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Le nuove regole dei SPL alla luce della disciplina attuativa introdotta dal d.P.R. n. 168/2010
GERARDO GUZZO*
 
SOMMARIO: 1. Premessa. 2. Le novità introdotte dal regolamento di attuazione. 3. Il regime delle deroghe e delle scadenze. 4. Le novità introdotte dall’articolo 14, comma 32, della legge n. 122/2010. 4.1. La deliberazione della Corte dei Conti/Puglia n. 76 del 22 luglio 2010 e il problema della costituzione di nuove società pubbliche. 5. La sentenza del T.a.r. Calabria, Sezione di Reggio Calabria, n. 561 del 16 giugno 2010. 5.1. Il parere dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici n. 3/2010. 6. Considerazioni finali.
1. Premessa.
L’odierno lavoro vuole rappresentare una sorta di “punto di sintesi” 
dell’attuale disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, 
recentemente portata a compimento a seguito del varo del regolamento di 
attuazione n. 168/2010 previsto dal comma 10 dell’articolo 23-bis del d.l. n. 
112/2008, convertito nella legge n. 133/2008, di seguito modificata 
dall’articolo 15 del d.l. n. 135/2009, a sua volta convertito con modifiche 
nella legge n. 166/2009. Com’è noto, il regolamento di attuazione è stato 
licenziato dal Consiglio dei Ministri nella seduta n. 102 del 22 luglio 2010 ed 
è stato pubblicato sulla G.U. del 12 ottobre 2010, n. 239/20101. 
Tuttavia, nonostante i vari emendamenti, diverse sono state le critiche mosse al 
testo, soprattutto dal Consiglio di Stato. Successivamente, a riprova della 
particolare vischiosità della materia dei servizi pubblici, per le ovvie 
ricadute che questa genera sulle dinamiche economiche e sociali, il legislatore 
del 2010 ha trovato il modo nella legge contenente la manovra finanziaria per 
l’anno 2011 di intervenire nuovamente sull’argomento, introducendo significativi 
divieti di costituzione di società pubbliche per i Comuni con meno di 30.000 
abitanti, ponendo un problema di raccordo con l’articolo 3, comma 27, della 
legge n. 244/2007 (finanziaria 2008). In questo solco, si colloca l’importante 
determinazione della Corte dei Conti/Puglia, n. 76, del 22 luglio 2010, di poco 
precedente la pubblicazione in G.U. della legge di conversione (n. 122) del d.l. 
n. 78/2010, risalente al 30 luglio 2010. Tra i punti più controversi della 
riforma dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, un posto a parte 
merita la vexata quaestio dell’extraterritorialità delle società miste. 
Il tema è stato rigorosamente approfondito da una importante sentenza del T.a.r. 
Calabria, Sezione di Reggio Calabria, che ha risolto positivamente la questione. 
Altro aspetto particolarmente spinoso è quello del divieto posto dall’articolo 
23-bis, comma 9, della legge n. 133/2008 e s. m. e integrazioni. A tal 
proposito, si segnala il parere n. 3/2009 dell’Autorità di vigilanza sui 
contratti pubblici di lavori, servizi e forniture che offre una chiave di 
lettura destinata ad entrare in rotta di collisione con la più recente 
giurisprudenza amministrativa. Com’è noto, la norma in parola riguarda il 
divieto per i titolari della gestione di servizi pubblici locali non affidati 
con gara e per i soggetti cui è affidata la gestione delle reti di acquisire la 
gestione di servizi ulteriori o in ambiti territoriali diversi, oltre che di 
svolgere servizi o altre attività per altri enti pubblici o privati, sia 
direttamente che tramite loro controllanti o altre società che siano da essi 
controllate o partecipate, oppure partecipando a gare. Sul punto, come 
anticipato, sembra essersi aperto una sorta di conflitto tra la giurisprudenza 
amministrativa e la posizione assunta dall’Authority - soprattutto con 
riferimento alla operatività extraterritoriale delle società miste - che si 
cercherà di approfondire nel corso della trattazione.
2. Le novità introdotte dal regolamento di attuazione
Con il varo del regolamento di attuazione dell’articolo 23-bis della 
legge n. 133/2008 e s. m. e integrazioni viene finalmente definito l’assetto dei 
servizi pubblici locali di rilevanza economica. Si tratta di un passaggio 
estremamente delicato in quanto orienta nella sostanza l’atteggiamento che le 
pubbliche amministrazioni dovranno assumere in specie riguardo al fenomeno degli 
affidamenti in house. Entrando nel merito del provvedimento, è agevole 
scorgere come l’articolato in parola non trovi applicazione nei confronti: a) 
del servizio di distribuzione di gas naturale, di cui al decreto legislativo 23 
maggio 2000, n. 164; b) del servizio di distribuzione di energia 
elettrica, di cui al decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79 e alla legge 23 
agosto 2004, n. 239; c) del servizio di trasporto ferroviario regionale, 
di cui al decreto legislativo 19 novembre 1997, n. 422; d) della gestione 
delle farmacie comunali, di cui alla legge 2 aprile 1968, n. 475; e) dei 
servizi strumentali all’attività o al funzionamento degli enti affidanti di cui 
all’articolo 13, comma 1, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, 
con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, e successive 
modificazioni. Per quanto concerne la gestione del servizio idrico integrato, lo 
stesso testo di legge stabilisce che restano ferme l’autonomia gestionale del 
soggetto gestore, la piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse 
idriche, nonché la spettanza esclusiva alle istituzioni pubbliche del governo 
delle risorse stesse, ai sensi dell’articolo 15, comma 1-ter, del 
decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, convertito, con modificazioni, nella 
legge 20 novembre 2009, n. 166. L’articolo 2 introduce, a sua volta, un elemento 
di novità: la delibera quadro. Si tratta di uno strumento attraverso il quale 
gli enti locali sono chiamati a verificare “(…) la realizzabilità di una 
gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali, limitando l’attribuzione di 
diritti di esclusiva, ove non diversamente previsto dalla legge, ai casi in cui, 
in base ad una analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non 
risulti idonea, secondo criteri di proporzionalità, sussidiarietà orizzontale ed 
efficienza, a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità, e 
liberalizzando in tutti gli altri casi le attività economiche compatibilmente 
con le caratteristiche di universalità ed accessibilità del servizio (…)”. In 
altre parole, le delibera quadro “(…) evidenzia, per i settori sottratti alla 
liberalizzazione, i fallimenti del sistema concorrenziale e i benefici per la 
stabilizzazione, lo sviluppo e l’equità all’interno della comunità locale 
derivanti dal mantenimento di un regime di esclusiva del servizio (…)”. Si 
tratta di una verifica che, ai sensi dell’articolo 2 del regolamento, deve 
essere compiuta dagli enti locali una prima volta entro dodici mesi dall’entrata 
in vigore dello stesso e successivamente, in modo periodico, secondo quanto 
previsto dai rispettivi ordinamenti; comunque, prima di procedere al 
conferimento e al rinnovo della gestione dei servizi. La delibera quadro, 
dunque, può essere considerata, a giusto titolo, un documento all’interno del 
quale scorgere una puntuale analisi di mercato con la conseguenza che 
l’affidamento della gestione in house diventi espressione di una precisa 
strategia gestionale rinvenibile in una deliberazione ad hoc del 
consiglio comunale. Particolarmente importante sembra essere l’articolo 3 del 
regolamento che detta le norme generali applicabili agli affidamenti. La norma 
in parola stabilisce, al comma 2, il principio della partecipazione delle 
società a capitale interamente pubblico alle procedure competitive ad evidenza 
pubblica previste dall’articolo 23-bis, comma 2, lett. a), a 
condizione, però, che non vi siano particolari preclusioni imposte dal 
legislatore, cioè che non si tratti di società strumentali del tipo, ad esempio, 
di quelle previste dall’articolo 13 del d.l. n. 223/2006 e s. m. e integrazioni. 
