetto di parametri convenzionali per la sua quantificazione.
L’articolo in commento aggiunge che “ove tuttavia il responsabile commetta un 
illecito amministrativo o penale, e non sia motivatamente possibile l’esatta 
quantificazione del danno per equivalente patrimoniale, il danno si presume, 
sino a prova contraria, di ammontare non inferiore al triplo della somma 
corrispondente alla sanzione pecuniaria amministrativa, oppure alla sanzione 
penale, in concreto applicata. Se sia stata applicata una pena detentiva, al 
fine della quantificazione del danno […], il ragguaglio tra la stessa e la somma 
da addebitare a titolo di risarcimento del danno ha luogo calcolando 
quattrocento euro per ciascun giorno di pena detentiva”. 
Viene quindi in rilievo una normativa verso la quale un’autorevole dottrina ha 
paventato il rischio che sia disincentivata l’adozione delle misure di 
ripristino, allorquando il loro costo risulti più elevato rispetto all’importo 
delle sanzioni amministrative o penali irrogabili nel caso concreto51.
Conseguentemente, è stato prospettato il pericolo di declaratorie di 
illegittimità per alcune disposizioni del decreto, ad opera della Corte 
Costituzionale52, 
oltre all’attivazione nei confronti del nostro Paese di una procedura di 
infrazione delle disposizioni comunitarie da parte della Commissione europea.
5. Il danno ambientale nella scienza economica
L’innegabile importanza dell’ambiente in relazione ai meccanismi della 
produzione ha indotto la scienza economica, almeno nei ultimi decenni, a 
sforzarsi di definirne il ruolo nell’ambito del mercato.
L’economia ambientale è appunto la disciplina che studia i problemi 
dell’ambiente dal punto di vista (e con le categorie) dell’analisi economica, 
allo scopo di individuare gli strumenti di politica ambientale più idonei ad 
attuare una distribuzione ottimale, tra usi alternativi, delle risorse naturali 
la cui destinazione non viene regolata attraverso i (tradizionali) meccanismi di 
mercato.
Il mercato, se funzionasse in modo perfetto, potrebbe essere rappresentato alla 
stregua di un sistema informativo nel quale i produttori ed i consumatori 
immettono indicazioni in ordine, rispettivamente, alle risorse e alle domande 
afferenti a determinati bisogni. Sulla base di questi inputs, il mercato 
fornirebbe i prezzi, ossia indici di scarsità con i quali determinare la 
ripartizione ottimale delle risorse scarse tra i diversi beni e servizi 
richiesti. 
Purtroppo, l’analisi economica ha dimostrato come questo mercato ideale non 
esista e l’impiego delle risorse disponibili sia sovente imperfetto. Ciò appare 
particolarmente evidente nel caso di molte risorse ambientali. 
È esperienza comune, ad esempio, che l’aria e l’acqua di buona qualità divengono 
risorse scarse nella misura in cui gli inquinatori – se non impediti da norme di 
legge – trovano utile scaricarvi sostanze nocive, senza tuttavia pagare un 
prezzo per l’utilizzo di tali risorse come ricettacolo di rifiuti: il costo 
connesso alla circostanza che l’acqua così inquinata non possa essere utilizzata 
a valle per altri usi (per es., irrigazione o balneazione) non viene dunque 
sopportato dall’inquinatore, bensì grava su altri soggetti (la collettività)53.
Il solo meccanismo di mercato non garantisce in questi casi una gestione 
efficiente delle risorse ambientali, poiché il mercato tende ad assegnare alla 
risorsa un prezzo comunque inferiore al suo valore sociale. Il valore di un 
danno ambientale è determinato dalla perdita, non compensata, di benessere da 
parte di una collettività: la misura del danno è, dunque, il parametro dei costi 
subiti e/o dei benefici perduti54.
Il suggerimento avanzato dalla teoria economica dell’ambiente, per ovviare alla 
situazione (di fallimento del mercato) descritta, consiste in interventi 
correttivi del settore pubblico mirati a introdurre meccanismi (economici e/o di 
controllo sociale e politico) che orientino diversamente lo sviluppo: siccome 
ogni azione umana ha un impatto sull’ambiente, si tratta allora di valutare se 
tali impatti (che comportano dei costi ambientali) siano giustificati alla luce 
dei benefici che si possono ottenere. 
Ogni regola di politica economica ambientale dovrà allora sforzarsi di calcolare 
un “giusto prezzo sociale” per l’uso ottimale delle varie risorse dell’ambiente: 
sennonché, il calcolo di questo prezzo richiede la considerazione di una serie 
di indicatori, alcuni delle quali difficili da precisare.
Secondo una classica ricostruzione della dottrina economica55, 
i benefici che la collettività può trarre dalle risorse ambientali derivano non 
soltanto dal valore d’uso delle risorse stesse, che attengono 
direttamente alla migliore utilizzazione della risorsa ambientale in un dato 
momento (ad esempio: i pesci di un fiume per il pescatore; i funghi per il 
raccoglitore), ma anche da valori di non-uso (come tali, intendendosi 
quelle utilità che il soggetto attribuisce alla natura di fronte ad un bel 
panorama o durante una passeggiata nella natura), nonché dai c.d. valori di 
opzione, che gli individui attribuiscono a determinati beni ambientali 
indipendentemente da una loro utilizzazione, diretta od indiretta e derivanti 
dalla consapevolezza di voler mantenere intatto un patrimonio per possibili 
future utilizzazioni (ad esempio, la possibilità di sviluppo turistico di una 
zona). 
Gli interventi pubblici per gestire in modo razionale le risorse naturali 
possono assumere diversi connotati, e precisamente mirare a:
a) modificare direttamente i modelli di consumo (ad esempio, l’organizzazione di 
sistemi efficienti di trasporto pubblico può portare ad una riduzione nell’uso 
dell’automobile)
b) implementare politiche economiche, fiscali, industriali e tariffarie mirate a 
favorire le tecnologie pulite, inducendo a ricercare nuovi processi produttivi o 
nuovi beni aventi un maggiore tasso di eco-compatibilità
c) introdurre imposte (ad es.: tasse; diritti di proprietà; permessi ad 
inquinare) su certi processi e sull’uso di taluni beni inquinanti, ovvero 
determinando un prezzo da pagare per l’uso di certi beni naturali (che in tal 
modo cessano di essere dei beni ad uso libero)
d) promuovere opportune attività al fine di disinquinare o, almeno, di ridurre 
fenomeni di inquinamento e/o lo spreco di risorse (tali attività potrebbero, 
almeno in parte, essere finanziate con gli introiti ricavati dalle imposte di 
cui alla lettera precedente) 
e) valorizzare le iniziative spontanee dei produttori e l’interesse degli stessi 
a conquistarsi peculiari quote di mercato: si pensi, per esempi in tal senso, a 
meccanismi come l’eco-audit, i marchi ecologici, i sistemi di gestione 
ambientale, i rapporti e bilanci ambientali, gli accordi volontari.
Resta inteso, tuttavia, che la realizzazione di efficaci politiche ambientali 
non può prescindere dal problema della misurazione dei costi ambientali e, 
dunque, dall’individuazione di parametri di riferimento per la valutazione 
monetaria56 di un 
bene sotto molteplici aspetti sui generis, qual è appunto l’ambiente. 
Per superare tali difficoltà, sarà esaminata di seguito la fattibilità del 
ricorso ad alcune teorie economiche: in tal senso, e senza alcuna pretesa di 
esaustività, si verificherà la misurabilità economica del danno all’ambiente 
mediante l’impiego di metodologie fondate, rispettivamente, su un approccio c.d. 
“di tipo paretiano” e su tecniche market oriented. 
5.1. L’approccio di tipo paretiano: in particolare, l’analisi 
costi-benefici
Le metodologie di valutazione dell’analisi costi-benefici (ACB) sono 
state sviluppate allo scopo di confrontare ex ante i costi ed i benefici 
sociali che è necessario prendere in considerazione al momento di assumere 
decisioni sulla realizzazione o meno di progetti pubblici. Attraverso l’ACB si 
mira a determinare quale utilizzo delle risorse (ambientali e non) permetta alla 
collettività di massimizzare il benessere netto: l’analisi rappresenta per 
l’operatore pubblico uno strumento utile a valutare la convenienza di un singolo 
progetto di spesa o di investimento o, più in generale, di tutta la spesa 
pubblica, anche con riferimento ai beni pubblici puri57.
L’ACB valuta la convenienza a realizzare un investimento sulla base del 
confronto tra i benefici ed i costi attualizzati derivanti dal progetto: 
detto altrimenti, è necessario anticipare all’attualità tutti i benefici e i 
costi che si presentano in momenti diversi nel tempo. Sorge quindi il problema 
dello sconto dei costi e dei benefici futuri, dato che questi non hanno il 
medesimo valore sociale dei costi e dei benefici presenti. 
Sul punto, l’analisi economica ricorre al concetto di “saggio sociale di 
preferenza temporale” che, appunto, esprime le condizioni alle quali gli 
individui sono disposti a privarsi della disponibilità del denaro e di rinviarla 
nel futuro. Queste condizioni, espresse in pratica da un saggio di interesse, se 
riferite all’intera società, esprimono la disponibilità a investire in opere 
pubbliche per avere benefici in tempi futuri58. 
In questo contesto, l’analisi costi-benefici consente di determinare un valore 
che esprime il rapporto tra tutti i benefici e tutti i costi di un’operazione, 
attualizzati in base ad un certo saggio di sconto. 
L’applicazione della metodologia in commento presuppone il ricorso delle 
seguenti condizioni:
 una visione di lungo termine 
 una visione di ampio respiro che tenga conto degli effetti collaterali di 
vario genere su molte persone e generazioni. 
