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Legislazione  Giurisprudenza

 


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Proprietà immobiliare e discipline di vincolo.

La norma urbanistica, le convenzioni, i vincoli di destinazione d’uso (*).

 

 

GUIDO ALPA,  MARIO BESSONE,  ANDREA FUSARO



La complessa dinamica dei rapporti tra autonomia privata e disciplina urbanistica ha trovato puntuale riscontro nelle pagine di Antonio Gambaro, In tema di deroghe e convenzionali alla disciplina urbanistica, apparse in Giur. it., 1977, IV, 81, che qui si trascrivono omesse le note.

1. Le rinunzie e le transazioni costituiscono, sul piano sostanziale, poiché le collusioni processuali aprono altre prospettive, l’ultimo rimedio a disposizione dei privati per regolare pattiziamente e in piena autonomia i propri interessi.


Se è tradizionale riconoscere il carattere di incertezza di questi istituti, occorre aggiungere che la loro posizione nell’intero sistema si fa più delicata allorquando declina il principio dell’autonomia negoziale e si assiste a un intervento dello ius publicum, a volte con finalità di protezione, a volte con la finalità di assicurare risultati determinati, ma sempre con l’effetto di restringere l’aera di libera disponibilità delle situazioni giuridiche che costituisce la loro base storica, e l’essenziale supporto della loro ratio.

 

Poiché la vita degli istituti giuridici non è regolata da leggi di implacabile coerenza, può accadere che l’asfissia dell’humus da cui sono sorti non comporti immediatamente il loro avvizzimento. Da qui la necessità di ricercare settore per settore, problema per problema, se al decadere dell’autonomia privata corrisponda anche una diminuita possibilità di ricorrere alle rinunzie e alle transazioni, o se invece non accada che questi istituti godendo di una permanente vitalità non assicurino alla stessa generica autonomia privata un campo di sfogo che altrove si vorrebbe restringere.


Recentemente tale vitalità è stata confermata dalla Suprema Corte in una materia anch’essa, e per virtù propria, assai delicata quale è quella dominata dalla disciplina pubblica dell’urbanistica e dell’edilizia.


I fatti che hanno dato origine alla controversia risolta dalla Cassazione paiono questi: in un accordo transattivo tra vicini, Tizio concede a Caio di costituire un edificio di un certo tipo. Sennonché il piano regolatore interdice l’edificazione di quel tipo  di costruzioni, e anzi, pare, vieta l’utilizzazione in senso edificatorio del terreno in questione. Tizio quindi conviene in giudizio Caio chiedendo il risarcimento del danno e il convenuto gli oppone la transazione.


A parte le questioni, evidentemente inammissibili, in tema di interpretazione del negozio transattivo, la Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi su un solo punto. Se sia valida o meno, inter partes, una convenzione derogativa della disciplina urbanistica.


La Suprema Corte ha risposto affermativamente e ha quindi sancito il definitivo rigetto della domanda di risarcimento dei danni.


Il ragionamento seguito dalla Corte è, almeno apparentemente, cartesiano. Asserisce infatti la Cassazione che le norme urbanistiche ed edilizie presentano una duplice natura; da un lato tutelano l’interesse pubblico a un ordinato sviluppo dei centri abitati, dall’altro l’interesse dei privati vicini al conseguimento dei reciproci vantaggi che la disciplina edilizia arreca ai proprietari.La tutela del primo interesse è affidata alla P.A. che vi provvede con strumenti e rimedi giuridici propri. La realizzazione del secondo è invece lasciata alle decisioni dei privati e poiché si tratta di un interesse di natura patrimoniale connesso alla valorizzazione di un bene, la sua tutela rientra perfettamente nel sistema del diritto privato.


Se il ragionamento della Corte si fosse arrestato a questo punto la conclusione sarebbe stata di una logicità impeccabile; una volta nettamente diviso il pubblico dal privato, diviene semplice constatazione che tra gli strumenti giuridici posti a disposizione dei privati per regolare i propri interessi vi sono anche le transazioni con tutto ciò che ne consegue.


Sennonché la Corte non ha potuto arrestarsi nel punto indicato perché una serie imponente di precedenti giurisprudenziali, alcuni dei quali sono citati in motivazione, testimonia contro l’esistenza di una perfetta incomunicabilità tra sfera pubblica e sfera privata. Per essere più precisi, si dirà che in una serie di sentenze la Corte di Cassazione ha deciso che le regole sulle distanze tra edifici sono connesse con l’interesse pubblico e di conseguenza inderogabili da parte dei privati.


Per giungere alla conclusione opposta la Corte ha dovuto quindi operare alcune distinzioni.


Nelle precedenti sentenze, ha detto la Cassazione, si è presa in considerazione l’ipotesi di norme edilizie concernenti le distanze tra edifici e si è concluso nel senso della loro inderogabilità, ma ciò si spiega perché in detta ipotesi il privato leso da altrui violazione può reagire con l’azione di riduzione in pristino, come dispone l’art. 872, c.c. Orbene, argomenta la Corte, se l’ordinamento giuridico arma il vicino leso con l’azione ripristinatoria ciò accade perché egli possa svolgere una funzione di interesse pubblico, vale a dire possa conferire piena e concreta attuazione al programma urbanistico stabilito dalla P.A.; di conseguenza, in questi casi, ius publicum privatorum pactis mutari non potest.


Ma è altresì noto, prosegue la Corte, che, quando si lamenti la violazione di regole edilizie diverse dalle distanze legali, come accade nel caso in esame, il rimedio che l’ordinamento accorda alla vittima è la sua azione di risarcimento dei danni. Ciò significa che in dette ipotesi l’attuazione concreta dell’interesse pubblico è sottratta alla sfera di potere conferita ai privati e rimangono logicamente in gioco interessi individuali di natura chiaramente patrimoniale con l’ulteriore conseguenza che questi sono liberamente disponibili dalle parti in causa.


2. Si può osservare che, rispetto ai precedenti indirizzi, il ragionamento sopra riassunto presenta novità rilevanti e ciò spiega probabilmente le conclusioni difformi del p.m.  Vediamo prima in che consista la novità segnalata; si discuterà poi se essa può approvarsi.