Il successivo comma 4, invece, affronta il tema dell’affidamento della gestione 
del servizio ai moduli societari misti, sempre che le procedure competitive 
abbiano ad oggetto “(…) al tempo stesso, la qualità di socio e l'attribuzione di 
specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio (…)”. In tali 
casi, è espressamente previsto che il bando di gara assicuri che: a) i 
criteri di valutazione delle offerte, basati su qualità e corrispettivo del 
servizio, prevalgano di norma su quelli riferiti al prezzo delle quote 
societarie; b) il socio privato selezionato svolga gli specifici compiti 
operativi connessi alla gestione del servizio per l’intera durata del servizio 
stesso e che, ove ciò non si verifichi, si proceda a un nuovo affidamento ai 
sensi dell’articolo 23-bis, comma 2 e c) siano previsti criteri e 
modalità di liquidazione del socio privato alla cessazione della gestione. In 
sostanza, la disciplina di dettaglio ha integralmente recepito i principi 
codificati dalla corposa elaborazione giurisprudenziale e solo accennati nella 
disciplina generale. L’articolo 4 del testo in commento, a sua volta, definisce 
i casi in cui è richiesto il parere dell’Agcom prima di procedere ad un 
affidamento in house. La ratio della norma sembra essere quella di voler 
sottrarre l’affidamento delle gestioni di minore importanza al vaglio 
dell’Authority, residuando il relativo parere in capo ai soli affidamenti di 
valore superiore ai duecentomila euro2. 
Il valore annuo del servizio viene calcolato sommando tutte le entrate del 
gestore, tra le quali vanno sicuramente incluse le tariffe riscosse, eventuali 
corrispettivi parziali del servizio e contributi ottenuti per realizzare degli 
investimenti. I parametri così fissati, invero, rischiano di penalizzare gli 
affidamenti ai moduli societari multi-service proprio in ragione 
dell’unitarietà dell’oggetto dell’affidamento che, di fatto, potrebbe generare 
il rischio di un agevole superamento della soglia dei duecentomila euro l’anno. 
Va detto che il Consiglio di Stato, in sede di stesura del parere n. 2415/2010 
sul regolamento di attuazione, aveva suggerito che il parere di cui all’articolo 
23-bis, comma 4, fosse obbligatorio se il valore economico del servizio 
oggetto dell’affidamento superava la somma complessiva di: a) 200.000,00 
euro annui, qualora la popolazione interessata fosse superiore a 50.000 unità;
b) 50.000 euro annui, qualora la popolazione interessata non fosse 
superiore a 50.000 unità. Il testo definitivo della norma, invece, si è limitato 
ad espungere l’intero secondo periodo che compariva nella versione originale 
dell’articolo 4 e che prevedeva che “(…) il detto parere è comunque richiesto, a 
prescindere dal valore economico del servizio, qualora la popolazione 
interessata sia superiore a 50.000 unità (…)”. L’articolo 5 affronta un tema 
particolarmente delicato quale quello dell’estensione del patto di stabilità 
interno alle società partecipate dagli enti locali. La norma stabilisce che “(…) 
al patto di stabilità interno sono assoggettati gli affidatari in house 
di servizi pubblici locali ai sensi dell’articolo 23-bis, commi 3 e 4 (…)”: vale 
a dire tutti quei casi di affidamenti in house di valore superiore (se 
autorizzati) o inferiore ai duecentomila euro. Nonostante l’apparente linearità 
della norma regolamentare, la questione dell’applicazione del patto di stabilità 
alle società partecipate appare lontana da un’auspicabile risoluzione. Le 
difficoltà nascono da due contraddittorie disposizioni, entrambe contenute nella 
legge n. 133/2008: l’articolo 18, comma 2-bis, e l’articolo 23-bis. 
Infatti, l’articolo 18 estende l’applicazione del patto di stabilità a tutte le 
società controllate, affidatarie dirette del servizio - ivi comprese le società 
miste che – una volta scelto il socio operativo, svolgano servizi di natura 
strumentale3. 