Questi presupposti sono stati formulati dalla scuola di economisti59 
che giustifica l’intervento pubblico ogni qual volta il risultato economico 
ottenuto dal privato fosse inferiore a quello assicurato dallo Stato. Il 
concetto di inferiorità, in questa ricostruzione, deve essere valutato alla 
stregua del criterio di ottimo sociale: in particolare, un investimento 
pubblico che massimizza il rapporto benefici/costi, anche se favorisce i più 
ricchi, potrebbe essere preferito a condizione che non peggiori la situazione 
degli altri (anche se, evidentemente, incide sull’esistente distribuzione del 
reddito). 
Mutuando queste argomentazioni ai presupposti dell’ACB, appare evidente come in 
questa analisi occorra esaminare non solo i ricavi immediati, ma anche quelli 
più lontani (indiretti) di cui i privati normalmente non tengono conto; 
parimenti, nella valutazione dei costi si devono considerare tutti i costi, sia 
quelli interni sia quelli esterni (o di lungo periodo). 
L’analisi costi-benefici è quindi uno strumento di ausilio alle decisioni 
pubbliche. L’analisi economica ha mostrato tuttavia come questo strumento si 
esponga a importanti problematiche, dovute principalmente al fatto che, dal 
punto di vista sociale, le spese e i ricavi previsti da un progetto non ne 
rispecchiano gli effettivi costi e benefici. Infatti i prezzi reali che si 
utilizzano normalmente nelle analisi finanziarie rispecchiano il punto di vista 
di un singolo operatore, normalmente privato; occorre allora modificare i prezzi 
reali e trasformarli nei cosiddetti “prezzi ombra” che rappresentano i prezzi in 
grado di rappresentare al meglio il punto di vista della collettività (di 
solito, i prezzi sul mercato immobiliare). 
Più in generale l’ACB risente delle seguenti difficoltà: 
 in alcuni casi prevalgono costi o benefici intangibili, non qualificabili 
monetariamente, perché inerenti a beni privi di un mercato (il valore della 
salute umana, del paesaggio, ecc.) 
 la sottovalutazione di costi o benefici che si verificano a lungo termine 
 la scarsa capacità di partecipazione della collettività, in quanto per la 
persona comune è in genere molto difficile esprimere in termini monetari il 
grado di benessere che riceve da un bene ambientale, non disponendo al riguardo 
di validi e razionali parametri.
5.2 Tecniche di valutazione market oriented. La valutazione contingente
Molti beni ambientali, in quanto pubblici, non “passano” per il mercato e 
richiedono, pertanto, l’uso di metodi alternativi per monetizzare le loro 
utilità ovvero le loro variazioni quantitative e qualitative. 
Le tecniche c.d. market oriented si basano sulla individuazione/misurazione di 
dati di prezzo e quantità desunti dai mercati effettivi (per esempio: 
costi di ripristino, sostituzione o progetto ombra) o impliciti (i dati 
di prezzo e quantità vengono desunti da mercati effettivi di beni che possono 
essere considerati surrogati rispetto a quello ambientale da valutare). Tali 
tecniche si basano su interviste, condotte con metodo campionario, attraverso le 
quali è stimata la disponibilità a pagare degli individui e della società 
(quest’ultima, intesa come somma di individui) per particolari beni e servizi 
ambientali; in alternativa, e sempre per mezzo di interviste, si affidano alle 
valutazioni di tali beni e servizi fornite da esperti. 
Gli approcci orientati alla valutazione di mercato dei benefici/costi ambientali 
vengono classificati in metodi diretti e indiretti:
> i primi considerano i miglioramenti nella qualità dell’ambiente e cercano di 
misurarne il valore monetario o collegandolo all’acquisto e all’uso di beni di 
diversa natura, o simulando l’esistenza di mercati surrogati o, ancora 
attraverso tecniche sperimentali (ad esempio, chiedendo direttamente agli 
intervistati, attraverso sofisticati sondaggi, le loro valutazioni per la 
ricchezza ecologica in questione)
> i secondi si sforzano invece di misurare il valore delle risorse naturali 
attraverso una relazione di tipo «dose-reazione» tra costi ambientali e loro 
effetti (ad esempio, l’effetto dell’inquinamento sulla salute o sul 
deprezzamento degli edifici) e, solo a questo punto, si misura la preferenza per 
quell’effetto60. 
Entrambi i metodi, diretti e indiretti, si fondano sui concetti di 
disponibilità a pagare (DAP) e disponibilità a accettare una 
compensazione (DAC), quali tecniche mirate a inferire le preferenze del 
pubblico per godere di un determinato bene ambientale o per rinunciare a detto 
bene. 
Il metodo della disponibilità a pagare (DAP) quantifica in termini monetari i 
benefici derivanti da un determinato bene ambientale, sul presupposto che le 
preferenze degli agenti costituiscano il fondamento per la misurazione dei 
benefici e che una preferenza positiva manifesti, quindi, una disponibilità a 
pagare per quel dato bene. La DAP rappresenta costituisce comunque un indicatore 
monetario relativo al singolo individuo, ma non alla collettività: può accadere 
infatti che ci siano persone disposte a pagare per il beneficio che ricevono un 
prezzo maggiore rispetto a quello che viene indicato dal prezzo di mercato. Il 
vantaggio che costoro ottengono, pagando per una quantità di bene un prezzo 
inferiore a quello che sarebbero disponibili a pagare, è definito surplus del 
consumatore: in tal caso, la “vera” disponibilità a pagare è data dalla 
somma tra il prezzo di mercato e il surplus del consumatore61.
Il prezzo di mercato costituisce il metodo iniziale per misurare la 
disponibilità a pagare e, quindi la spesa totale per il bene rappresenta la 
prima approssimazione del beneficio ricevuto. Tuttavia, dal momento che ci 
saranno agenti disposti a pagare più del prezzo di mercato, e che, perciò, 
otterranno un surplus pari alla differenza tra il beneficio e la spesa, la 
disponibilità a pagare lorda supererà la spesa totale.
In tema di danno ambientale si può usare anche la disponibilità ad accettare 
compensazioni (DAC) che misurare l’attitudine dell’individuo a sopportare 
perdite derivanti dal deterioramento dell’ambiente ovvero a rinunciare a un 
beneficio analogo.
In linea teorica, DAP e DAC dovrebbero coincidere: in realtà, indagini condotte 
all’uopo hanno riscontrato differenze significative nelle valutazioni 
individuali dei guadagni e delle perdite, con le seconde maggiori delle prime: 
le spiegazioni addotte si basano soprattutto sulla psicologia (un danno a ciò 
che si ha già è sentito maggiormente di un miglioramento della propria 
situazione)62, su 
altre considerazioni circa i vincoli di bilancio, sulla modalità e la struttura 
delle interviste per ricavare questi dati.
5.2.1. I metodi indiretti
In economia ambientale sono stati formulati quattro diversi metodi: 1) la 
risposta alla dose; 2) il costo di sostituzione; 3) il comportamento riduttivo; 
4) il costo opportunità. 
Il primo metodo (la risposta alla dose) fa riferimento alla reazione 
fisiologica umana, vegetale o animale, al verificarsi di fenomeni di 
inquinamento: attraverso prezzi di mercato o valori “ombra” si giunge a 
quantificare il costo portato dal deterioramento ambientale (per esempio la 
perdita di raccolti causata dall’inquinamento atmosferico). La tecnica tenta di 
stimare l’impatto del fenomeno contaminante e utilizza il valore del danno 
evitato come misura del beneficio ottenuto; si rivela particolarmente utile in 
quei casi in cui i soggetti non riescono a percepire l’esistenza della lesione a 
causa della difficoltà nel suo riconoscimento o della lunghezza della scala 
temporale in cui essa si realizza o anche perché il suo verificarsi risulta 
legato ad elementi probabilistici63.
Il secondo approccio (costo di sostituzione) considera, invece, le spese 
per il ripristino o la sostituzione del bene degradato e le utilizza per 
misurare il beneficio di tali operazioni. Si dimostra valido soprattutto nei 
casi in cui vi siano dei vincoli sulla qualità dell’ambiente e per i cosiddetti 
progetti ombra, per i quali il costo di qualsiasi piano volto a restaurare un 
habitat corrisponde ad una valutazione minimale del danno causato64.
La tecnica del comportamento riduttivo valuta le spese destinate alla 
prevenzione del danno da inquinamento (per esempio, i depuratori dell’aria e 
dell’acqua per la casa) e le equipara al valore dato dagli individui ai beni 
deteriorabili.
Il metodo del costo opportunità, infine, stima i benefici totali connessi 
all’attività che provoca anche il degrado ambientale allo scopo di stabilire 
l’ammontare dei vantaggi collegabili alla conservazione (e rendere quindi lo 
sviluppo non conveniente).
5.2.2. I metodi diretti
Anche per quanto concerne i metodi diretti la scienza economica distingue 
diversi approcci, quali: 1) il costo di viaggio; 2) i prezzi edonici; 3) la 
vendita ripetuta; 4) la valutazione contingente..
Il primo metodo (costi di viaggio o di spostamento) prende in 
considerazione quei costi (per carburante, alimenti, pedaggi, tariffe 
d’ingresso, ecc.) che è necessario affrontare per visitare un certo luogo come 
misura del suo valore ricreativo. Tali spese sono ricavate da questionari, 
rivolti ai visitatori, che permettono di ottenere relazioni tra “prezzo” di una 
gita e il numero di visite effettuate nell’anno: posto che la DAP è influenzata, 
oltre che dall’interesse per il posto, anche dal livello di reddito delle 
famiglie, queste vengono classificate secondo caratteristiche simili per 
ottenere curve di domanda per gruppi omogenei. Sommando la spesa effettuata e il 
surplus dei consumatori, si ottiene il beneficio totale ricavabile dall’uso 
indiretto del luogo e, mediante il prodotto tra il numero annuo dei turisti e il 
costo medio da questi pagato per accedervi, il suo valore ricreativo totale. 