In passato la nostra giurisprudenza non ha affermato, sempre, che le regole edilizie concernenti le distanze tra edifici, in quanto tutelate dall’azione ripristinatoria, sono inderogabili; ha seguito un angolo visuale diverso, distinguendo l’ipotesi della distanza prescritta nell’art. 873, c.c. da quella dei distacchi tra edifici imposti dai regolamenti edilizi comunali.


Nella prima ipotesi la nostra giurisprudenza, sia pure con motivazioni insufficienti, ha preferito ritenere che la distanza di 3 metri tra un edificio e l’altro tuteli interessi eminenti privati e sia liberamente derogabile dalle parti, le quali possono consentire al vicino di costruire e di mantenere un edificio a distanza minore.


Quando invece i regolamenti edilizi stabiliscono una distanza maggiore, tale norma deve reputarsi inderogabile dato il precipuo scopo pubblicistico che promuove gli interventi della P.A.


Il fatto che queste due diverse soluzioni appaiono scaglionate nel tempo, vale a dire che a una prima serie di sentenze a favore della tesi della derogabilità ha fatto seguito una serie di sentenze che tengono per la conclusione opposta, appare spiegabile in base a una ragione di carattere storico.


È accaduto cioè che, all’incirca nell’ultimo quindicennio, i comuni hanno cominciato a far ricorso sempre più massiccio ai propri poteri di normazione in materia urbanistica prescrivendo sempre distanze tra edifici maggiori dei 3 metri richiesti dal c.c. Ciò naturalmente ha avuto come conseguenza che contrariamente a quanto accadde negli ultimi anni immediatamente posteriori all’emanazione del c.c., le controversie portate innanzi ai nostri tribunali concernessero la violazione di distanze tra edifici prescritte da regolamenti urbanistici ed edilizi e quindi il prevalere, sul piano statistico, della seconda soluzione rispetto alla prima.


Il criterio distintivo affermato dalla giurisprudenza per decidere se una data regola edilizia sia o meno derogabile è quindi di carattere formale basato sulla natura della fonte e non ha riguardo del tipo di rimedio predisposto dall’ordinamento di fronte all’eventuale violazione.


Si noti ora che il ricordato indirizzo giurisprudenziale non ha sempre trovato buona accoglienza presso la dottrina. Non sono mancate le critiche, anche vivaci, anche autorevoli.


Tuttavia, se non si erra, nessun autore ha anticipato la ratio decidendi ora accolta dalla Cassazione. I dissensi dottrinali hanno fatto leva invece sull’argomento che anche la distanza legale prevista nel c.c., ha precipuamente il fine di promuovere un interesse pubblico a evitare intercapedini nocive e quindi anche la regola codicistica deve reputarsi inderogabile.


Se l’accoppiamento tra carattere derogabile o inderogabile della norma violata e tipo di rimedio concesso, riduzione in pristino o risarcimento del danno, non è mai stato sino a ora proposto una ragione non può mancare.


La distinzione tra i due tipi di rimedi è oggi codificata dall’art. 872, c.c. e la giurisprudenza ha costantemente interpretato questa norma nel senso che la violazione delle disposizioni concernenti le distanze tra edifici, abbiano come propria fonte il c.c. o i regolamenti urbanistici, danno origine sempre alla riduzione in pristino, mentre di fronte alla violazione di tutte le altre disposizioni urbanistico-edilizie il rimedio concesso al privato vicino è solo il risarcimento del danno. A parte ovviamente la possibilità di chiedere l’annullamento della licenza edilizia di fronte ai tribunali amministrativi con tutto ciò che ne consegue.


È noto però che questa regola ha origini extralegali e più precisamente trae origine da un notevole indirizzo giurisprudenziale manifestatosi nella seconda metà del secolo scorso il quale riconobbe, pur nel silenzio dei testi normativi, una lesione del diritto soggettivo di proprietà in tutte le violazioni urbanistico-edilizie che arrecassero pregiudizio ai vicini.


La tesi centrale che sostenne questo indirizzo è da ricercarsi nell’affermazione che i regolamenti amministrativi sono insieme limite e misura della proprietà di ciascuno e quindi chi li ha rispettati ha diritto di reagire contro le violazioni altrui.


È altresì noto che questa tesi non piacque alla dottrina, che la criticò severamente per la «violazione» che essa consumava della summa divisio tra diritto privato e diritto pubblico. Sul piano storico la vicenda produsse una soluzione di compromesso.

 

La giurisprudenza fu indotta a decidere che solo la violazione delle regole, allora sempre di origine amministrativa, concernenti le distanze legali costituiva una lesione del diritto di proprietà (del vicino) cui corrispondeva il rimedio tipico posto a tutela delle situazioni reali, vale a dire l’azione ripristinatoria.


Sul piano dell’origine storica è quindi indubbio che il collegamento istituito dalla nostra giurisprudenza è stato quello tra situazione proprietaria e azione reale, non quello tra azione ripristinatoria e intensità della convergenza tra interesse pubblico e interesse privato, come ora afferma la Cassazione.


3. Così delineate le novità introdotte dalla Corte con la sentenza in esame, si può trascorrere a una loro valutazione.


Ha sostenuto in sostanza la Corte che quando al privato è concessa l’azione reale allora si giustifica la disponibilità della situazione sostanziale perché in tal modo si mantiene cogentemente in vita un potere privato idoneo ad assicurare il conseguimento di un interesse pubblico. Poiché tale risultato è escluso a priori nell’ipotesi in cui il privato possa ottenere il solo risarcimento del danno, allora «l’astuzia dell’ordinamento» non appare più giustificata e quindi il diritto torna a essere liberamente disponibile da parte del suo titolare.


In questo argomentare mancano alcuni passaggi essenziali. Non è affatto dimostrato che l’attuazione dell’interesse pubblico richieda sempre l’abbattimento dell’edificio illegittimamente costruito.


Può concedersi che l’ordine urbanistico è efficacemente tutelato solo mediante la demolizione delle opere illegittime, ma non può negarsi che l’interesse pubblico nel suo complesso deve tenere conto anche di altri fattori. In ogni caso è certo che l’attuale disciplina urbanistica non prescrive obbligatoriamente l’abbattimento neppure di fronte alle violazioni più gravi. L’amministrazione competente ha sempre la facoltà di infliggere al trasgressore una sanzione pecuniaria in luogo dell’abbattimento.