L’articolo 23-bis, invece, stabilisce che sono soggette al patto di 
stabilità soltanto le società in house chiamate a gestire servizi 
pubblici di rilevanza economica. Il regolamento di attuazione non ha sciolto il 
dubbio, nonostante nella primitiva versione della norma comparisse un chiaro 
riferimento (poi scomparso) a tutti i soggetti individuati con il decreto 
interministeriale di cui all’articolo 18, comma 2-bis, del decreto-legge 
25 giugno 2008, n. 112. Nella versione definitiva, l’articolo 5, al comma 2, si 
limita a stabilire che “(…) Le modalità e la modulistica per l’assoggettamento 
al patto di stabilità interno dei soggetti di cui al comma 1 sono definite in 
sede di attuazione di quanto previsto dall’articolo 2, comma 2, lett. h), 
della legge 5 maggio 2009, n. 42, e successive modificazioni, in materia di 
bilancio consolidato (…)”, senza alcun riferimento al decreto interministeriale 
originariamente evocato. A ben vedere, la norma in parola “depotenzia” il ruolo 
degli gli enti locali in materia di osservanza del patto di stabilità in quanto 
si limita a prevedere che questi ultimi vigilino soltanto, senza essere 
minimamente responsabili per il verificarsi di eventuali scostamenti. Inoltre, 
l’ultimo comma dell’articolo 5 rinvia a tutto quanto previsto in sede di 
attuazione “(…) dall’articolo 2, comma 2, lett. h), della legge 5 maggio 
2009, n. 42 (legge sul federalismo), e successive modificazioni, in materia di 
bilancio consolidato (…)” degli enti locali. Proprio il riferimento al bilancio 
consolidato esprime plasticamente l’errore in cui è incorso il legislatore 
delegato. Infatti, com’è stato attentamente osservato4, 
il bilancio consolidato segue una logica completamente diversa da quella del 
patto di stabilità ed ha un’estensione tale da investire non solo le aziende 
controllate ma anche le società. Ne consegue che il riferimento contenuto 
nell’articolo 5 avrà un’estensione longitudinale ben più ampia non solo della 
previsione contenuta nell’articolo 23-bis ma anche di quella rinvenibile 
nell’articolo 18. Tale confusione, inevitabilmente, rischia di riverberarsi 
sulla liquidazione delle società pubbliche alla luce delle scadenze previste 
dalla legge n. 122/2010. Perché ciò avvenga, com’è stato attentamente osservato, 
è indispensabile attenuare l’impatto fiscale e quello sul patto perché 
diversamente operando i comuni non saranno più in grado di assorbire il debito e 
i dipendenti delle aziende interessate e nulla verrà cambiato5. 
Il successivo articolo 6 affronta il tema della disciplina applicabile agli 
acquisti di beni e servizi da parte delle società in house e di quelle 
miste. La norma fissa un principio di ordine generale: l’applicabilità delle 
disposizioni contenute nel d.lgs. n. 163/2006 e s. m. e integrazioni. Il comma 2 
subordina l’applicazione dell’articolo 32, comma 3, del d.lgs. n. 163/2006, 
limitatamente alla gestione del servizio per il quale le società di cui al comma 
1, lettera c), del medesimo articolo sono state specificamente 
costituite, alla scelta del socio privato, nel rispetto di quanto previsto 
dall’articolo 23-bis, comma 2, lettera b). Di assoluto rilievo è il tema 
trattato dall’articolo 7 del regolamento di attuazione interamente dedicato all’assunzione 
del personale da parte delle società in house e delle società miste. La 
questione dell’assunzione del personale viene affrontata dalla legge n. 133/2008 
negli articoli 18 e 23-bis, comma 10, lett. a). L’articolo 18 si 
riferiva al reclutamento del personale delle società a totale partecipazione 
pubblica che gestiscono servizi pubblici locali (non necessariamente di 
rilevanza economica). Si indicavano quali criteri guida della selezione i 
principi contenuti nel comma 3 dell’articolo 35 del d.lgs. n. 165/2001 oltre che 
quelli di derivazione comunitaria, di trasparenza, di pubblicità ed imparzialità 
per le altre società pubbliche6. 
L’articolo 23-bis, a sua volta, faceva espressamente riferimento alle 
società miste e agli affidamenti in house codificando il meccanismo 
selettivo costruito sulle procedure di evidenza pubblica quale regola generale. 
Il testo finale dell’articolo 7, recependo integralmente le osservazioni 
formulate dal Consiglio di Sato con il parere n. 2415 del 24 maggio 2010, 
depositato il 14 giugno successivo, prevede che “(…) le società a partecipazione 
pubblica che gestiscono servizi pubblici locali adottano, con propri 
provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il 
conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi di cui al comma 3 
dell’articolo 35 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (…)”. I criteri 
richiamati sono: a) adeguata pubblicità della selezione e modalità di 
svolgimento che garantiscano l'imparzialità e assicurino economicità e celerità 
di espletamento, ricorrendo, ove è opportuno, all'ausilio di sistemi 
automatizzati, diretti anche a realizzare forme di preselezione; b) 
adozione di meccanismi oggettivi e trasparenti, idonei a verificare il possesso 
dei requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione 
da ricoprire; c) rispetto delle pari opportunità tra lavoratrici e 
lavoratori; d) decentramento delle procedure di reclutamento; e) 
composizione delle commissioni esclusivamente con esperti di provata competenza 
nelle materie di concorso, scelti tra funzionari delle amministrazioni, docenti 
ed estranei alle medesime, che non siano componenti dell'organo di direzione 
politica dell'amministrazione, che non ricoprano cariche politiche e che non 
siano rappresentanti sindacali o designati dalle confederazioni ed 
organizzazioni sindacali o dalle associazioni professionali. In sintesi, 
l’articolo 7 del regolamento di attuazione demanda all’ente pubblico il compito 
di vigilare sulla corretta individuazione dei criteri e delle modalità di 
reclutamento del personale senza, tuttavia, essere responsabili in caso di non 
adeguata vigilanza. In questo senso, la norma rischia una sostanziale 
disapplicazione appena temperata dall’obbligo per le partecipate di osservare i 
parametri fissati dal patto di stabilità. L’articolo 8 del regolamento attuativo 
fissa alcuni divieti ed incompatibilità che colpiscono taluni soggetti. In 
particolare, il comma 1 dell’articolo 8 prevede che “(…) Gli amministratori, i 
dirigenti e i responsabili degli uffici o dei servizi dell’ente locale, nonché 