Anche per questa tecnica, l’esperienza empirica mostra alcune difficoltà di non 
facile soluzione, come quelle legate alla valutazione monetaria del tempo per la 
gita al singolo luogo, al beneficio ottenuto dai non paganti o all’eventuale 
mancanza di un luogo sostitutivo parimenti attraente.
L’approccio dei prezzi edonici mira a misurare il beneficio in termini di 
valore della proprietà, sul presupposto che a località con differenti 
caratteristiche ambientali si associno differenze nei valori delle proprietà. Il 
metodo in questione si risolve nella conduzione di indagini tese a separare, nei 
valori rilevati sui mercati immobiliari, la parte del prezzo di un immobile che 
è da attribuire alle sue qualità ambientali, oppure a stimare la somma che i 
cittadini sono a disposti a pagare per migliorare la qualità dell’ambiente in 
cui abitano. 
Poiché si ritiene che il costo delle abitazioni sia influenzato da vari fattori, 
quali il numero di vani, la prossimità ai luoghi di lavoro, i metri quadrati e 
la qualità ambientale della zona, si può ottenere, tramite una regressione 
multipla, una stima (in termini percentuali del prezzo degli immobili) dei 
cambiamenti di valore dovuti solamente a differenze nell’ultima variabile 
sopraindicata. 
Anche in questo approccio le difficoltà da superare sono notevoli e richiedono 
la conoscenza approfondita di tecniche statistiche e di fattori come le 
disposizioni fiscali, gli aspetti finanziari, le condizioni di offerta che 
influenzano il valore delle unità immobiliari e il trattamento della variabile 
reddito dei residenti65.
Derivata dai prezzi edonistici è la metodologia della vendita ripetuta: 
mediante l’utilizzazione delle informazioni ricavabili dalle vendite di 
abitazioni durante un periodo nel quale vi sia stato un sostanziale cambiamento 
in una variabile ambientale della zona, essa consente di ricollegare il valore 
dell’amenità della risorsa a quello della proprietà immobiliare (o, più 
precisamente, alla sua variazione). Questa tecnica richiede la compresenza di 
tre condizioni, quali: 
> l’abbondanza di immobili venduti 
più volte 
> il cambiamento ambientale deve differire tra le diverse proprietà 
> il ricercatore deve essere in grado di controllare altre variazioni che 
possono avere avuto luogo nelle vicinanze nell’intervallo di osservazione del 
campione66. 
Altro strumento comunemente utilizzato nella misurazione dei costi/benefici 
ambientali è la valutazione contingente (MVC). Essa ha lo scopo di 
monetizzare il valore di beni ambientali attraverso la creazione di mercati 
ipotetici, questi ultimi ricavati mediante interviste o altre tecniche 
sperimentali: l’elemento di novità di un simile metodo è costituito 
dall’inclusione nell’analisi del contesto istituzionale nel quale il 
bene/servizio è fornito o tutelato; la tecnica ha inoltre il vantaggio di 
valutare, diversamente dagli altri approcci, anche il valore di opzione e di 
esistenza. 
L’oggetto dell’indagine consiste nelle valutazioni soggettive dell’intervistato 
in ordine o alla sua massima disponibilità a pagare per un certo bene ambientale 
ovvero alla minima quota che lo stesso sarebbe disposto ad accettare a 
compensazione di un danno a suo carico. Detti valori sono ricavabili in diversi 
modi: si possono suggerire somme monetarie crescenti o decrescenti, a seconda 
delle risposte ricevute nella prima proposta; oppure indicare un’unica cifra; o 
ancora permettere all’intervistato di indicare la quota senza imporgli limiti.
Agli interpellati sono richieste solitamente informazioni riguardo le loro 
caratteristiche socio-economiche, le attitudini verso l’ambiente e i 
comportamenti da loro tenuti nel tempo libero, allo scopo di ricavare ulteriori 
elementi di valutazione: i soggetti interpellati sono spinti a dichiarare le 
loro preferenze personali riguardo a incrementi o decrementi della 
qualità/quantità di un certo bene ambientale, come se tali valutazioni 
rappresentassero dei costi effettivamente sostenuti.
L’oggetto dell’intervista deve essere adeguatamente illustrato, allo scopo di 
rendere il mercato ipotetico quanto più simile ad uno reale; a tal fine possono 
essere mostrate fotografie, presentati dati statistici e tecnici per aumentare 
la familiarità con l’argomento dell’indagine, nonché rivelati i costi 
complessivi per gli interventi progettati in sua difesa. Una volta raccolte le 
dichiarazioni di spesa, deve essere calcolata per esse una media, avendo cura di 
riconoscere le risposte sincere (da computare) rispetto a quelle strategiche o 
di protesta (da eliminare). Dal valore centrale ottenuto e calibrato secondo le 
caratteristiche del campione si arriva poi ad una stima del valore del bene 
ambientale. 
La letteratura economica ha evidenziato anche per il MVC alcune distorsioni, al 
precipuo scopo di elaborare tecniche per porvi rimedio. Oltre al fenomeno del 
free riding (o distorsione strategica: l’intervistato non risponde con 
sincerità, bensì cerca di influire sui risultati in modo a lui favorevole), 
altre distorsioni evidenziate sono quelle legate a:
 struttura dell’intervista, vale a dire il modo in cui è condotta l’indagine, 
nella triplice forma dell’errore iniziale, strumentale e informativo67
 natura ipotetica dell’intervista in conseguenza del fatto che, su un mercato 
non reale come quello prospettato con il MVC, vi è la consapevolezza 
dell’utente/consumatore che un errore di valutazione non si paga (ad esempio in 
termini di pentimento per aver speso troppo per un servizio), e ciò può 
modificare le risposte 
 errore operativo, dovuto all’eventuale mancanza di esperienza 
dell’intervistato su quel mercato68. 
In queste indagini è importante il fatto che gli intervistati determino prima di 
tutto il loro budget totale per quel tipo di spesa e se lo pongano come vincolo; 
infatti, succede spesso che essi dichiarino una certa cifra per un dato bene, ma 
poi a successive richieste circa risorse o ecosistemi comprendenti il primo 
rivelino somme di poco maggiori o addirittura identiche; per evitare simili 
problemi sarebbe opportuno applicare il MVC solo ad ampi gruppi di beni 
ambientali o chiedere prima la valutazione del “tutto” e successivamente quella 
della singola parte. 
Il MVC ha il vantaggio di essere semplice, costare poco e consente di valutare 
in termini monetari qualsiasi beneficio o danno ambientale: negli Stati Uniti, 
in sede giudiziale, è stato richiamato talvolta quale criterio per stabilire i 
risarcimenti a vantaggio degli enti territoriali rappresentativi degli interessi 
delle collettività lese da fenomeni inquinanti (come nel caso emblematico 
dell’inquinamento della Exxon Valdez), mentre è più frequente il suo uso negli 
studi riguardanti l’impatto ambientale di grandi progetti pubblici o privati.
6. Notazioni conclusive
La tematica della valutazione del danno ambientale è stata esaminata nei 
paragrafi precedenti sotto un duplice profilo: tecnico-giuridico, il primo; 
economico, il secondo.
Nel primo caso si è rappresentato l’excursus normativo che ha riguardato 
tale materia: dalla legge 349/86 alla direttiva 2004/35/CE e, infine, al codice 
dell’ambiente. La disamina ha mostrato una chiara evoluzione del tessuto 
normativo: all’inizio un sistema, come quello del 1986, in bilico tra due 
dimensioni del danno ambientale (insieme, risarcitorio e sanzionatorio) e nel 
quale le oggettive difficoltà ad assicurare il ripristino dei luoghi o il 
risarcimento per equivalente hanno “costretto” i giudici a percorrere la via 
residuale del risarcimento equitativo (ove, tuttavia, l’assenza di riferimenti a 
parametri certi, o per lo meno condivisibili, ha impedito di costruire una 
griglia di carattere generale che fornisse una valutazione oggettiva ai numerosi 
casi verificatisi nella realtà); a seguire, una disciplina (quella introdotta 
dalla direttiva 2004/35/CE e dal d. lgs. n. 152/06) orientata nella differente 
ottica della riparazione in forma specifica dei pregiudizi all’ecosistema e, 
pertanto, incentrata sul riconoscimento alla pubblica amministrazione di poteri 
inibitori o sospensivi o prescrittivi, sconosciuti alla disciplina precedente.
La disciplina oggi in vigore limita peraltro la responsabilità delle imprese ai 
costi che si rivelino funzionali a ripristinare le condizioni naturali 
originarie (ovvero a conseguire livelli equivalenti o compensare le perdite 
temporanee), secondo un criterio di efficienza economica degli interventi di 
miglioramento delle risorse ambientali: per ben funzionare, tale soluzione 
normativa presuppone tuttavia la effettiva implementazione di un idoneo 
sistema di garanzie finanziarie (come quello prospettato, in termini non 
propriamente cogenti, agli articoli 14 della direttiva e 318, comma 3, del 
d.lgs. 152/06), pena il rischio di pericolose distorsioni della concorrenza e/o 
di scadimento della tutela ambientale69.
Il nostro codice dell’ambiente, in misura più netta della direttiva, ha peraltro 
cura di precisare che nell’impossibilità motivata di accedere alla 
reintegrazione in forma specifica del pregiudizio ambientale si dà luogo al 
risarcimento monetario del danno: in proposito si nota tuttavia come, al di là 
del meccanismo presuntivo disciplinato all’art. 314 del codice ambientale, 
restino nella sostanza indefiniti i criteri per l’adeguata monetizzazione del 
danno alle risorse naturali.
Alle descritte difficoltà del sistema normativo, cerca di ovviare l’economia 
ambientale che ha elaborato una serie di metodi (esaminati nel paragrafo che 
precede) utili a misurare i costi/benefici ambientali connessi alle scelte del 
settore produttivo. 