Di fronte a questa normativa si potrebbe anzi fondatamente dubitare che il privato sia forzato a chiedere l’abbattimento della illegittima costruzione del vicino, tanto più che questo obiettivo potrebbe sfuggirgli qualora la P.A. rifiuti il necessario permesso di demolizione.


Se così è, peraltro la vera coincidenza tra i rimedi privatistici di fronte all’altrui violazione edilizia e l’interesse pubblico all’attuazione del programma urbanistico risiede nella loro funzione deterrente verso i potenziali violatori. Funzione che può ritenersi comune a entrambi i rimedi.


Naturalmente tra la riduzione in pristino e il mero risarcimento del danno permane, anche sotto questo profilo, una differenza quantitativa, ma, appunto, non è possibile introdurre una distinzione d’altro tipo. Né ciò sarebbe opportuno.


Tra i rimproveri che possono muoversi al sistema attuale vi è quello di proteggere un interesse prevalentemente privato, quale è quello al rispetto delle distanze tra edifici in forme più intense in confronto alla tutela dell’interesse, prevalentemente generale, sorgente dalle altre prescrizioni urbanistiche. Rafforzare questa anormale distribuzione dei rimedi rendendo indisponibile il primo e non il secondo pare un perseverare su una strada sbagliata.


4. In realtà il problema, non facile, che la Corte era chiamata a decidere consisteva in questo. Posto che il risarcimento del danno imposto al violatore di norme edilizie e urbanistiche a favore del vicino tende, anche, a scoraggiare simili comportamenti ci si può chiedere se l’interesse pubblico richieda che questa funzione deterrente della norma sia conservata.


Di fronte a questo interrogativo si potrebbero avanzare due risposte, confliggenti e radicali. La prima risposta è negativa e, sommariamente, potrebbe essere così sostenuta. Le leggi vigenti non costringono il privato vicino, titolare del diritto al risarcimento a esercitare l’azione e sul piano di fatto l’inerzia ottiene gli stessi effetti della rinunzia perché nel nostro ordinamento il suo diritto si prescrive. Sarebbe quindi incongruo fulminare con la nullità un atto in cui il risultato ultimo i privati possono sempre conseguire attraverso certi comportamenti perfettamente leciti.


Un ragionamento così formulato avrebbe certamente una sua logica e tuttavia non potrebbe essere approvato in modo assoluto perché occorrerebbe almeno distinguere tra le rinunzie al risarcimento del danno posteriori e anteriori all’evento dannoso. Quelle posteriori non danno adito ad alcun problema e la loro validità è indiscussa.

 
Le rinunzie preventive fanno sorgere problemi più delicati. In primo luogo non sono poche le rinunzie preventive, espressamente invalidate dal legislatore e questo dato basterebbe a smentire una protesta assolutezza della affermazione iniziale.


In secondo luogo e principalmente occorre sempre che il bene della vita esposta al pregiudizio per cui si rinunzia preventivamente a chiedere il risarcimento sia disponibile.


In questi modi, peraltro, il ragionamento seguito, anziché condurre a una soluzione, fa ritornare il problema al punto di partenza. Una seconda risposta del pari assoluta, ma di contenuto opposto potrebbe far leva sul principio che i patti di esonero preventivo da responsabilità aquiliana – come quello previsto nel caso di specie – sono tutti nulli in quanto contrari a norme di ordine pubblico. È questa come è noto una teorica diffusa in Francia e nella trattatistica italiana meno recente. Ma è del pari notorio che nella dottrina questo principio appare da tempo superato.


Si noti però che i nostri autori ammettono la validità di patti di esonero della responsabilità extra contrattuale nei limiti in cui questa non sia originata da dolo o colpa grave dell’autore del danno, applicando per analogia l’art. 1229 c.c. È chiaro che questa limitazione ripartirebbe immediatamente l’ipotesi esaminata dalla Cassazione nel campo delle convenzioni nulle.


L’apparenza però sarebbe fallace perché il principio condiviso dalla dottrina non deve essere riferito a tutte le ipotesi di esonero preventivo della responsabilità aquiliana, ma solo a quelle che corrispondono a un contratto aleatorio (innominato) simile al contratto di assicurazione che contempli il trasferimento del rischio dal probabile danneggiante alla probabile vittima. Non può invece essere riferito a quei patti di esonero che corrispondono per es. alla costituzione di una servitù.


Questa constatazione non ci fa ancora uscire da problema perché la possibilità di costituire una servitù contraria alle disposizioni di piano attraverso un negozio indiretto può suscitare pesanti dubbi. A ben vedere peraltro i dubbi in questione sottintendono il quesito fondamentale che concerne la possibilità delle parti di derogare, in peius, alle disposizioni contenute nel piano urbanistico. Il che è un altro modo per formulare lo stesso interrogativo da cui si erano prese le mosse e a cui si era già tornati seguendo la traccia precedente.


5. «I giri dell’oca» compiuti possono servire al escludere che la soluzione del problema affrontata dalla Cassazione possa ricavarsi dalla natura della sanzione prevista a favore dei vicini privati per violazione di norme urbanistiche. In realtà il vero punto del decidere consiste nello stabilire se il proprietario privato possa disporre di quella frazione del suo diritto che consiste nella possibilità di chiedere il risarcimento del danno contro colui che turbi l’assetto urbanistico in cui il suo immobile è inserito. Si faccia attenzione che il problema sorge solo per le rinunzie al risarcimento del danno preventivo ed è comune anche alle ipotesi in cui il proprietario è armato dell’azione ripristinatoria.


Si è già ricordato che in passato la stessa Cassazione giudicando in tema di distanze legali, ha operato una distinzione tra le distanze previste nell’art. 873 e quelle previste da altri strumenti urbanistici. Secondo la Cassazione la prima norma è diretta esclusivamente a tutelare i reciproci diritti soggettivi dei singoli frontisti mentre le distanze imposte dai piani regolatori sono rivolte a evitare che determinate zone cittadine siano densamente costruite e a consentire il sorgere di zone esteticamente apprezzabili e riposanti, di conseguenza trascendono l’interesse privato tutelando invece un interesse generale in materia urbanistica.