degli altri organismi che espletano funzioni di stazione appaltante, di 
regolazione, di indirizzo e di controllo di servizi pubblici locali, non possono 
svolgere incarichi inerenti la gestione dei servizi affidati da parte dei 
medesimi soggetti. Il divieto si applica anche nel caso in cui le dette funzioni 
sono state svolte nei tre anni precedenti il conferimento dell’incarico inerente 
la gestione dei servizi pubblici locali. Alle società quotate nei mercati 
regolamentati si applica la disciplina definita dagli organismi di controllo 
competenti (…)”. Il successivo comma 2 chiarisce che tale divieto opera anche 
nei confronti del coniuge, dei parenti e degli affini entro il quarto grado dei 
soggetti indicati nel precedente comma 1, nonché nei confronti di coloro che 
prestano, o hanno prestato nel triennio precedente, a qualsiasi titolo attività 
di consulenza o collaborazione in favore degli enti locali o dei soggetti che 
hanno affidato la gestione del servizio pubblico locale (…)”. I commi da 3 a 5 
cristallizzano alcune cause di incompatibilità. In particolare, viene stabilito 
non possono essere nominati amministratori di società partecipate da enti locali 
coloro che nei tre anni precedenti alla nomina hanno ricoperto la carica di 
amministratore, di cui all’articolo 77 del decreto legislativo 18 agosto 2000, 
n. 267, e successive modificazioni, negli enti locali che detengono quote di 
partecipazione al capitale della stessa società. Inoltre, i componenti della 
commissione di gara per l’affidamento della gestione di servizi pubblici locali 
non devono aver svolto né possono svolgere alcun’altra funzione o incarico 
tecnico o amministrativo relativamente alla gestione del servizio di cui si 
tratta. Parimenti, coloro che hanno rivestito, nel biennio precedente, la carica 
di amministratore locale, di cui al comma 3, non possono essere nominati 
componenti della commissione di gara relativamente a servizi pubblici locali da 
affidare da parte del medesimo ente locale. I commi da 6 a 8, sempre riguardo la 
composizione della commissione giudicatrice, prevedono una serie di ulteriori 
prescrizioni interdittive. Infatti, viene stabilita l’esclusione da futuri 
incarichi di commissario a carico di quegli amministratori di società 
partecipate da enti locali che nei tre anni precedenti alla nomina hanno 
ricoperto la carica di amministratore, di cui all’articolo 77 del decreto 
legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, negli enti 
locali che detengono quote di partecipazione al capitale della stessa società. A 
questo si aggiunga che i componenti della commissione di gara per l’affidamento 
della gestione di servizi pubblici locali non devono aver svolto né possono 
svolgere alcun’altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente 
alla gestione del servizio di cui si tratta. Infine, per coloro che hanno 
rivestito, nel biennio precedente, la carica di amministratore locale, scatta il 
divieto di nomina a componenti della commissione di gara relativamente a servizi 
pubblici locali da affidare da parte del medesimo ente locale. Tuttavia, le 
disposizioni contenute nell’articolo 8 troveranno applicazione soltanto nei 
confronti delle nomine e degli incarichi da conferire dopo il varo del 
regolamento di attuazione facendo salve tutte le posizioni pregresse. L’articolo 
9 fissa il principio di reciprocità prevedendo che le imprese estere che 
appartengono a Stati dell’Ue possono essere ammesse alle procedure competitive 
ad evidenza pubblica per l’affidamento di servizi pubblici locali a condizione 
che documentino la possibilità per le imprese italiane di partecipare alle gare 
indette negli Stati di provenienza per l’affidamento di omologhi servizi. Tanto 
allo scopo di dare attuazione al principio di parità di trattamento e non 
discriminazione di matrice comunitaria. Particolarmente significativo, invece, è 
il successivo articolo 10 che disciplina la cessione dei beni in caso di 
subentro. La norma, infatti, dispone che “(…) alla scadenza della gestione del 
servizio pubblico locale o in caso di sua cessazione anticipata, il precedente 
gestore cede al gestore subentrante i beni strumentali e le loro pertinenze 
necessari, in quanto non duplicabili a costi socialmente sostenibili, per la 
prosecuzione del servizio, come individuati, ai sensi dell’articolo 3, comma 3, 
lettera f)7, 
dall’ente affidante, a titolo gratuito e liberi da pesi e gravami (…)”. In 
sostanza, viene fatto obbligo al precedente gestore di cedere al subentrante 
tutti i beni e le pertinenze occorrenti per l’utile prosecuzione del servizio 
senza oneri di vario genere (pesi o gravami). L’obbligo viene mitigato 
nell’ipotesi in cui i costi di tali beni o accessori non sono stati ancora 
ammortizzati. In tali casi, il comma 2 dell’articolo 10 prevede che il gestore 
subentrante corrisponda al precedente gestore un importo pari al valore 
contabile originario non ancora ammortizzato, al netto di eventuali contributi 
pubblici direttamente riferibili ai beni stessi. L’importo in parola deve essere 
indicato nel bando o nella lettera di invito relativi alla gara indetta per il 
successivo affidamento del servizio pubblico locale a seguito della scadenza o 
della cessazione anticipata della gestione (comma 3). Il legislatore delegato, 
inoltre, si preoccupa di fare salvi gli eventuali differenti accordi intervenuti 
tra le parti prima dell’entrata in vigore del regolamento di attuazione oltre 
che le disposizioni contenute nelle discipline di settore, anche regionali, 
prima vigenti. Infine, l’articolo 11 introduce l’istituto della conciliazione 
quale strumento per risolvere non in via giurisdizionale le controversie che 
dovessero sorgere tra le parti. La norma assegna ai contratti di servizi o, se 
previste, alle carte dei servizi la previsione della procedura conciliativa da 
attivarsi entro trenta giorni dal ricevimento della richiesta. Le modalità di 
inizio della procedura in discorso sono quelle indicate nell’allegato “A” al 
testo del regolamento. A chiusura di paragrafo, pare opportuno segnalare come il 
legislatore, con una tecnica legislativa piuttosto discutibile, abbia demandato 
al regolamento di attuazione l’abrogazione di norme contenute in fonti primarie 
o sub primarie. Si pensi ai commi 5, 5-bis, 6, 7, 8, 9, 14, 15-bis, 
15-ter, 15-quater del d.lgs. n. 267/2000: norme, queste, tutte 
abrogate dal regolamento di attuazione. 