Ad avviso di chi scrive, i due metodi (tecnico-giuridico ed economico 
ambientale) hanno sinora proceduto su binari paralleli e con ottiche distinte: 
in prospettiva futura, sarebbe invece auspicabile un approccio sinergico nel 
quale le problematiche giuridiche siano affrontate anche alla luce dei 
contributi provenienti da altre discipline, compresa l’economia ambientale. 
Così, per esempio, al fine di fornire le necessarie informazioni caratterizzanti 
il sito e la matrice ambientale coinvolta, indispensabili per una adeguata 
quantificazione del danno, potrebbe ricorrersi a supporti di carattere 
tecnico-scientifico ed economico, capaci di assumere i dati necessari alla 
valutazione dell’entità del danno ambientale accertato (tali informazioni 
confluirebbero quindi nelle perizie tecniche ad uso dei giudici)70.
Il danno ambientale e la sua valutazione restano, dunque, al centro di un 
dibattito non ancora risolto: e non potrebbe essere altrimenti, vista la 
rilevanza che l’interesse per l’ambiente riveste non solo per la comunità 
attuale, ma anche per le generazioni future. L’equilibrato mantenimento delle 
risorse naturali è la questione fondamentale rivolta alla nostra società: 
trovare soluzioni (normative, tecniche, economiche) a salvaguardia dell’ambiente 
sarà, dunque, la vera sfida di questi anni.
In un’ottica più ampia, le politiche ambientali di nuova generazione, lungi dal 
tradursi in mere forme reattive e di controllo rispetto alle attività 
economiche, dovranno mirare a stimolare la cooperazione tra imprese, enti locali 
e comunità su obiettivi comuni di sviluppo sostenibile. A tale proposito, 
l’assetto normativo dovrà essere avvertito dagli operatori non come mero sistema 
di vincoli, bensì quale opportunità per la stessa impresa che, per essere 
realmente competitiva, modellerà le proprie modalità operative (cui siano 
associati specifici rischi ambientali) in un’ottica di costante miglioramento 
delle proprie attività rispetto ai propri competitori.
La normativa ambientale costituisce del resto una delle variabili strategiche 
più rilevanti del sistema economico, rispetto alla quale l’imprenditore dovrà 
essere in grado di sviluppare adeguate scelte gestionali, organizzative e 
tecniche. Le imprese devono essere coscienti del fatto di non essere entità 
isolate dal contesto in cui operano, bensì di farne parte integrante e, dunque, 
di trarre beneficio da una loro partecipazione attiva al governo delle 
problematiche sociali ed ambientali. Investimenti in “tecnologie verdi” e prassi 
commerciali ecologicamente responsabili possono aiutare le imprese ad accrescere 
la propria competitività: in capo al settore pubblico è quindi la responsabilità 
di introdurre meccanismi (anche giuridici) funzionali ad obiettivi di sviluppo 
sostenibile. 
_________________
1 G. DE LEO, La 
variabile ambientale nella gestione d'impresa: evoluzione di strategia e 
politiche, in www.giuliodeleo.it.
2 Ai tradizionali strumenti di tutela ambientale, fondati sulla 
logica del “comando e controllo”, si affiancano più di recente taluni meccanismi 
incentrati sulla valorizzazione di iniziative spontanee dei produttori e 
sull’interesse degli stessi a conquistarsi peculiari quote di mercato: si pensi 
a strumenti quali l’Ecolabel, l’EMAS (Eco-Management and Audit Scheme), 
le norme ISO 9000 per l’implementazione dei sistemi di qualità 
ambientale, le ISO 14000 che definiscono gli standard dei Sistemi di Gestione 
Ambientale, i Rapporti e Bilanci ambientali e la Contabilità ecologica. In 
argomento, P. DELL’ANNO, Modelli organizzativi per la tutela dell’ambiente, 
in Rivista giur. ambiente, 2005, 957.
3 “[…] Il concetto di ambiente nel linguaggio normativo non è 
definito, né definibile, ne è riducibile in enunciati prescrittivi, atteso che 
l’ambiente non è da considerare una materia a sé stante, né un concetto 
giuridico ed economico o sociologico, ma solo una sintesi verbale, una forma di 
protezione da collegarsi in ciascuna occasione con altre materie che, fra 
l’altro, con il progredire della scienza e lo sviluppo delle applicazioni 
tecnologiche, diventano via, via sempre più numerose e rendono sempre più 
complessa ed asistematica la disciplina di regolazione”: così, L.M. DELFINO, 
Ambiente e strumenti di tutela: la responsabilità per danno ambientale, in 
Responsabilità e previdenza, 3/2002, 867.
4 Pubblicata in GUCE, serie L 143/56, del 30 aprile 2004.
5 La direttiva non disciplina il danno a cose e persone (c.d. 
danno tradizionale: si veda l’art. 3, comma 3): l’esclusione viene giustificata 
“[…] apparendo troppo ambizioso estendere la copertura del regime comunitario 
anche a tali danni e, soprattutto, per una certa riluttanza ad occuparsi di un 
tema già molto dibattuto a livello nazionale” (così, B. POZZO, La nuova 
direttiva 2004/35 del Parlamento europeo e del Consiglio sulla responsabilità 
ambientale e riparazione del danno, in Rivista giur. ambiente, 
1/2006, 3). 
Il legislatore comunitario, lungi dall’armonizzare le regole sulle azioni di 
risarcimento esperibili dai privati, rinvia ai singoli ordinamenti nazionali i 
problemi in tema di giurisdizione e conflitto di leggi: infatti, l’articolo 16 
della direttiva consente agli Stati membri “di mantenere o adottare disposizioni 
più severe in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale”. Il 
singolo Paese ha pertanto la facoltà di regolare iure proprio – e, 
quindi, con regimi diversificati – il tema del cumulo di azioni conseguenti al 
recupero dei costi collegati al danno ambientale, in riferimento a fattispecie 
nelle quali il proprietario del sito inquinato potrebbe agire insieme 
all’Autorità competente per il medesimo fatto (si pensi, ad es., a situazioni 
nelle quali la violazione della direttiva 2004/35 ambientale comporti sul 
medesimo sito anche la lesione del diritto di proprietà del privato ex 
art. 844 del nostro codice civile). In casi simili, le singole leggi nazionali 
potranno anche stabilire il divieto di richiesta di risarcimento in favore del 
proprietario, fatte salve le altre normative che stabiliscono il diritto di 
azione e la responsabilità (nel caso sopra rappresentato, ad es., gli art. 2043 
e segg. del codice civile). Anzi, a ben vedere, è proprio questa l’ipotesi 
ordinaria presa in considerazione dal legislatore comunitario. 
Per ulteriori ipotesi di esclusione della normativa de qua, si veda anche 
l’articolo 4 della direttiva (“Eccezioni”).
6 Giova segnalare che, in sede di discussione della proposta di 
direttiva in commento, era stato suggerito di sopprimere ogni riferimento alla 
misura di riparazione compensativa, paventandosi il rischio di uno snaturamento 
della disciplina medesima: si argomentava, in particolare, come “obiettivo della 
direttiva è la riparazione dei danni ambientali e quindi, in primo luogo, il 
ripristino della situazione esistente prima dell’evento nocivo. Spesso non è 
possibile ripristinare pienamente tale situazione. Il concetto di “riparazione 
compensativa” […] non mira invece al ripristino dell’ambiente, ma presenta le 
caratteristiche di un sistema sanzionatorio o di risarcimento dei danni che non 
ha più nulla a che vedere con l’obiettivo della direttiva. In particolare, ciò 
solleverebbe gravi problemi di valutazione monetaria, che ostacolerebbero 
notevolmente l’applicabilità pratica delle nuove disposizioni e metterebbero 
seriamente in dubbio la possibilità di una copertura assicurativa” (Parlamento 
Europeo, II Raccomandazione per la seconda lettura relativa alla posizione 
comune del Consiglio in vista dell'adozione della direttiva del Parlamento 
europeo e del Consiglio concernente la responsabilità ambientale in materia di 
prevenzione e riparazione del danno ambientale, 5 dicembre 2003, 24).
7 Nello stesso senso, anche i nostri giudici nazionali avevano 
affermato che “integra il danno ambientale risarcibile anche il danno derivante,
medio tempore, dalla mancata disponibilità di una risorsa ambientale 
intatta, ossia le c.d. “perdite provvisorie”, e considerate risarcibili dalla 
giurisprudenza di questa Corte Suprema sotto forma di “modifiche temporanee 
dello stato dei luoghi”. La risarcibilità delle perdite temporanee è 
giustificata dal fatto che qualsiasi intervento di ripristino ambientale, per 
quanto tempestivo, non può mai eliminare quello speciale profilo di danno 
conseguente alla perdita di fruibilità della risorsa naturale compromessa dalla 
condotta illecita, danno che si verifica nel momento in cui tale condotta viene 
tenuta e che perdura per tutto il tempo necessario a ricostituire lo status 
quo”: così, Cassazione 15 ottobre 1999, n. 13716; nello stesso senso, si 
veda anche la recente sentenza di Cassazione2 maggio 2007, n. 16575, in 
www.altalex.com/index.php?idstr=12&idnot=37095.
8 Secondo l’allegato II della direttiva, la scelta tra le 
diverse opzioni di riparazione dovrebbe valutarsi, usando le migliori tecnologie 
disponibili, qualora siano definite in base ai seguenti criteri: 
- l’effetto di ciascuna opzione sulla salute e la sicurezza pubblica; 
- il costo di attuazione dell’opzione; 
- la probabilità di successo di ciascuna opzione; 
- la misura in cui ciascuna opzione impedirà danni futuri ed eviterà danni 
collaterali a seguito dell’attuazione dell’opzione stessa; 
- la misura in cui ciascuna opzione giova a ogni componente della risorsa 
naturale e/o del servizio; 
- la misura in cui ciascuna opzione tiene conto dei pertinenti aspetti sociali, 
economici e culturali e di altri fattori specifici della località;
- il tempo necessario per l’efficace riparazione del danno ambientale; 
- la misura in cui ciascuna opzione realizza la riparazione del sito colpito dal 
danno ambientale; 
- il collegamento geografico al sito danneggiato.