 

Tali argomenti non possono essere condivisi.
Anche le distanze legali previste nell’art. 873, tutelano tanto poco un interesse esclusivamente privato che i comuni possono legittimamente rifiutare una licenza edilizia a chi intenda violarle. I sindaci debbono vigilare perché tale distanza minima inderogabile da parte dei regolamenti comunali, sia rispettata adottando tutte le misure del caso. Non basta: anche i privati possono sfruttare la coincidenza tra l’interesse proprio e quello pubblico e chiedere l’annullamento della legge edilizia ottenuta dal violatore innanzi ai tribunali amministrativi.


Per quanto riguarda l’ipotesi opposta basterà ricordare che anche di fronte a norme rivolte a tutelare un interesse pubblico il privato vicino non perde la propria azione civilistica.


Gli è che la distinzione tra sfera privata-proprietaria e sfera pubblica-urbanistica pur contraddetta dal sistema normativo è radicata a livello teorico e influenza quindi le decisioni giurisprudenziali.


Tuttavia se si vuole ricostruire una disciplina unitaria occorre premettere che non vi è alcuna possibilità di suddividere la difesa dell’ordine stabilito dal piano, dalla difesa della proprietà. Non solo esistono, come è ormai indubitabile, norme che tutelano insieme l’uno e l’altro ma esistono anche alcuni rimedi giuridici che svolgono entrambe le funzioni. In particolare alcune forme di tutela della posizione proprietaria, alcune prerogative private, anche di tipo tradizionale si trovano talvolta in coincidenza con l’interesse generale. Il fenomeno non è affatto nuovo. Cospicui precedenti storici ci avvertono che assai spesso diritti e azioni private sono state creati o riveduti dall’ordinamento giuridico per promuovere direttamente la realizzazione di un interesse pubblico. Sarebbe però vano attendersi che tali diritti e azioni non subiscano in tali circostanze una certa metamorfosi, che rimangano cioè diritti perfettamente privati nel senso tradizionale del termine.

 

L’ipotesi più ovvia che si può immaginare è invece che siano sottratti alla perfetta disponibilità del singolo e che siano invalide le rinunzie a esercitare quei diritti con cui i privati promuovono direttamente un interesse pubblico. Così è anche nel caso in esame. Le norme urbanistiche non costituiscono solo una serie di limiti per le proprietà private, ma creano anche nuovi diritti a favore dei proprietari, primo fra tutti quello al rispetto dell’armonia tra le varie proprietà che il piano urbanistico ha creato. Questo è certamente un diritto proprietario, ma altrettanto certamente è condizionato alla sua origine dal piano stabilito dalla P.A. Più in generale è condizionato a una diretta e immediata coincidenza tra interesse privato e interesse pubblico.


6. Se questo si è detto nel paragrafo precedente è vero allora il principio enunciato nella decisione in questione è errato. Non si può però ancora concludere che sia errata anche la decisione del caso di specie.


Se infatti le rinunzie preventive a chiedere il risarcimento del danno contro i violatori delle norme urbanistiche sono generalmente invalide per le ragioni sopra elencate, ciò non significa ancora che il diritto al risarcimento non possa mai perdersi.


Il caso di specie suggerisce per es. l’ipotesi del legame di complicità tra la vittima e il danneggiante anche se in motivazione non vi sono elementi per decidere se tale legame di fatto esistesse.


L’ipotesi che si vuole introdurre sarà meglio chiarita da alcuni esempi; ma intanto sarà bene enunciare che essa concerne gli effetti – divergenti rispetto alla volontà delle parti – dei negozi nulli. Se Tizio vende a Caio, con atto nullo per vizio di forma, un vecchio stabile affinché questo venga demolito e rimpiazzato da un nuovo edificio, può una volta effettuata la demolizione, far vale insieme alla nullità dell’atto il suo diritto al risarcimento
del danno per la distruzione della cosa di sua proprietà?
La risposta dovrebbe essere negativa perché il consenso prestato per la vendita se non vale a operare il trasferimento, vale però come consenso dell’avente diritto alla distruzione della cosa.

Si immagini ora che il vecchio edificio fosse vincolato ai sensi della legge sulla tutela dei monumenti storici e che non di meno Tizio abbia conferito a Caio l’appalto per demolizione. Ambedue incorreranno, si spera, nei rigori della legge e il contratto
sarà sicuramente nullo. Ma, di nuovo, potrà Tizio proprietario dell’edificio far valere insieme alla nullità del contratto e il suo diritto al risarcimento del danno per i guasti provocati dal demolitore allo storico edificio?
Questa ipotesi è più delicata della precedente perché chiaramente non si potrà invocare il consenso dell’avente diritto che in questo caso manca. Eppure anche in questo caso di fronte alla domanda che ci si è posta parrebbe più giustificata una risposta negativa, perché non si può ammettere che uno dei due chieda all’altro il risarcimento dei danni che ha subito durante lo svolgimento della comune attività illecita.
Invero in questo caso la domanda di risarcimento del danno sarebbe paralizzata sia dal principio che impedisce all’interessato di venire contra factum proprium sia dalla regola del nemo auditur. L’ipotesi del legame di complicità non è da trascurarsi perché in materia edilizia e urbanistica può presentarsi con una certa frequenza. Affinché sussista occorrerà che chi ha rinunciato preventivamente al risarcimento del danno avesse un interesse all’altrui violazione diverso dal corrispettivo pecuniario che ha ricevuto per la rinuncia. È chiaro infine che tale legame inibente l’azione di risarcimento non si trasmette agli aventi causa del rinunziante-complice.


Il discorso non può prescindere dagli orientamenti della Corte di  Cassazione in tema di effetti dei vincoli alla destinazione dei beni  impressi dalle convenzioni urbanistiche.


Svolgimento del processo.