3. Il regime delle deroghe e delle scadenze
L’articolo 23-bis della legge n. 133/2008 e s. m. e integrazioni fissa 
quale principio generale per l’affidamento della gestione di un servizio 
pubblico di rilevanza economica quello della gara. Tuttavia, com’è noto, in 
taluni casi eccezionali è possibile anche procedere all’affidamento in house 
della gestione del servizio. Il regolamento di attuazione ha aggiunto ulteriori 
elementi di dettaglio che consentono alla riforma di entrare nella sua fase più 
strettamente operativa. Riguardo agli affidamenti in house, che 
costituiscono una deroga alla regola generale della gara, la disciplina di 
dettaglio ha previsto una serie di prescrizioni particolarmente stringenti, con 
particolare riferimento al settore idrico, pur confermando la proprietà pubblica 
dell’acqua. In particolare, per ottenere il parere favorevole dall’Agcom, l’ente 
affidante non dovrà dimostrare i fallimenti del sistema concorrenziale ma sarà 
tenuto a rappresentare soltanto specifiche condizioni di efficienza che rendono 
la gestione in house non distorsiva della concorrenza, ossia 
comparativamente non svantaggiosa per i cittadini rispetto ad una modalità 
alternativa di gestione dei servizi pubblici locali. Le condizioni di favor 
innanzi evocate vanno rinvenute: a) alla chiusura dei bilanci in utile, 
escludendosi a tal fine qualsiasi trasferimento non riferito a spese per 
investimenti da parte dell’ente affidante o altro ente pubblico; b) al 
reinvestimento nel servizio almeno dell’80 per cento degli utili per l’intera 
durata dell’affidamento; c) all’applicazione di una tariffa media 
inferiore alla media di settore; d) al raggiungimento di costi operativi 
medi annui con un’incidenza sulla tariffa che si mantenga al di sotto della 
media di settore. Soltanto costruendo una proposta su tali argomenti sarà 
possibile derogare alla regola madre della procedura di evidenza pubblica anche 
nel settore idrico. Quid juris rispetto alle altre ipotesi di affidamento 
non rispettose dei parametri comunitari? Com’è noto, l’articolo 15 del d.l. n. 
135/2009, convertito con modifiche nella legge n. 166/2009, ha rimodulato i 
termini del regime transitorio che riguardano le ipotesi in deroga degli 
affidamenti8. Per 
quanto in questa sede rileva, si osserva che le prime ipotesi di affidamento 
in house a cessare saranno quelle gestioni di servizi pubblici affidati 
dagli enti locali direttamente alle proprie società senza rispettare i parametri 
comunitari costituiti dal “controllo analogo”, dal criterio della “prevalenza” e 
dall’esercizio di penetranti e condizionanti poteri di indirizzo da parte 
dell’ente partecipante. Tali affidamenti sono inevitabilmente destinati a finire 
entro il 31 dicembre 2010. Il discorso cambia nel caso in cui l’affidamento 
diretto sia avvenuto nel rispetto delle condizioni innanzi richiamate. La 
scadenza del 31 dicembre 2010 non è perentoria a patto che entro quella data la 
società a capitale interamente pubblico cambi veste. In altri termini, dovrà 
essere messa sul mercato una quota non inferiore al 40% del proprio capitale e 
la scelta del partner privato dovrà avvenire con una gara che consenta 
anche l’individuazione dei compiti operativi di quest’ultimo. Qualora ciò 
accada, l’affidamento potrà cessare alla sua scadenza naturale. Il calendario è 
identico per quanto riguarda le società miste. In questo caso, la scadenza è del 
31 dicembre 2010 nell’ipotesi in cui il partner privato non sia stato 
scelto con gara. Il termine viene differito al 31 dicembre 2011 nell’ipotesi in 
cui il partner privato sia stato selezionato con gara ma non siano stati 
definiti i compiti operativi al momento della gara. La scadenza naturale del 
contratto, infine, è prevista soltanto per quei moduli societari misti in cui il
partner privato sia stato selezionato con procedura di evidenza pubblica 
con contestuale definizione dei propri compiti e funzioni. Per quanto concerne 
gli affidamenti diretti a società controllate quotate in borsa, la scadenza 
naturale del contratto è possibile solo nel caso in cui la quota pubblica scenda 
sotto il 40% entro il 30 giugno 2013 e sotto il 30% entro il 31 dicembre 2015. 
Il dubbio è se entro le date indicate la vendita della quota pubblica debba 
considerarsi già effettuata oppure debba essere avviata la sola procedura. Il 
regolamento, purtroppo, sul punto tace ma è verosimile che per tali date la 
procedura di “snellimento” debba essere solo iniziata.
4. Le novità introdotte dall’articolo 14, comma 32, della legge n. 122/2010
Il d.l. n. 78 contenente “Misure urgenti in materia di stabilizzazione 
finanziaria e di competitività economica” è stato convertito, con modifiche, 
nella legge n. 122 del 30 luglio 2010, pubblicata in G.U. n. 176 dello stesso 
giorno. L’articolato, dettato da una evidente ratio di riduzione della 
spesa pubblica, contiene una disposizione in materia di società partecipate 
abbastanza controversa che ha suscitato da subito incertezze sul piano della 
corretta individuazione dell’ambito applicativo. La norma in questione è 
l’articolo 14, comma 32. Il testo prevede nella prima parte che “(…) Fermo 
quanto previsto dall'art. 3, commi 27, 28 e 29, della legge 24 dicembre 2007, n. 
244, i comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti non possono costituire 
società. Entro il 31 dicembre 2011 i comuni mettono in liquidazione le società 
già costituite alla data di entrata in vigore del presente decreto, ovvero ne 
cedono le partecipazioni. La disposizione di cui al presente comma non si 
applica alle società, con partecipazione paritaria ovvero con partecipazione 
proporzionale al numero degli abitanti, costituite da più comuni la cui 
popolazione complessiva superi i 30.000 abitanti; i comuni con popolazione 
compresa tra 30.000 e 50.000 abitanti possono detenere la partecipazione di una 
sola società; entro il 31 dicembre 2011 i predetti comuni mettono in 
liquidazione le altre società già costituite (…)”. La seconda parte del testo, 
poi, rimanda ad un decreto interministeriale - da emanarsi entro novanta giorni 
- la fissazione delle modalità attuative. In sostanza, gli enti sono chiamati a 
liberarsi delle partecipazioni non più consentite entro il 31 dicembre 2011 e 
viene sensibilmente ridotta la possibilità di costituire nuove società 
pubbliche. Il divieto colpisce innanzitutto i piccoli comuni fino a 30.000 
abitanti (ancorché consorziati), mentre per i comuni da 30.000 a 50.000 abitanti 
è possibile la detenzione di quote societarie che riguardino un solo soggetto 
economico. Tuttavia, la norma “salva” le prescrizioni contenute nei commi 27, 28 
e 29 dell’articolo 3 della legge n. 244/2007 (finanziaria 2008). La questione 
posta dall’articolo 14, comma 32, della legge n. 122/2010, riguarda proprio il 
cosiddetto fuoco applicativo della norma. In altri termini, la domanda è: la 
disposizione trova o no applicazione nei confronti delle società affidatarie 
della gestione di servizi pubblici? Com’è noto, l’articolo 2, comma 27, della l. 
n. 244/2007 consentiva la costituzione di società strettamente necessarie per 
il perseguimento delle proprie finalità istituzionali e di quelle di 
interesse generale. Proprio tale precisazione consentirebbe di affermare che 
i divieti contenuti nell’articolo 14, comma 32, della legge n. 122/2010 non 
riguarderebbero le società chiamate a gestire servizi pubblici. Ciononostante, 
si pone il problema, di non poco conto, di individuare quelle società “non 
strettamente necessarie” al perseguimento di fini istituzionali e di “interesse 
generale” soggette alla scure della liquidazione. E’ facile gioco osservare che 
gran parte delle società strumentali, pur perseguendo delle finalità 
istituzionali, paradossalmente, non sono sempre necessarie. E allora, cosa fare? 