9 Per le nozioni di “risorsa” e “servizio”, si vedano i nn. 12 e 
13 dell’art. 2 della direttiva (“Definizioni”).
In argomento, utili indicazioni sono reperibili in G. MAGRO, La metodologia 
di calcolo del danno ambientale secondo la procedura dell’analisi di habitat 
equivalente, in www.simoline.com/clienti/dirittoambiente/file/vari_articoli_50.pdf 
. 
10 “Nebulosa […] appare ancora la disciplina della 
monetizzazione del danno all’ambiente, ove l’apparato normativo non fornisce 
alcuna indicazione precisa”: così, POZZO, cit., 16.
In termini non dissimili, altra autorevole dottrina ha osservato che “[…] il 
primo passo compiuto dall’Unione, con la citata direttiva, appare radicato 
su puntuali regole giuridiche e tecniche, che definiscono la soglia 
giuridicamente rilevante del danno in riferimento a determinate risorse 
naturali e ai loro usi, nonché i parametri di misurabilità dello stesso,
privilegiando il ripristino delle risorse e degli usi, secondo un 
ventaglio di opzioni, che, comunque, esclude la liquidazione monetaria 
assai problematica del pregiudizio ambientale”: F. GIAMPIETRO, La 
responsabilità per danno all’ambiente in Italia: sintesi di legge e di 
giurisprudenza messe a confronto con la direttiva 2004/35/CE e con il T.U. 
ambientale, in Rivista giur. ambiente, 1/2006, 32.
11 Le argomentazioni riportate nel testo sono tratte da U. 
SALANITRO, La direttiva comunitaria sulla responsabilità per danno ambientale, 
in www.lex.unict.it/didattica/materiali06/privecon_enna/materiale/dannoambientalecomdef.pdf 
. 
12 B. POZZO, La proposta di nuova direttiva sulla 
prevenzione e il risarcimento del danno all’ambiente, in Danno e 
responsabilità, 2002. 
13 Sull’argomento, si vedano A.D. CANDIAN, Responsabilità 
civile per danno ambientale e assicurazione, in A.A.V.V., La parabola del 
danno ambientale, Milano, 1994; B. POZZO, L’assicurazione del danno 
ambientale, in Danno ambientale e imputazione delle responsabilità. 
Esperienze giuridiche a confronto, Milano, 1996; S. MAGLIENTI, Profili 
assicurativi della risarcibilità del danno ambientale, in 
www.tuttoambiente.it/comm/danno.html; D. DE STROBEL, Direttiva 2004/35/CE e 
la relativa problematica assicurativa, in Diritto ed economia 
dell’assicurazione, Milano, 2004; A. DI MARTINO, Gli strumenti a 
copertura dei rischi ambientali, in 
www.ambientediritto.it/dottrina/Politiche%20energetiche%20ambientali; 
FREY-IRALDO-BATTAGLIA, Gli effetti sulla gestione ambientale della Direttiva 
CE sul danno ambientale e i possibili riflessi sul piano assicurativo, in 
www.insat.sssup,it/documenti/danno_gestione_ambientale.pdf .
14 Secondo la dottrina prevalente, tali normative sarebbero in 
rapporto di specialità rispetto alla (generale) previsione di danno ex 18 l. n. 
349/86: si vedano, al riguardo, le opinioni di G. LAGEARD, Il danno 
ambientale e la disciplina delle bonifiche, cit., 503; S. D’ANGIULLI, 
Art. 58 del D. Lgs. n. 152/1999: la “terza via” del danno ambientale, in 
Ambiente, n. 12/1999, 1139 e segg.; M. SANTOLOCI, La bonifica dei siti 
inquinati: la differenza tra il D. Lgs. 22/97 e il D. Lgs. 152/99, in 
Ambiente e Sicurezza, n. 6/2000; P. DELL’ANNO, Il danno ambientale ed i 
criteri di imputazione della responsabilità, in Rivista giur. ambiente, 
2000; M. BALLETTA- B. PILLON, Il danno ambientale, Napoli, 2002.
L’articolo 18 della legge n. 349/86 ha costituito pertanto il prototipo della 
norma risarcitoria del danno all’ambiente.
15 In argomento, M. BETTIOL, Danno ambientale: l’art. 18 
legge 349/1986 è (davvero) già scomparso dal nostro ordinamento? Riflessioni 
sulle abrogazioni disposte dall’art. 318, co. 2, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, 
in www.simoline.com/clienti/dirittoambiente/file/territorio_articoli_120.pdf .
16 Sulla disciplina generale del danno ambientale si è formata 
una vasta letteratura: a titolo meramente esemplificativo, si vedano AA.VV., 
Danno ambientale e tutela giuridica, a cura di E. CESARO, Padova, 1987; P. 
TRIMARCHI, La responsabilità civile per danni all’ambiente: prime riflessioni, 
in Amministrare, 1987, p. 189 ss.; M. LIBERTINI, Le nuove frontiere 
del danno risarcibile, in Contratto e impresa, 1987; F. GIAMPIETRO,
La responsabilità per danno all’ambiente, Milano, 1988; M. FRANZONI, 
Il danno all’ambiente, in Contratto e impresa, 1992; B. POZZO, Il 
danno ambientale, Milano, 1998; C. VIVANI, Il danno ambientale, 
Padova, 2000; S. PATTI, “Danno ambientale (valutazione del)”, in Dig. 
it., disc. priv., sez. civ., agg. I, Torino, 2000; A. LAMANUZZI, Il danno 
ambientale, Napoli, 2002; B. POZZO, “Responsabilità per danni 
all’ambiente”, in Dig. it., disc. priv., sez. civ., agg. II, Torino, 
2003; R. PANETTA, Il danno ambientale, Torino, 2003.
17 Già in epoca anteriore alla L. 349/86, il dibattito 
dottrinario si era interessato alla nozione di ambiente: M.S. GIANNINI, 
Ambiente: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Rivista trim. 
dir. pubbl., 1973; A. ANASTASI, Premesse ad uno studio per la 
qualificazione dell'ambiente naturale come bene giuridico, in Scritti in 
onore di Salvatore Pugliatti, Milano, 1978; A. POSTIGLIONE, Ambiente: suo 
significato giuridico unitario, in Rivista trim. dir. pubbl., 1985.
Il concetto di ambiente ha trovato da ultimo accoglimento – pur senza essere 
definito – nella nostra Carta costituzionale, in esito alla riforma del Titolo 
V, Parte II della Costituzione (legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3): 
il novellato articolo 117 assegna alla competenza legislativa esclusiva dello 
Stato, tra le altre, la disciplina della “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema 
e dei beni culturali” (comma 2, lett. s)).
Secondo la Consulta, tuttavia, la “[…] la tutela dell’ambiente ex art. 117, 
secondo comma, lettera s), della Costituzione, anziché una materia in 
senso stretto, configura un compito nell’esercizio del quale lo Stato conserva 
il potere di dettare standard di protezione uniformi, validi in tutte le 
Regioni e non derogabili da queste ultime; ma ciò non esclude affatto la 
possibilità che leggi regionali, emanate dalle regioni nell’esercizio della 
potestà concorrente di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione o di 
quella “residuale” di cui all'art. 117, quarto comma, possano assumere fra i 
propri scopi anche finalità di tutela ambientale” (cfr., ad esempio, Corte 
cost., sent. n. 307/2003; in dottrina, nello stesso senso, A. FERRARA, La 
“materia ambiente” nel testo di riforma del Titolo V, in Osservatorio sul 
Federalismo. I processi di federalismo: aspetti e problemi giuridici, 
Milano, 2001).
18 Cfr., ad esempio, POZZO, Il danno ambientale, cit.; 
S. MAGLIA – M. TANIA, Nuovi orientamenti in materia di responsabilità per 
danno ambientale, in Rivista Ambiente e Lavoro, n. 10/2004. 
19 La giurisprudenza ha ulteriormente precisato che “[..] per 
la valutazione dei danno ambientale, dunque, non può farsi ricorso ai parametri 
utilizzati per i beni patrimoniali in senso stretto, ma deve tenersi conto della 
natura di bene immateriale dell’ambiente, nonché della particolare rilevanza dei 
valore d’uso della collettività che usufruisce e gode di tale bene. Da ciò 
discende il superamento della funzione compensativa del risarcimento” 
(Cassazione 9 settembre 1992, n. 4362) e che “[…] il danno ambientale presenta 
una triplice dimensione: personale (quale lesione del diritto fondamentale 
dell’ambiente di ogni uomo); sociale (quale lesione del diritto fondamentale 
dell’ambiente nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la personalità umana: 
art. 2 Cost.); pubblica (quale lesione del diritto-dovere pubblico delle 
istituzioni centrali e periferiche con specifiche competenze ambientali). In 
questo contesto persone, gruppi, associazioni ed anche gli enti territoriali non 
fanno valere un generico interesse diffuso, ma dei diritti, ed agiscono in forza 
di una autonoma legittimazione” (così, tra le altre, Cassazione 19 gennaio 1994, 
n. 439; EAD. 19 giugno 1996, n. 5650; EAD. 2 maggio 2007, n. 16575).