 

Con atto di citazione del 17.2.1981 la cooperativa edilizia Garden House 2000 s.r.l. con sede in Bari, conveniva davanti al tribunale locale il Comune di Bari per sentire dichiarare la nullità, e in subordine ridurre, a equità, ai sensi, dell’art. 1468 c.c. l’obbligazione assunta dalla sua dante causa (s.p.a. Cea) verso il Comune di Bari con l’art. 13 della convenzione di lottizzazione (atto per notaio Cerasi del 13.7.1973) con cui detta società si era impegnata a cedere gratuitamente al comune stesso il piano terra del lotto sito a est, unitamente al suolo circostante, per essere destinato a scuola materna, risultando la prestazione rispetto alla previsione originaria esorbitante, stante il valore attuale dell’immobile da cedere gratuitamente (di oltre seicento milioni).
Sosteneva l’attrice che tale causa era nulla trattandosi, di una «promessa di donazione », ovvero di «donazione di cosa futura».
Il Comune di Bari contestava la domanda assumendo che la cessione della porzione di immobile da adibire a scuola materna non poteva qualificarsi come atto di liberalità, rappresentando il corrispettivo della prestazione dell’altro contraente che concedeva la lottizzazione; né era ipotizzabile al riguardo, una situazione di eccessiva onerosità.
In via riconvenzionale il comune chiedeva che venisse pronunciata sentenza costitutiva che trasferisse a suo favore la porzione di immobile contemplata nella suddetta clausola.
Il tribunale adito, con sent. 23.2/24.3.1983, riteneva che nella specie non era stato posto in essere alcun atto di liberalità costituendo la cessione della proprietà al comune onere e condizione della concessione di lottizzazione assolutamente legittima.

Rigettava, pertanto, la domanda della cooperativa accogliendo quella riconvenzionale del comune.
A seguito di gravame del soccombente la Corte d’Appello di Bari confermava la pronuncia dei primi giudici.
Considerava il collegio: che la società appellante aveva riproposto la tesi della nullità della clausola 13 della convenzione in quanto si sarebbe trattato di promessa di donazione, per di più di beni futuri, non consentita dalla legge. Tale tesi andava, peraltro, disattesa poiché le convenzioni urbanistiche di lottizzazione, per la parte riguardante l’obbligo del privato di concorrere alla realizzazione delle infrastrutture sociali, non sono inquadrabili nel modello negoziale della donazione, in quanto l’autorizzazione alla lottizzazione dei terreni a scopo edilizio è subordinata alla concessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria e all’assunzione da parte dei privati medesimi degli oneri relativi a tali opere. Specificatamente in correlazione alla ricordata clausola, il lottizzatore aveva offerto garanzia per la costruzione e cessione gratuita al comune dei locali da destinare a scuola materna (mediante polizza assicurativa), dovendosi con certezza inquadrare gli adempimenti di cui alla ripetuta clausola 13 fra gli oneri di urbanizzazione imposti dalla legge ai privati.
Tale riconducibilità dell’adempimento di tale clausola alla categoria degli oneri di urbanizzazione veniva contestata dal comune mutando sostanzialmente il tema della controversia rispetto all’impostazione della causa davanti al tribunale (che faceva leva esclusivamente sul carattere di liberalità dell’impegno assunto); tuttavia, rispetto alla novità della domanda prevaleva la rilevabilità d’ufficio della dedotta nullità, da ritenere, però, inesistente.
In effetti ai sensi dell’art. 44 l. 22.10.1971, n. 865, che ha integrato l’art. 4 l. 29.9.1964, n. 847, anche le scuole materne rientrano nel novero delle opere di urbanizzazione;
e specificatamente il Comune di Bari nel fissare (con delibera 13.11.1967, n. 895) i criteri di massima da osservarsi nelle convenzioni per la lottizzazione stabilì che il proprietario lottizzante, al momento della convenzione avrebbe dovuto cedere al comune le aree necessarie per le opere di urbanizzazione, primarie e secondarie.
Nella specie, con la convenzione in esame, la Cea, dante causa della Garden House non soltanto si era obbligata a cedere gratuitamente al comune le aree destinate a strade, viali, parcheggi e verde, menzionate nelle clausole da 6 a 11, ma, avrebbe dovuto anche cedere gratuitamente l’area da destinare alla costruzione della scuola materna, sennonché i contraenti, nell’esplicazione della loro autonomia negoziale, ritennero che anziché cedere l’area di lottizzazione potesse utilizzarla a scopo edificatorio, trasferendo al comune parte dell’edificio così realizzato da destinare a scuola materna; non aveva perciò errato il tribunale, ritenendo che in tal modo le parti contraenti avessero conseguito reciproci vantaggi, consistenti per la Cea nella realizzazione di ulteriori unità abitative e per il comune nella realizzazione della scuola già costruita, anziché disporre dell’area da destinare a costruzione.
Non apparivano pertinenti le richiamate sentenze della Cassazione poiché altra cosa è condizionare illegittimamente la licenza edilizia all’obbligo di cedere gratuitamente al comune parte dei locali compresi nel fabbricato cui detta licenza si riferisce (cfr. sent. 305/81, Foro it. Rep., 1981, voce Edilizia e urbanistica nn., 346, 534), altro imporre prestazioni al privato all’atto della convenzione di lottizzazione con riguardo alle opere di urbanizzazione.
Contro la riassunta sentenza la s.r.l. cooperativa Garden House ha presentato ricorso per cassazione fondato su unico complesso motivo. Denunciando l’erronea applicazione dell’art. 7 l. 6.8.1967, n. 765 e dei principi in materia di lottizzazione in base a convenzione edilizia; l’illogica e contraddittoria motivazione della convenzione 13.7.1973 e l’omesso esame di punti decisivi della causa, si lamenta che la Corte d’App. abbia escluso la nullità della clausola per contrarietà ai principi sulla lottizzazione, in quanto ai sensi dell’art. 44 l. 865/1971 anche le scuole materne rientrano nel novero delle opere di urbanizzazione. Ritiene il ricorrente che non è tanto in questione il carattere di opera di urbanizzazione secondaria della scuola in quanto tale, ma la peculiarità dello strumento posto in essere con la specifica clausola considerata, mediante la quale il lottizzatore non si obbliga a conferire (fra le altre) anche un’area da destinare a scuola, ma assume un’obbligazione a hoc che si colloca accanto alla convenzione urbanistica vera e propria, ormai delineata in tutte le sue componenti. Viene previsto l’obbligo della società costruttrice di trasferire gratuitamente al comune tutto il piano terreno del costruendo edificio, da realizzare sotto la direzione dell’ufficio tecnico del comune nel temine di tre anni alla stregua del progetto con annesso disciplinare, approvati dall’ufficio. Si sostiene che in relazione ai particolari rilevanti non contemplati dalla clausola, questa non poteva riferirsi alle opere di urbanizzazione che si limitano alla messa a disposizione di aree e al contributo alle spese, ma non contemplano l’obbligo di effettuare costruzioni sotto la direzione del comune, ovvero di cedere parte della effettuata costruzione.