Esigenze di contenimento della spesa imporrebbero, senza dubbio, di includerle 
nel divieto introdotto dal comma 32 dell’articolo 14. Tuttavia, il dubbio resta, 
in attesa del varo del decreto interministeriale atteso entro il 28 ottobre 
2010. In definitiva, se le prescrizioni contenute nella norma in commento non 
trovano applicazione nei confronti delle società che erogano servizi pubblici, è 
possibile concludere che non vi sia alcuna contraddizione tra i termini di 
cessazione dei moduli societari previsti dalla legge n. 133/2008 e s. m. e 
integrazione e quello del 31.12.2011 contenuto nell’articolo 14, comma 32, della 
legge n. 122/2010, che riguarda le società già costituite al 31 maggio 2010. 
4.1. La deliberazione della Corte dei Conti/Puglia n. 76 del 22 luglio 2010 e 
il problema della costituzione di nuove società pubbliche
Il problema dell’individuazione del corretto ambito applicativo dell’articolo 
12, comma 32, della legge n. 122/2010 è stato affrontato anche dalla Corte dei 
Conti, sezione regionale di controllo per la Regione Puglia, con la 
deliberazione n. 76 del 22 luglio 2010. Il dictum dei giudici contabili 
precede di otto giorni la legge di conversione (n. 122) del d.l. n. 78/2010, 
risalente al successivo 30 luglio. I magistrati pugliesi, confermando una 
propria precedente deliberazione del 2009 (n. 103), hanno correttamente 
evidenziato come l’articolo 14, comma 32, “(…) che pone un espresso divieto di 
costituzione di società partecipate per i Comuni aventi popolazione inferiore a 
30.000 abitanti, ha una latitudine molto ampia perché si riferisce a tutte le 
società partecipate, senza distinguere in alcun modo in relazione al settore di 
attività in cui operano ovvero alla circostanza che esse abbiano proceduto 
all’emissione di strumenti finanziari quotati su mercati regolamentati. 
Tuttavia, il citato comma 32 fa specificatamente salvo l’art. 3, commi 27, 28 e 
29 della legge n. 244 del 2007 (L.F. 2008) che, pertanto, rimane in vigore per 
espresso dettato normativo. Ne consegue che, non ostando l’art. 14, comma 32 
cit. alla costituzione di società che integrino i presupposti di cui all’art. 3, 
comma 27 e ss. della legge finanziaria del 2008, la Sezione non può che 
confermare il contenuto del precedente parere espresso con propria deliberazione 
n. 103/2009, con i limiti e le considerazioni ivi indicati (…)”, vale a dire che 
“(…) la partecipazione societaria potrà comunque essere acquisita anche nel caso 
di attività non strettamente necessarie al perseguimento dei fini istituzionali 
dell’Ente qualora si tratti di servizi di interesse generale, che presentino un 
favorevole impatto sulla collettività locale (…)”9. 
Del resto, sempre gli stessi giudici pugliesi, proprio con la determinazione n. 
103/2009, hanno chiarito, a suo tempo, in merito al comma 27 della legge n. 
244/2007 che “(…) ad avviso del Collegio, l’inquadramento di una eventuale nuova 
partecipazione societaria da parte degli Enti locali in una delle tipologie su 
riportate spetta esclusivamente alle valutazioni discrezionali dell’Ente. 
L’Organo Consiliare dovrà, quindi, adeguatamente motivare l’acquisizione di una 
nuova partecipazione societaria evidenziandone i costi ed i benefici in termini 
di efficienza, efficacia ed economicità di gestione in un’ottica di lungo 
periodo, specificandone i vantaggi per la collettività (…)”. Dal che ne consegue 
il carattere assorbente del soddisfacimento dell’interesse generale, tipico 
delle società erogatrici di servizi pubblici, quale presupposto per la non 
applicabilità del divieto posto dall’articolo 14, comma 32, della legge n. 
122/2010 ai soggetti economici affidatari della gestione di un servizio pubblico 
locale.
5. La sentenza del T.a.r. Calabria, Sezione di Reggio Calabria, n. 561 del 16 
giugno 2010
La sentenza del T.a.r. Calabria, Sezione di Reggio Calabria, n. 561 del 16 
giugno 2010 ha affrontato un tema particolarmente controverso: quello della 
interpretazione del comma 9 dell’articolo 23-bis del d.l. n. 112/2008, 
come modificato dalla novella del 2009 (l. n. 166/09). Com’è noto, la 
disposizione in discorso stabilisce che “(…) le società, le loro controllate, 
controllanti e controllate da una medesima controllante, anche non appartenenti 
a Stati membri dell’Unione europea, che, in Italia o all’estero, gestiscono di 
fatto o per disposizioni di legge, di atto amministrativo o per contratto 
servizi pubblici locali in virtù di affidamento diretto, di una procedura non ad 
evidenza pubblica ovvero ai sensi del comma 2, lettera b), nonché i soggetti cui 
è affidata la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni 
patrimoniali degli enti locali, qualora separata dall’attività di erogazione dei 
servizi, non possono acquisire la gestione di servizi ulteriori ovvero in ambiti 
territoriali diversi, né svolgere servizi o attività per altri enti pubblici o 
privati, né direttamente, né tramite loro controllanti o altre società che siano 
da essi controllate o partecipate, né partecipando a gare. Il divieto di cui al 
primo periodo opera per tutta la durata della gestione e non si applica alle 
società quotate in mercati regolamentati e al socio selezionato ai sensi della 
lettera b) del comma 2. I soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali 
possono comunque concorrere su tutto il territorio nazionale alla prima gara 
successiva alla cessazione del servizio, svolta mediante procedura competitiva 
ad evidenza pubblica, avente ad oggetto i servizi da essi forniti (…)”. Il 
problema che da subito ha posto la lettura della norma è quello della 
operatività extraterritoriale delle società miste il cui socio privato sia stato 
scelto a seguito di una doppia gara, secondo quanto stabilito dalla decisione n. 