20 “Il confronto tra le regole della responsabilità 
extracontrattuale risultanti dal codice civile (artt. 2043-2059) e la normativa 
relativa all’ipotesi speciale di responsabilità per danno ambientale ex art. 18, 
può, forse, far pensare che - in caso di lesione del bene ambiente - il ricorso 
da parte del giudice (civile) alle due modalità di risarcimento (per equivalente 
e in forma specifica) si presenti approssimativamente capovolto. Mentre per la 
responsabilità extra-contrattuale ex art. 2043 c.c., com’è noto, la regola 
generale è quella del risarcimento per equivalente, l’azione di responsabilità 
ex art. 18 comporta in primis la reintegrazione a spese del responsabile della 
situazione materiale alterata con il solo limite di ammissibilità relativo alla 
circostanza che […] questo non sia più ricostituibile e/o riproducibile nella 
sua capacità funzionale o comunque, più in generale, quando, una volta alterato 
l’equilibrio ecologico, non sia assolutamente più ipotizzabile riprodurre una 
situazione simile a quella già esistente, data la presenza di danni irreparabili 
ed irreversibili”: così, testualmente, G. CECCHERINI, Danno e riduzione in 
pristino nella legislazione ambientale, in Il danno ambientale con 
riferimento alla responsabilità civile, a cura di P. PERLINGIERI, Napoli, 
1991, 277 e segg.
Analogamente, i giudici hanno osservato come “la condanna al ripristino dei 
luoghi a spese del responsabile […] assume posizione dominante tra le forme 
risarcitorie, in virtù di deroga al disposto di cui al secondo comma dell’art. 
2058 c.c.; e costituisce pertanto […] la misura privilegiata da adottare, sempre 
che sia possibile, a preferenza della condanna al risarcimento pecuniario, in 
quanto essa sola idonea a sopprimere la fonte della sequela di danni futuri, a 
volte di difficile previsione e di ancor più opinabile quantificazione in 
termini monetari attuali” (Cassazione, sez. un., 25 gennaio 1989, n. 440, in 
Rivista giur. ambiente, 1989, 103).
21 L’obbligo di ripristino non potrà disporsi, quindi, in 
ipotesi di danno ambientale c.d. irreversibile.
22 La ratio della differenza tra i due regimi è 
rinvenuta nella circostanza secondo cui “[…] se si ragionasse in termini di 
eccessiva onerosità per l’autore del danneggiamento, l’istituto del ripristino 
dei luoghi sarebbe diventato soltanto – per usare un’espressione del Pascoli –
ronzio di un’ape dentro il bugno vuoto -, considerato che l’attentato 
all’ambiente – la cui apprezzabilità in termini di valore è sempre 
indiscutibilmente rilevantissima – necessita, sempre e comunque, di costi di 
enorme impegno”: così, DELFINO, cit., 875.
23 “Il sistema che ne deriva prevede come possibile un 
risarcimento in forma specifica, ovvero il ripristino dello stato dei luoghi, 
che non esaurisce l’ammontare del danno, tant’è vero che questo può essere 
risarcito per equivalente considerando in via equitativa più parametri, non 
soltanto il costo monetario del ripristino, ma anche il profitto conseguito dal 
contravventore e la gravità della colpa. In altri termini, la tutela 
risarcitoria è più ampia e non alternativa alla tutela riparatoria (ripristino), 
poiché quest’ultima non è non può essere pienamente satisfattiva del danno 
arrecato ai soggetti portatori del diritto fondamentale all’integrità 
dell’ambiente” (Cassazione 12 marzo 2004, n. 11870).
24 Sulla questione è da segnalare l’intervento della Corte 
Costituzionale che, dopo aver qualificato il danno ambientale come “certamente 
patrimoniale, sebbene svincolato da concezioni aritmetico – contabili, quale 
mera differenza tra il saldo attivo del patrimonio del danneggiato prima e dopo 
l’evento lesivo”, ha poi aggiunto che “[…] consentono di misurare l’ambiente in 
termini economici una serie di funzioni con i relativi costi, tra cui quella di 
polizia che regolarizza l’attività dei soggetti e crea una sorveglianza; 
sull’osservanza dei vincoli; la gestione del bene in senso economico con fine di 
rendere massimo il godimento e la fruibilità della collettività e dei singoli e 
di sviluppare le risorse ambientali. Si possono confrontare i benefici con le 
alterazioni; si può effettuare la stima e la pianificazione degli interventi di 
preservazione, di miglioramento e di recupero, si possono valutare i costi del 
danneggiamento. Il tutto consente di dare all’ambiente e quindi al danno 
ambientale un valore economico” (così, Corte Cost. 30 dicembre 1987, n. 641).
25 Si tratta invero di criteri ben differenti da quelli 
normalmente utilizzati nel diritto civile comune dove, nei casi di violazione 
del precetto del neminem laedere di cui all’articolo 2043, il quantum 
respondeatur è commisurato all’oggettiva entità del danno e, non, alla colpa 
e al profitto conseguito dal danneggiante: cfr. G. BIGLIAZZI GERI, L’art. 18 
della Legge n. 349 del 1986 in relazione agli artt. 2043 segg. c.c., in 
Rivista trim. appalti, 1987; F. GIAMPIETRO, Il danno ambientale tra 
l’articolo 18 legge 349/1986 e il regime ordinario del codice civile (nota a 
Cassazione 1° settembre 1995, n. 9211), in Giust. civ., 3/1996.
26 Secondo POZZO, Il danno ambientale, cit., 11, si 
tratta del “[…] parametro più interessante ed innovativo previsto dalla 
normativa in esame in quanto introdotto nel testo legislativo in modo 
probabilmente casuale, vuoi per l’influenza di modelli penalistici, vuoi per il 
ricordo, di cui il testo finale conserva le tracce, della primitiva formulazione 
dell'art. 18, assai appiattita nelle massime tratte dalla giurisprudenza della 
Corte dei Conti”. 
27 Così S. PATTI, Il danno ambientale: il problema della 
quantificazione, in La parabola del danno ambientale, Milano, 1994.
28 A. DE CUPIS, La riparazione del danno all’ambiente, 
risarcimento o pena?, in Riv. dir. civ., 1988, II, 401.
29 Cassazione 1° settembre 1995, n. 9211, in Corriere giur. 
1995, 1146. In un’altra pronuncia il Supremo Collegio ha affermato che “[…] per 
integrare il fatto illecito, che obbliga al risarcimento del danno, non è 
necessario che l’ambiente in tutto o in parte venga alterato, deteriorato o 
distrutto, ma è sufficiente una condotta sia pure soltanto colposa “in 
violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a 
legge”, che l’art. 18 specificamente riconosce idonea a compromettere l’ambiente 
quale fatto ingiusto implicante una lesione presunta del valore giuridico 
tutelato. Ciò trova conferma nella circostanza che, qualora non fosse possibile 
una precisa quantificazione di un danno siffatto, il giudice per espressa 
previsione dello stesso art. 18 della legge n. 349/1986 procede in via 
equitativa, tenendo presenti parametri che prescindono da termini di ristoro 
soggettivo quali la gravità della colpa individuale, il costo necessario per il 
ripristino, il profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo 
comportamento lesivo del bene ambientale”: in tal senso, Cassazione 10 giugno 
2002, n. 22539.
30 PATTI, op. cit., 10.
Dato atto di ciò, rimane, tuttavia, che la scelta crea un qualche problema. 
Premesso che il giudice potrà valutare la colpa solo quando non sia possibile né 
il ripristino dello stato dei luoghi né l’esatta quantificazione per equivalente 
del danno, la dottrina ha suggerito che il giudice tenga conto della gravità 
della colpa individuale, con il limite che, in ogni caso, il risarcimento non 
dovrà superare il danno ambientale ipotizzabile (anche se non esattamente 
quantificabile) nel caso concreto: “[…] per evitare soluzioni contraddittorie 
che condurrebbero ad una disparità di trattamento, quindi, non rimane che 
concludere che il giudice potrà tenere conto della colpa individuale, ma in ogni 
caso il risarcimento non dovrà superare quell’ammontare che, in base agli 
elementi di cui è in possesso, rappresenta il tetto massimo del danno 
effettivamente cagionato. Altrimenti si arriverebbe ad un risultato 
difficilmente giustificabile già in base all’art. 18, ma soprattutto 
inaccettabile alla luce di quei principi generali dell’ordinamento italiano a 
cui prima ho fatto riferimento. In definitiva la gravità della colpa può 
consentire di «graduare» l’ammontare del risarcimento, che comunque non deve 
superare il danno ambientale ipotizzabile (anche se non esattamente 
quantificabile) nel caso concreto” [così, testualmente, PATTI].
31 A. LUMINOSO, Sulla natura della responsabilità per danno 
ambientale, in Contratto e impresa, 1989.
32 S. PATTI, La valutazione del danno ambientale, in 
Riv. dir. civ.,1992, II, 463; C. PAONE, La valutazione del danno 
ambientale (il risarcimento del danno ambientale e l’art. 18 della legge 8 
luglio 1986, n. 349), in www.diritto.it/materiali/ambiente/paone.pdf.
33 Come osserva infatti PAONE, cit., pagg. 8-9, “si è 
considerato come il costo del risarcimento per l’imprenditore in base alle 
regole tradizionali potrebbe essere più basso del danno effettivamente provocato 
e come attraverso quest’ultimo parametro il giudice goda di uno strumento 
duttile per trasformare il risarcimento in un incentivo adeguato per 
l’imprenditore ad evitare di causare danni analoghi per il futuro. Infatti, è 
ovvio che la lesione non sia scoraggiata se il guadagno potenziale del 
danneggiante supera il risarcimento atteso. In nessun caso, quindi, il giudice 
potrà esimersi dal valutare l’arricchimento ingiusto ottenuto dal danneggiante 
attraverso la lesione e dovrà necessariamente condannarlo ad un risarcimento 
superiore a tale arricchimento”. 
34 Così, testualmente, PAONE, cit., 9.
35 Pretura di Milano, sezione distaccata di Rho, 29 giugno 
1989, in Foro it., 1990, II, 526, con nota di G. DE MARZO. 