Al massimo si sarebbe potuto richiedere al lottizzatore di concorrere nella spesa di costruzione di detta scuola. Resiste, con controricorso illustrato da memoria, il Comune di Bari. Anche la ricorrente cooperativa ha presentato memoria illustrativa.


Motivi della decisione


1. La materia del contendere attiene all’interpretazione della clausola 13 della convenzione di lottizzazione 13.7.1973 con la quale la s.p.a. Cea si impegnava a cedere gratuitamente al Comune di Bari il piano terra del lotto sito a est unitamente al suolo circostante per essere destinato a scuola materna, sostenendo la nullità della clausola medesima trattandosi di una «promessa di donazione», ovvero di «donazione di cosa futura».


Sia il tribunale che la Corte d’Appello hanno disatteso tale assunto, inquadrando l’obbligo assunto dal lottizzatore fra gli oneri di urbanizzazione imposti dalla legge ai privati dato che, ai sensi dell’art. 14 l. 865/1971, che ha integrato l’art. 4 l. 29.9.1964, n. 847, anche le scuole materne si inquadrano fra le opere di urbanizzazione.

 

In questa sede di legittimità non si discute più dell’originario profilo di nullità dedotto, ma nella tesi introdotta per la prima volta in appello, e presa egualmente in esame dalla Corte per la prevalenza della rilevabilità di ufficio dei motivi di nullità, della correttezza della conclusione che ha portato il giudice di merito a inquadrare la clausola considerata fra gli oneri di urbanizzazione.


Con l’unico, complesso motivo si addebita alla decisione impugnata l’erronea applicazione dell’art. 8 l. 6.8.1967, n. 768 e dei principi in materia di lottizzazioni in base a convenzione edilizia; l’illogica e contraddittoria interpretazione della convenzione; l’omesso esame di punti decisivi. Si sostiene al riguardo che la clausola 13 considerata avrebbe autonomo rilievo, risultante fonte di un obbligo privo di causa e comunque nulla per violazione delle norme suddette in materia di lottizzazione urbanistica.


2. Il ricorso non è fondato e va respinto.
Occorre muovere dalla nozione di convenzione edilizia che, come esattamente mette in luce il ricorrente, si presenta quale strumento di diritto privato posto in essere dal lottizzatore e dal comune i quali, in posizione di parità provvedono alla realizzazione di una pluralità di edifici residenziali, turistici, industriali, predisponendo le opere di urbanizzazione occorrenti per le necessità primarie o secondarie dell’insediamento, ferma restando, al di fuori della convenzione paritetica, la posizione di supremazia di cui il comune è investito in materia urbanistica per quanto riguarda la revoca dell’autorizzazione a lottizzare od il diniego delle relative concessioni edilizie, senza che il privato, titolare di un mero interesse legittimo all’esecuzione della lottizzazione e alla edificazione, possa chiedere al giudice ordinario la condanna al risarcimento del danno (Cass. 817/72, Id., Rep., 1972, voce cit., nn. 95, 99, e voce Espropriazione per p.i., n. 69; 2702/75, Id., Rep., 1975, voce Sepolcro, n. 2; 1614/80, Id, Rep., 1980, voce Edilizia e urbanistica, n. 463).


Va dato atto che nella tipologia espressa dalla esperienza giuridica nelle convenzioni siffatte normalmente si stabilisce la cessione gratuita di un terreno al comune onde consentirgli la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e di ottenere la licenza (ora: autorizzazione o concessione) per la costruzione da effettuare su suolo contiguo.


La giurisprudenza, peraltro, ha messo in luce che nella convenzione di lottizzazione possono essere inseriti, nell’ambito dell’autonomia negoziale che la caratterizza, disposizioni liberamente elaborate quale espressione di quella autonomia, purché non contrasti con la funzione propria della convenzione medesima. Non sembra perciò determinante il rilievo che nella legislazione urbanistica non sia previsto espressamente il potere del comune di imporre al privato non la semplice cessione dell’area da destinare a opera pubblica di urbanizzazione, ma addirittura la ostruzione dell’opera stessa, contrassegnata dal vincolo di destinazione alla funzione convenzionalmente indicata. Così, per es., è stata ritenuta legittima l’assunzione verso il comune da parte di un privato proprietario di un’area edificabile, dell’impegno di realizzare la rete di distribuzione della energia elettrica (Cass. 6178/84, Id., Rep., 1981, voce cit., n. 500, 3723/79, Id., Rep. 1979, voce Energia elettrica, n. 97).

 

Nella convenzione urbanistica la convergenza di profili pubblicistici e privatistici si manifesta, fra l’altro, anche nel senso che l’impegno dei privati di eseguire opere di urbanizzazione, allorché sia stato assunto validamente ed efficacemente, implica l’individuazione della natura, qualità e ubicazione di tale opere, la quale produce, sul piano della disciplina urbanistica dei suoi effetti equipollenti a quelli derivanti dalla pianificazione urbanistica cosiddetta di attuazione. Viene, pertanto, in rilievo l’effetto giuridico rappresentato dall’operata individuazione che si pone a monte della costituzione dell’obbligo.