1/2008 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, poi trasfuso nel comma 2, 
lett. b), dell’articolo 23-bis del d.l. n. 112/08 e s.m. e 
integrazioni. Una prima interpretazione della norma propendeva per l’estensione 
del divieto di extraterritorialità alle società miste, per effetto del richiamo 
contenuto nel testo di legge al comma 2, lett. b), dell’articolo 23-bis della 
legge n. 133/08 e s. m. e integrazioni. Tuttavia, il T.a.r. calabrese, pur 
riconoscendo l’astratta condivisibilità di tale ricostruzione ermeneutica, ha 
preferito discostarsene. Il ragionamento svolto dai giudici reggini appare molto 
convincente e si fonda sull’assoluta simmetria tra la scelta del privato cui 
affidare la gestione di un servizio pubblico locale mediante gara (comma 2, 
lett. a), d.l. n. 112/08) e la scelta del partner privato del 
costituendo modulo societario misto, destinato a divenire “socio operativo”, 
anch’esso selezionato all’esito di una procedura di evidenza pubblica (comma 2, 
lett. b), d.l. n. 112/08)10. 
Infatti, secondo il collegio, un’interpretazione restrittiva del comma 9 
dell’articolo 23-bis “(…) seppure consentita dalla lettera della stessa, 
non può essere condivisa, giacché l’affidamento a società mista costituita con 
le modalità indicate dal comma 2, lett. b), dell’art. 23-bis si appalesa, 
ai fini della tutela della concorrenza e del mercato - del tutto equivalente a 
quello mediante pubblica gara, sicché risulterebbe irragionevole ed immotivata – 
anche alla luce dei principi dettati dall’Unione europea in materia di 
partenariato pubblico privato (v. Comunicazione interpretativa della Commissione 
sull'applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle 
concessioni ai partenariati pubblico – privati istituzionalizzati (PPPI) 
2008/C91/02 in G.U.U.E. del 12 aprile 2008) - l’applicazione nei confronti di 
società della specie del divieto di partecipazione alle gare bandite per 
l’affidamento di servizi diversi da quelli in esecuzione. Va dunque preferita 
l’interpretazione della disposizione – pure consentita dalla sua lettera – nel 
senso che il divieto in parola si applica solamente alle società che già 
gestiscono servizi pubblici locali a seguito di affidamento diretto o comunque a 
seguito di procedura non ad evidenza pubblica, con la precisazione che 
rientrano nel concetto di evidenza pubblica (“ovvero”) anche le forme previste 
dal comma 2, lett. b), dell’art. 23- bis., cit. (…)”. Si tratta di 
un’apertura della giurisprudenza molto importante che si allinea, peraltro, 
anche alla posizione ufficiale dell’Anci e che pare rispettosa dei principi 
comunitari di tutela della concorrenza e del divieto di disparità di 
trattamento. 
5.1. Il parere dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici n. 
3/2009
Il comma 9 dell’articolo 23-bis è stato oggetto di approfondimento anche da 
parte dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici con il parere n. 3/2009. 
L’Authority ha osservato come lo scopo del divieto contenuto nella norma 
sia quello di impedire che soggetti già titolari di affidamenti diretti e, 
dunque, di un rapporto privilegiato con l’ente pubblico, possano lucrare delle 
ulteriori rendite di posizione concorrendo in altri mercati, con chiaro 
vulnus al principio della libera concorrenza e della parità di trattamento. 
Secondo l’organo di vigilanza, inoltre, il divieto non troverebbe applicazione 
non solo nei confronti delle società non affidatarie in house, rispetto 
alle quali non è rinvenibile l’esercizio di una penetrante influenza da parte 
della P.a. sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni societarie, ma 
anche nei confronti delle società con partecipazione indiretta, atteso il 
controllo non penetrante esercitato dall’ente locale, in quanto mediato. Più in 
generale, il parere n. 3/2009 estende il divieto in discorso a tutte le società 
chiamate ad erogare servizi pubblici di rilevanza economica e, pertanto, anche 
alle società miste. E’ proprio questo l’aspetto più controverso affrontato 
dall’Autorità di vigilanza che, come cennato, viene risolto in modo 
completamente opposto rispetto alla giurisprudenza del T.a.r. Calabria n. 
561/2010, passata in rassegna nel paragrafo precedente. Anzi, il divieto di 
svolgere attività extraterritoriale viene ulteriormente dilatato al punto che 
l’organo di controllo finisce per disconoscere l’operatività extra moenia 
anche ai moduli societari misti indirettamente controllati dall’ente locale che 
erogano servizi strumentali al perseguimento di fini istituzionali dello stesso, 
ai sensi della legge n. 248/2006. Sul punto, giova ricordare che la 
giurisprudenza amministrativa ha cominciato ad elaborare una posizione 
sensibilmente diversa. Si pensi alla sentenza n. 36/2010 del T.a.r. del Lazio, 
Sezione di Roma11, 
che ha affermato che le società indirettamente partecipate dagli enti locali non 
sono soggette al divieto di svolgere attività extra moenia previsto dalla 
legge 248/2006. Se il divieto cade riguardo alle società a capitale interamente 
pubblico che erogano servizi strumentali ai fini istituzionali della P.a. 
controllante, a fortiori, il principio dovrebbe valere nei confronti 
delle società miste, ancorché controllate indirettamente, il cui partner 
privato sia stato scelto all’esito di una procedura di evidenza pubblica, cioè 
nel rispetto delle regole a tutela della concorrenza. Del resto, lo stesso 
legislatore, a meno che non si tratti di una svista, con l’articolo 48 della 
legge n. 99/2009 ha espunto dal comma 1 dell’articolo 13 della l. n. 248/2006 il 
termine “esclusivamente”, aprendo la strada alla possibilità che le società 
strumentali operino non solo nei confronti degli enti costituenti o partecipanti 
ma anche al di fuori degli angusti ambiti territoriali degli stessi12.
6. Considerazioni finali
La disciplina dei servizi pubblici locali si conferma, anche all’indomani del 
varo del regolamento di attuazione n. 168/2010, tutt’altro che immune da 
incertezze. Diversi i punti controversi finiti sotto la lente di ingrandimento. 