Tale sentenza costituisce “la prima applicazione da parte di un giudice dei 
criteri stabiliti dall’art. 18. Sino ad allora, le decisioni intervenute in 
materia di danno ambientale successivamente alla legge del 1986 – poche e tutte 
pronunciate in sede penale – erano state, nella sostanza, delle condanne 
generiche degli autori del fatto lesivo; in tal modo veniva trasferito alla sede 
civile il problema della quantificazione del danno” (PAONE, La valutazione 
del danno ambientale, cit.).
36 La dottrina ha rilevato criticamente come “il Pretore di Rho 
sembra aver frainteso la gravità della colpa con la gravità del fatto di reato o 
delle conseguenze dannose prodotte. Infatti, la valutazione del giudice si 
concentra sulla portata del pregiudizio conseguente alla condotta illecita - 
sotto il profilo della lesione del primario diritto alla salute - piuttosto che 
sull’intensità della colpevolezza” (così, PAONE, cit., 10).
37 Nel motivare su questo punto, il Pretore di Rho ha assunto 
pertanto a fondamento della propria valutazione l’esistenza di un progetto di 
bonifica risalente ad oltre sette mesi prima dell’accertato scarico dei rifiuti 
nel torrente Lura: viceversa, “il ripristino, il cui costo deve essere 
considerato ai fini della quantificazione del danno, è quello che si rende 
necessario a seguito del fatto lesivo. Il progetto, dunque, sarebbe dovuto 
essere successivo al verificarsi del danno; ciò al fine di considerare la 
situazione ambientale così come risultava essere a seguito dello scarico 
illecito e su quella base calcolare il costo necessario per il ripristino” (PAONE, 
cit., 10).
38 Tribunale di Venezia – Ufficio del giudice monocratico, sez. 
penale – 27 novembre 2002, n. 1286, in Rivista giur. ambiente, 2003, 164, 
con nota di G. SCHIESARO.
39 Non aiutano, in proposito, nemmeno le indicazioni 
provenienti dalla giurisprudenza di legittimità in ordine alla commisurazione 
del risarcimento al valore d’uso dell’ambiente (“in quanto il bene ambiente è 
fuori commercio, e, come tale, insuscettibile di una valutazione venale secondo 
i prezzi di mercato, dovendo essere considerato nel suo valore d’uso”: 
Cassazione 1° settembre 1995, n. 9211). 
Secondo una ricostruzione ormai classica nella dottrina economica (cfr., ad es., 
M. BRESSO, Per un’economia ecologica, Roma, 2004), i benefici che i 
cittadini possono trarre dalle risorse ambientali derivano non soltanto dal 
valore d’uso delle risorse stesse, che attengono direttamente 
all’utilizzazione della risorsa ambientale (come i pesci di un fiume per il 
pescatore, o i funghi per il raccoglitore), ma anche da valori di non-uso 
(intendendosi, come tali, quelle utilità che il soggetto attribuisce alla natura 
di fronte ad un bel panorama o durante una passeggiata nella natura), nonché dai 
c.d. valori di opzione, che gli individui attribuiscono a determinati 
beni ambientali indipendentemente da una loro utilizzazione, diretta od 
indiretta, e che derivano dalla consapevolezza di voler mantenere intatto un 
patrimonio per possibili future utilizzazioni. 
40 Pubblicato in Gazzetta Ufficiale 14 aprile 2006, n. 
88, Supplemento Ordinario n. 96, tale decreto è stato emanato in attuazione 
della delega contenuta nella legge 15 dicembre 2004, n. 308 “Delega al Governo 
per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia 
ambientale” che autorizzava l’Esecutivo ad adottare uno o più testi unici per 
settori e materie differenti: tra le materie delegate figurava anche la nuova 
disciplina in punto di tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente (art. 1, 
comma 1, lett. e)). Sul punto, cfr. L. RAMACCI, in Guida al diritto, 
2005, 4, 47 e segg.; F. GIAMPIETRO, Testi Unici ambientali: i criteri 
direttivi specifici della legge-delega n. 308/2004, in 
www.giuristiambientali.it; S. LEONI, Danno ambientale e legge delega, in 
www.dirittoambiente.net.
41 Per i problemi di disciplina transitoria, si rinvia alla 
nota 11 del presente lavoro. 
Giova segnalare, inoltre, che la riforma attuata con il codice dell’ambiente è 
stata preceduta da alcune norme contenute nella legge finanziaria per l’anno 
2006 (art. 1, commi 439-443, della legge 23 dicembre 2005, n. 266): in 
argomento, si vedano F. ANILE, Sanzioni amministrative e danno ambientale nel 
disegno di legge della “Finanziaria 2006”, in 
http://www.ambientediritto.it/dottrina/Dottrina_2005/sanzioni_amm_finanziaria2006_anile.htm; 
F. GIAMPIETRO, La “minidisciplina” del danno ambientale nella legge 
finanziaria n. 266/2005, in www.giuristiambientali.it. Anche tale disciplina 
risulta abrogata ex articolo 318 d. lgs. n. 152/06.
42 Sul punto, sia consentito rinviare a A. DI MARTINO, Il 
«nuovo» danno ambientale. Note minime, in 
http://www.ambientediritto.it/dottrina/Dottrina_2006/nuovo_danno_ambientale_dimartino.htm; 
M. ALBERTON, Dalla definizione di danno ambientale alla costruzione di un 
sistema di responsabilità: riflessioni sui recenti sviluppi del diritto europeo, 
in Rivista giur. ambiente, 5/2006, 624-625. 
43 Nel primo senso, v. Cassazione 2 maggio 2007, n. 16575 (in 
www.altalex.com/index.php?idstr=12&idnot=37095); nella seconda direzione, 
ALBERTON, cit., 626.
44 Così SALANITRO, La direttiva comunitaria, cit., 21: 
l’A. osserva altresì che la definizione legislativa non ricomprende “[…] altre 
categorie che appaiono in astratto di rilievo ambientale quali, ad esempio, il 
danno all’assetto idrogeologico o il danno al terreno, ogni qualvolta la 
contaminazione del suolo e del sottosuolo non consenta determinate attività 
economiche (ad es., usi agricoli)”.
45 In tal senso, R. BIZ, Osservazioni allo schema di decreto 
legislativo recante “Norme in materia di tutela risarcitoria contro i danni 
all’ambiente, in www.wwf.it/ambiente/dossier/leggeDelegaDecreti.pdf; F. 
GIAMPIETRO, La nozione di ambiente e di illecito ambientale: la 
quantificazione del danno, in Commento al Testo Unico ambientale, 
Torino, 2006; E. ORLANDO, Prospettive e problematiche nella trasposizione 
della direttiva 2004/35/CE sulla prevenzione e riparazione del danno 
all’ambiente, in Rivista giur. ambiente, 3-4/2007, 686.
46 Sul punto è evidente la netta differenza tra l’articolo 18 
l. n. 349/86 e il codice dell’ambiente: mentre l’art. 18 svincolava, come si è 
visto in precedenza, il ripristino dello stato originario dei luoghi da 
qualsiasi valutazione del giudice in ordine ai costi gravanti sul danneggiante 
per rimuovere gli effetti dannosi del suo comportamento illecito, viceversa, il 
decreto legislativo n. 152/06 riconduce la misura del ripristino nell’alveo 
della disciplina (generale) del codice civile in tema di reintegrazione in forma 
specifica, richiedendo al giudice di verificare se la misure di ripristino non 
risulti eccessivamente onerosa per l’autore del danno.
47 G. MAGRO, La metodologia di calcolo del danno ambientale 
secondo la procedura dell’analisi di habitat equivalente, cit. alla nota 9 
del testo; A. POSTIGLIONE, Prevenzione e riparazione del danno ambientale: 
problemi applicativi, in Diritto giuris. agraria alim. e ambiente, 
1/2007. 
48 Si è espressa in tali termini, testualmente, ALBERTON, cit., 
626.
49 Il Ministro dell’ambiente che adotti l’ordinanza di cui 
all’art. 313 non può proporre, né procedere ulteriormente nel giudizio per il 
risarcimento del danno ambientale, salva la possibilità dell'intervento in 
qualità di persona offesa dal reato nel giudizio penale (art. 315).
50 Tale previsione normativa è stata ritenuta sindacabile, 
poiché “[…] la quantificazione del danno non può che rimanere di pertinenza 
della magistratura. Può la Pubblica Amministrazione auto quantizzare un danno 
che può essere causato da se stessa? Nel caso in cui il danno all’ambiente sia 
stato causato dall’operato di un altro ministero o da enti pubblici territoriali 
non si può distogliere la quantizzazione del danno dalla competenza di un 
giudice terzo ed imparziale che abbia nelle proprie naturali competenze la 
liquidazione del danno” (A.A.V.V., Il Testo Unico Ambiente. Commento al 
D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, Napoli, 2006, 279).
51 Così, GIAMPIETRO, La responsabilità per danno 
all’ambiente, cit., 33: per l’A. viene in considerazione un “[…] danno, 
comunque, di natura punitiva, perché, per un verso, di applicazione tanto 
estesa quanto sono frequenti nella legislazione ambientale, la previsione degli 
illeciti sopra indicati; per latro verso, qualificabile in re ipsa, perché non è 
necessario dimostrare né l’an né il quantum. Ma la disposizione 
appare contrastante con il criterio generale della liquidazione del suo 
valore economico (ex art. 313, comma 2)”. 
Un ulteriore elemento di criticità si lega inoltre ai caratteri di quel 
corpus normativo nostrano noto con il nome di “diritto penale 
dell’ambiente”: numerosi comportamenti lesivi dell’ecosistema hanno 
(attualmente) una natura contravvenzionale e, dunque, per il meccanismo di 
ragguaglio ex articolo 314 del codice ambientale, si rischia di dare luogo a 
sanzioni civili irrisorie, nel loro ammontare, rispetto alla gravità dei 
pregiudizi nel frattempo cagionati alle risorse naturali. Sul punto, per un 
inquadramento generale del tema, si rinvia a R. BAJNO, Ambiente (tutela 
dell’) nel diritto penale, in Digesto disc. pen., I, Torino, 1987; L. 