Sulla sottolineatura di tale effetto giuridico consistente nella individuazione dei modi d’uso dei beni su cui le parti si sono proposte di contrattare e hanno contrattato che si colloca cronologicamente e giuridicamente prima della produzione degli effetti tipicamente contrattuali (prima, cioè della costituzione e modificazione, estinzione, trasferimento di rapporti giuridici patrimoniali), la qualificata difesa del comune resistente sviluppando spunti già adombrati nel controricorso e nella memoria.


Le svolte notazioni incontrano l’avallo del collegio poiché consentono, in coerenza con la fondamentale funzione nomofilattica di questa Corte, l’inquadramento appagante della problematica cui dà luogo la presente causa che risulterebbe appiattita, o peggio elusa, dallo svolgimento di un discorso meramente agganciato ai profili dell’insindacabilità delle (corrette) interpretazioni negoziali compiute dal giudice di merito, mentre la messa in evidenza della funzione della clausola di destinazione a opera pubblica, connotando sin dall’inizio quell’opera come oggetto del negozio, appare determinante sia per incentrare correttamente il procedimento interpretativo, sia per escludere che la tutela concessa al lottizzatore possa comportare la rimozione di tale destinazione.


3. La funzione del contratto come atto, e in particolare come fattispecie (titolo) delle vicende circolatorie, è stata messa in luce dalla migliore dottrina, oltre gli schemi recepiti nella commuis opinio degli operatori giuridici della contrapposizione di effetto negoziale ed effetto finale dell’atto di autonomia privata.


In quest’ottica si è potuto enucleare un denominatore comune nella rilevanza e funzione dell’atto di individuazione nella vendita di genere, dell’atto di destinazione a pertinenza nell’alienazione della cosa principale, dell’atto di destinazione unitaria nell’alienazione di una universalità di mobili, della destinazione del padre di famiglia nella vicenda in base alla quale due fondi cessano di appartenere allo stesso proprietario. E tale elemento comune va ravvisato nella rilevanza che la legge assegna nell’atto di destinazione economica quale elemento integrativo della vicenda circolatoria nel senso che, prima ancora che si produca l’effetto contrattuale, traslativo, o costitutivo, attuandosi una vicenda relativa ai rapporti negoziali fra le parti (ed anzi proprio per renderla giuridicamente possibile) si determina un altro effetto giuridico consistente appunto nella rilevanza della destinazione economica che è stata impressa al bene. Invero, la vendita di cosa determinata solo nel genere non può produrre il suo effetto traslativo se prima non è avvenuta l’individuazione;
l’alienazione della cosa principale non può realizzare il trasferimento della proprietà della pertinenza se prima non è avvenuta la destinazione di una cosa al servizio o all’ornamento della cosa principale; l’alienazione di una universalità di mobili non può avvenire nella sua globalità uno actu se prima non si è operata la destinazione unitaria di più cose; l’atto in base al quale due fondi vengono ad appartenere a due proprietari diversi non può costituire a favore e contro ciascuno di essi la servitù se prima non è stata realizzata fra di essi l’organizzazione produttiva corrispondente.


Anche manifestazioni negoziali dell’autonomia privata producono analogo ordine di effetti. Basti pensare alle clausole dei regolamenti di condomini o con le quali si destinano a determinati servizi comuni parti dell’edificio, ovvero si impongono vincoli positivi o negativi di determinate destinazioni d’uso alle proprietà individuali (negando, per es., la destinazione a gabinetto radiologico, a sede di gruppi, a uso di ufficio, di piani o di porzioni di piano dell’edificio condominiale).

 

Con l’avvento di condomini orizzontali è parso invero impraticabile l’ipotesi ricostruttiva della obbligatio propter rem, che voleva far salvo a tutti i costi il principio del numerus clausus dei diritti reali aprioristicamente ipostatizzato. Ai fini dell’indagine, necessariamente succinta, che vuole tendere all’individuazione di un ubi consistam concettuale sufficientemente appagante per orientare la decisione della causa, basta osservare che tanto in dottrina quanto in giurisprudenza (ed è quel che più conta per agevolare lo svolgimento del discorso intrapreso)si ammette ormai da molti anni che il profilo dell’obbligazione, sia come effetto, sia come situazione fra i proprietari interessati è un posterius rispetto a un altro ordine di effetti che i regolamenti di condominio (orizzontale o verticale) determinano e designano con denominazione non omogenee, volta a volta come «oneri reali», ovvero come «servitù reciproche», o infine con espressione più vicina al problema in esame, come «vincoli di destinazione». Orbene, al riguardo, nonostante la non uniformità onomastica, la communis opinio riconosce che si tratta di vincoli reali opponibili ai terzi se l’atto è stato trascritto.


Già del resto sotto la vigenza del c.c. del 1865 i proprietari interessati all’uso di acque non pubbliche, potevano in base a convenzioni, determinare la destinazione d’uso; e oggi l’art. 912 c.c. impone al giudice di valutare l’interesse dei proprietari nei loro rapporti e anche il tempo può fungere da criterio di determinazione (si pensi ai patti di godimento turnario del bene e, con specifico riferimento a un istituto di moda, alla c.d. multiproprietà che si basa sull’efficacia e opponibilità dei patti che si determinano il tempo di godimento degli appartamenti in residence nei luoghi di villeggiatura).


L’obbligazione di destinazione o non destinazione (o relativa ai turni di godimento del bene) intanto viene in evidenza e può spiegare i suoi effetti in quanto prima (e si tratta di un prius non solo cronologico, ma attinente allo spiegarsi di un effetto giuridico prodromico) si è prodotto un effetto peculiare e caratteristico della convenzione consistito nella individuazione, per il bene considerato, di una specifica destinazione economica, sicché dopo che tale destinazione si è prodotta i beni circolano portando impresso il vincolo che dalla destinazione deriva.4. Alla stregua delle svolte considerazioni l’impegno dei privati di eseguire opere di urbanizzazione, con o senza cessione di aree, va considerato e qualificato nei suoi effetti giuridici attinenti alla destinazione dei beni che ne formano oggetto, essendo giuridicamente consentito che l’autonomia privata – nel caso di specie combinata e rafforzata dall’autonomia dell’ente pubblico – incida su beni futuri.