Si pensi alla soglia dei duecentomila euro, che rappresenta l’asticella al di 
sotto delle quale non è richiesto il parere dell’Agcom. A tal proposito, sarebbe 
stato meglio seguire il suggerimento fornito dal Consiglio di Stato che 
auspicava l’indispensabilità del parere solo per quei comuni con più di 
cinquantamila abitanti, qualora il valore dell’affidamento fosse superiore ai 
duecentomila euro annui. La soluzione fornita dal regolamento, infatti, rischia 
di ingolfare l’attività di controllo dell’Authority che si vedrà 
recapitare richieste di pareri, anche per affidamenti di servizi di modesta 
entità, da parte dei piccoli Comuni che costituiscono, notoriamente, l’ossatura 
dell’apparato amministrativo italiano, con conseguente rischio di scomparsa 
degli affidamenti in house. Lo stesso assoggettamento al patto di 
stabilità presenta non poche incertezze. Non è chiaro se le maglie dell’istituto 
in discorso riguardino le sole società in house, come previsto dalla 
lett. a) del comma 10 dell’articolo 23-bis ovvero anche le società 
miste, cui fa riferimento l’articolo 18, comma 2-bis, del d.l. n. 112/08 
e s. m. e integrazioni. La risposta dovrebbe essere fornita dall’emanando 
decreto interministeriale ma, in attesa del varo, il dubbio rimane. A questo si 
aggiunga che il testo definitivo dell’articolo 5 del regolamento di attuazione 
ha fortemente contratto l’incidenza del controllo degli enti locali 
sull’osservanza dei parametri fissati dal patto, dal momento che nella stesura 
definitiva del testo è scomparso ogni riferimento ad una qualsivoglia forma di 
responsabilità della parte pubblica chiamata ad esercitare i poteri di 
controllo. Altra questione aperta resta quella della possibilità o meno per i 
Comuni con meno di trentamila abitanti di poter costituire delle società 
pubbliche, a seguito dell’articolo 14, comma 32, della legge n. 122/2010. Come 
anticipato nel precedente paragrafo 4, l’espresso richiamo all’articolo 3, commi 
27, 28 e 29 della legge n. 244/2007, dovrebbe escludere l’applicabilità del 
divieto in merito alla costituzione di quei moduli societari chiamati a gestire 
servizi pubblici locali che, per loro stessa natura, sono finalizzati a 
soddisfare interessi di respiro generale. Il problema irrisolto rimane quello di 
individuare i soggetti economici che gestiscono servizi strumentali al 
raggiungimento dei fini istituzionali dell’ente che, tuttavia, non appaiono né 
necessari, né tampoco soddisfano interessi generali, la cui costituzione 
dovrebbe essere, pertanto, vietata. Sarebbe auspicabile, quindi, una maggiore 
chiarezza sul punto da parte del legislatore che, ancora una volta, sembra 
abdicare alle sue prerogative a beneficio del giudice amministrativo. Infine, la
vexata quaestio dell’extraterritorialità delle società miste. A fronte di 
una giurisprudenza che appare decisamente orientata ad aprire a tale 
possibilità, almeno per quanto concerne i moduli societari misti affidatari di 
un servizio pubblico di rilevanza economica, si assiste al colpevole silenzio 
del legislatore, capace di formulare una norma, il comma 9 dell’articolo 23-bis, 
in grado di generare incertezze interpretative come poche. In conclusione, si ha 
la sensazione che il regolamento di attuazione abbia finito, involontariamente, 
per amplificare le incongruenze presenti nella disciplina generale, aprendo 
nuove falle nel complesso universo dei servizi pubblici locali. 
 
* Professore di 
Organizzazione Aziendale presso l’Università degli Studi della Calabria e 
partner dello studio legale Cristofano, Guzzo & Associates.
 
1 Per una 
consultazione integrale del testo si rinvia a www.dirittodeiservizipubblici.it.
2 Il comma 1 dell’articolo 4 prevede che “(…) Gli affidamenti di 
servizi pubblici locali assumono rilevanza ai fini dell’espressione del parere 
di cui all’articolo 23-bis, comma 4, se il valore economico del servizio oggetto 
dell’affidamento supera la somma complessiva di 200.000,00 euro annui (…)”.
3 Per alcune considerazioni critiche in merito all’applicabilità 
del patto di stabilità alla società miste, si rinvia a G. Guzzo, Società miste e 
affidamenti in house. Nella più recente evoluzione legislativa e 
giurisprudenziale; Giuffrè Editore; 2009; pagg. 166 e ss.
4 S. Pozzoli, Una soluzione che confonde patto e bilancio; in 
IlSole24Ore, 2 agosto 2010.
5 S. Pozzoli, Una soluzione che confonde patto e bilancio; op. 
cit.
6 Sul tema si rinvia a G. Guzzo, Articolo 18 del DL 112 del 25 
giugno 2008 e principio di autonomia degli enti locali: dubbi ed incertezze; in 
www.dirittodeiservizipubblici.it; 2 luglio 2008.
7 La lettera f) del comma 3 dell’articolo 3 del regolamento 
stabilisce che il bando o la lettera di invito “(…) indica i criteri e le 
modalità per l’individuazione dei beni di cui all’articolo 10, comma 1, e per la 
determinazione dell’eventuale importo spettante al gestore al momento della 
scadenza o della cessazione anticipata della gestione ai sensi dell’articolo 10, 
comma 2 (…)”;
8 Sul punto si rinvia a G. Guzzo, Appalti pubblici. Disciplina, 
procedura e profili processuali; Giuffré Editore; 2010; pagg. 261-265. 
9 Per una consultazione integrale del testo della determinazione 
n. 103/2009, si rimanda al sito www.cortedeiconti.it 
10 In senso conforme G. Guzzo, Affidamenti in house: controllo 
analogo, extraterritorialità e lesione di interessi legittimi”, in 
www.lexitalia.it n. 7-8/2006; G. Guzzo, Legislazione, Corte di giustizia e 
società miste: ovverosia come perpetuare il “mito” dell’extraterritorialità e il 
dubbio “amletico” della cedibilità postuma delle quote societarie”; in 
Appalti&Contratti, n. 10/2009.
11 Per una consultazione integrale del testo si rimanda al sito 
www.giustizia-amministrativa.it. 
12 Sul punto si rinvia a G. Guzzo, Appalti pubblici. 
Disciplina, procedura e nuovi profili processuali; Giuffré Editore; 2010; cit.; 
pagg. 258-261. 
 
Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it 
il 28/10/2010