STILO, Tutela penale dell’ambiente: breve introduzione ad un problema 
irrisolto, in www.ambientediritto.it/dottrina; E. LO MONTE, Diritto 
penale e tutela dell’ambiente. Tra esigenze di effettività e simbolismo 
involutivo, Milano, 2004; L. RAMACCI, Manuale di diritto penale 
dell’ambiente, Padova, 2005; V.B. MUSCATIELLO (e Altri), Diritto penale 
dell’ambiente, Bari, 2006.
Va segnalato de iure condendo che il Governo ha recentemente presentato al 
Parlamento un disegno di legge recante “Disposizioni concernenti i delitti 
contro l’ambiente. Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e 
l’integrazione della relativa disciplina”: lo schema prevede l’inserimento nel 
Codice penale del nuovo Titolo VI-bis “Dei delitti contro l’ambiente”, con 
l’intento di introdurre fattispecie di reato contro le violazioni ambientali più 
precise (i nuovi artt. 452-ter e 452-quater sono dedicati rispettivamente al 
danno e al disastro ambientali) e corredate da sanzioni più severe rispetto a 
quelle odierne. Il disegno di legge è attualmente all’esame della Camera dei 
Deputati (A.C. n. 2692). 
52 P. DELL’ANNO, Osservazioni sulla costituzionalità del D. 
Lgs. 152/2006 di riordino della materia ambientale, in Diritto giuris. 
agraria alim e ambiente, 10/2006, 561. 
53 “[…] per troppo tempo gli economisti hanno considerato 
l’acqua e l’aria come beni liberi, e cioè come beni disponibili in 
quantità illimitata, rispetto ai bisogni, e quindi aventi un costo nullo. Questa 
posizione poteva apparire accettabile quando il livello delle attività 
industriali e la loro natura erano tali da non modificare in modo sensibile 
l’ambiente. Ora la situazione è radicalmente cambiata e l’inquinamento delle 
acque e dell’atmosfera minaccia l’umanità e la stessa vita del pianeta”: così, 
S. LOMBARDINI, Economia politica, Torino, 1992, 28. 
54 Per costi e benefici ambientali si intendono rispettivamente 
la perdita o l’accrescimento del valore dello stock di capitale naturale ovvero 
l’imposizione di costi o di benefici tramite una modifica della qualità 
ambientale.
I costi ambientali possono essere a carattere diretto o indiretto, legati cioè 
all’uso di risorse quali il capitale e il lavoro, sostenuti per incrementare 
l’offerta di benefici ambientali o per ridurre i costi ambientali Tali costi 
sono misurabili in termini di perdita di valore dell’ambiente (capitale 
naturale) o di danni provocati agli altri individui.
55 D.W. PEARCE–R.K. TURNER, Economia delle risorse naturali 
e dell’ambiente, Bologna, 1991; B. C. FIELD–M. K. FIELD, Environmental 
Economics: an Introduction, Mc Graw-Hill, 2002; D.W. PEARCE–R.K. TURNER–I. 
BATERMAN, Economia ambientale, Bologna, 2003; I. MUSU, Introduzione 
all’economia dell’ambiente, Bologna, 2003; G. PANELLA, Economia e 
politiche dell’ambiente, Roma, 2003; M. BRESSO, Per un’economia ecologica, 
Roma, 2004; T.H. TIETENBERG, Economia dell’ambiente, Mc Graw-Hill, 2005.
56 “L’idea di attribuire un valore monetario ai danni prodotti 
all’ambiente sembra a molte persone illecita, se non addirittura immorale […] 
sono stati fatti alcuni tentativi per trovare altre unità – ad esempio, unità di 
energia – ma (…) non avrebbero alcun significato in termini di rivelazione delle
preferenze, e, quindi, le unità monetarie rimangono il migliore 
indicatore a nostra disposizione”: così, PEARCE–TURNER, cit., 127-128.
57 La scienza economica definisce “beni pubblici puri” quei 
beni che sono simultaneamente non escludibili (non si può impedire a 
qualcuno di goderne) e non rivali (l’uso del bene da parte di un 
individuo non ne limita la possibilità di godimento da parte di un altro): ad 
essi si contrappongono i beni privati (che sono escludibili e rivali) e le 
risorse collettive (connotate da rivalità e non escludibilità: ad es., i pesci 
del mare).
58 È evidente che la determinazione del saggio costituisce una 
fase delicata e non facile nel processo di valutazione. Il problema del saggio 
di sconto non è di facile soluzione; allo scopo, si può considerare: 
1. un saggio ritraibile dai titoli di Stato 
2. un saggio pagato per mutui contratti dalla collettività 
3. un saggio elevato di sconto per scoraggiare gli investimenti pubblici in una 
situazione di scarsa disponibilità di capitale (in tal modo, il saggio diventa 
strumento di selezione dei progetti poiché consente di ottenere un equilibrio 
tra risorse ed impieghi). 
59 Il riferimento è alla c.d. Economia del benessere che 
annovera, tra i suoi epigoni, l’economista inglese A.C. PIGOU (1877-1959).
60 Si vedano gli autori citati alla nota 54 del testo.
61 La somma della spesa totale e del surplus del consumatore 
rappresenta la disponibilità a pagare lorda che misura, quindi, il beneficio 
totale della collettività derivante da un determinato bene ambientale.
Ipotizzando, per esempio, l’aumento del prezzo di mercato della risorsa 
ambientale, si osserva che la curva di domanda di quest’ultima si innalza sino a 
coprire l’area corrispondente alla somma prezzo di mercato/surplus: in tal caso, 
il danno ambientale provoca uno spostamento verso l’alto della curva di offerta 
ed il raggiungimento di un nuovo e più alto livello di prezzo dato dall’incontro 
tra le nuove curve di offerta di domanda; in corrispondenza del nuovo livello di 
prezzo di equilibrio, maggiore del precedente, si avrà una quantità di 
equilibrio minore di quella iniziale. 
62 Si tratta del fenomeno che va sotto il nome di «dissonanza 
cognitiva»: ad incidere sulle decisioni individuali non è tanto il benessere 
assoluto, ma la variazione dello stato di benessere desumibile. In tale ottica: 
il rammarico, associato a una perdita conseguente a un’azione, tende a essere 
più intenso del rammarico associato a un’azione o a un’opportunità mancata; la 
stessa decisione può proporsi in molti contesti diversi (contesti diversi 
possono portare a decisioni differenti); una decisione è influenzata dal punto 
di riferimento con cui sono confrontati gli esiti possibili. 
63 M. BRESSO, Ambiente e attività produttive, Milano, 
1992, 380.
La relazione dose/risposta permette di disporre di una stima della funzione di 
danno con la quale calcolare sia il deterioramento ambientale in assenza di 
un’azione specifica, sia quello residuo in sua presenza, sia il nocumento 
evitato grazie a tale intervento, tramite la differenza tra i primi due. 
Malgrado il forte richiamo alla base scientifica di questo metodo, permangono 
numerose incertezze sulla valutazione “fisica” del danno, dovute ad esempio a: 
la conoscenza della situazione di partenza, spesso su aree molto vaste; 
l’incertezza su alcune funzioni dose-risposta (così, nel caso 
dell’elettromagnetismo, la necessità di studi epidemiologici); incertezze dei 
modelli di dispersione; difficoltà di separazione delle singole cause che 
possono provocare lo stesso effetto; difficoltà nella misura dei livelli di 
esposizione.
64 MAGRO, La metodologia di calcolo del danno ambientale 
secondo la procedura dell’analisi di habitat equivalente, cit.
65 Più diffusamente, sul punto, PEARCE–TURNER, cit., 149-153.
66 BRESSO, op. cit., 307.
67 Il primo fattore discorsivo dipende dal prezzo proposto dal 
ricercatore come punto di partenza, poiché questo influenzerà la DAP massima 
dell’intervistato; il secondo è creato dallo strumento di pagamento per 
concretizzare tale somma, in quanto si è notato che pagamenti diretti come 
biglietti di ingresso e prezzi più alti sono preferiti ad un aumento della 
tassazione, poiché in questo secondo caso la disponibilità a pagare espressa 
risulterebbe minore; la distorsione informativa infine deriva dal tipo, dalla 
successione e dalla quantità di dati all’oggetto dell’inchiesta ricevuti 
dall’intervistato e dal modo in cui gli vengono presentati: G. BOGNETTI–E. 
MORETTI–L. RIMINI, La valutazione economica del danno ambientale: profili 
teorici ed aspetti empirici, in Per una riforma delle responsabilità 
civile per danno all’ambiente, a cura di P. TRIMARCHI, Milano, 1996, 185.
68 Sono pertanto da preferirsi, nell’intervista, soggetti con 
una precedente conoscenza pratica delle diverse situazioni di dotazione del bene 
che valutano, così da poter comparare il costo con il beneficio ricavabile: 
BRESSO, op. cit., 382.
69 Così, ad esempio, a fronte di un danno all’ambiente di 
rilevante ammontare (per ipotesi, 1000), potrebbe accadere che mentre l’impresa 
X, di grandi dimensioni, risponda per 1000, l’impresa Y, di dimensione 
medio-piccola e con un fatturato inferiore rispetto alla prima, sia chiamata a 
rispondere per 500: in questa seconda eventualità, una quota di danno resterebbe 
scoperta (e mai reintegrata?). 
70 In tale prospettiva, cominciano ad apparire studi “a 
cavallo” tra diritto e scienza economica: per il tema che qui interessa, e con 
precipuo riferimento alla pregressa disciplina dell’art. 18 della legge n. 
349/86, si veda l’interessante articolo di R. MARINO, La quantificazione del 
danno ambientale: analisi economica del diritto, in www.diritto.net/content/view/783/6/.
 
Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it 
il 3/11/2007