 

È possibile, cioè, che in base ad atti negoziali si produca immediatamente l’effetto di determinare la destinazione economica di un bene futuro, di modo che, quando il bene viene a esistenza, porta su di sé impressa quella destinazione. Ciò risulta chiaro allorché «l’impegno dei privati di eseguire opere di urbanizzazione » riguardi, per riprendere l’esempio cui si è riferita la difesa del comune, un impianto fognante od una strada residenziale. Ciò che verrà a esistenza non è una conduttura, da destinare con apposito atto a impianto fognante. Ovvero una striscia di terreno, delimitata ai bordi e rinforzata nella superficie, da destinare a strada, bensì proprio l’impianto fognante ovvero la strada residenziale descritti nella convenzione originaria, che ha prodotto immediatamente il suo effetto determinativo della conduttura e del luogo, sopra o sotto il suolo, ove sono ubicate le opere di urbanizzazione.


Allo stesso modo, e con gli stessi effetti, nel condominio orizzontale vengono determinati i beni costituenti piscina e/o campi da tennis di proprietà comune prima ancora che siano realizzati, vengono individuati i beni di utilità circolare prima che siano costruiti i residence della multiproprietà, e così via.


L’unico limite dell’autonomia negoziale dei privati, in tal senso esplicita, non è costituito dalla necessità di salvaguardare il principio del cosiddetto numero chiuso dei diritti reali, ma dalla gamma di utilità che l’ordinamento attribuisce ai beni, all’interno della quale può avvenire una destinazione convenzionale.


Si dovrebbe, perciò, ritenere sicuramente invalida e priva di effetti una convenzione con cui si pretendesse di individuare e determinare un tipo d’uso in violazione della disciplina dei beni (per es., utilizzare a uso di ufficio appartamenti destinati giuridicamente ad abitazione o viceversa; sfruttare a uso edilizio terreni destinati giuridicamente all’uso agricolo, o viceversa, impiegare per usi incompatibili con la disciplina antinquinamento delle acque risorse idriche destinate giuridicamente all’agricoltura, all’industria o ai consumi civili.


All’interno, però, delle destinazioni economiche compatibili con la disciplina delle varie categorie dei beni giuridici, con atto negoziale atipico, compiuto dai proprietari può produrre l’ordine di effetti di cui si tratta, che la legge collega ad atti materiali di destinazione economica o di individuazione in numerose fattispecie tipiche.


Nel caso di specie, l’atto è addirittura giuridicamente previsto dalla legge (art. 10 l. 765/67). Il fatto che sia posto in essere da un proprietario – che intenda esercitare il suo ius aedificandi – e dal comune non modifica i termini del problema, una volta riconosciuto che l’autonomia gestionale dei comuni nel governo del territorio legittima l’ente a intervenire non solo, com’è ovvio, per regolare le ostruzioni nel territorio di appartenenza, ma anche per stabilire, nell’ambito dei suoi poteri e delle prescrizioni normative che li disciplinano, il luogo, la qualità e la quantità delle opere di urbanizzazione necessarie per le realizzande costruzioni.


Anzi è proprio la partecipazione (rectius: legittimazione) del comune ad assicurare la rilevanza urbanistica degli effetti che trovano la loro fonte in un atto che è anche atto amministrativo di pianificazione urbanistica di attuazione.

 

La convenzione, contemplante interessi individuali e pubblici insieme, già sul piano della sua rilevanza privatistica produce l’effetto di imprimere ai beni che ne formano oggetto una determinata destinazione (che, nella specie, è compatibile con la loro disciplina giuridica).


L’impegno del privato di eseguire le opere di urbanizzazione produce, sì, dal momento in cui l’atto si perfeziona, l’effetto di individuare il bene che ne forma oggetto non più quale area o terreno o superficie astrattamente suscettibile di varie possibili destinazioni, ma come «scuola materna comunale».


Conseguentemente, la questione dibattuta nella causa non investe, come potrebbe sembrare, l’obbligo di cedere al comune una parte determinata di un immobile perché sia destinata a scuola materna comunale, bensì l’individuazione di una scuola materna comunale e di tutti gli interessi giuridicamente rilevanti di cui tale bene costituisce oggetto.


La clausola 13, interpretata come dispone l’art. 1363 c.c., cioè per mezzo delle altre e non come vorrebbe il ricorrente avulsa dal contesto della pattuizione, assume contenuto, portata ed effetti identici a quelli delle clausole precedenti: infatti, è effetto tipico dell’impegno dei privati di eseguire le opere di urbanizzazione la costituzione di un vincolo di destinazione sulle aree e sugli spazi occorrenti per la loro realizzazione. Ed è per questo che le dedotte ragioni di inefficacia e/o di invalidità desunte o desumibili dal contenuto dei rapporti regolati dall’atto restano assorbite dalla destinazione già attuata al bene (ancora futuro) che non può essere rimessa in discussione innanzi al giudice ordinario.


5. L’interpretazione della clausola 13 nel senso messo a fuoco dalla Corte del merito sfugge alla critica perché, senza volere inammissibilmente giustapporre una diversa lettura a quella che ne è stata data in sede di merito, ma anzi proprio valorizzando il nucleo più intimamente intenzionale e finalistico delle pattuizioni intervenute in sede di convenzione, così come sono state intese dai giudici del merito, non sembra possa revocarsi in dubbio (ed in effetti non ne dubita la società ricorrente) che l’intenzione dei contraenti fosse stata quella di imprimere all’area una destinazione ben specifica quella cioè a scuola materna.


Attiene alla sfera dell’insindacabilità della (corretta) interpretazione dei contratti effettuata dal giudice di merito intendere la clausola 13 leggendola isolatamente avulsa dal contesto della convenzione, ovvero ritenerla elemento che armonicamente inerisce al bilanciamento degli interessi contrapposti perseguiti, prevedendo non soltanto la messa a disposizione dell’area su cui avrebbe dovuto sorgere la scuola e alla quale è stata impressa la destinazione, ma anche l’effettuazione della costruzione stessa in un contesto edificatorio in cui la destinazione considerata non atteneva all’intera costruzione e quindi all’intera area a essa destinata, ma si riferiva solo al primo piano dell’edificio, circostanza questa di estremo rilievo nel processo interpretativo da compiere in quanto suscettibile di dare ragione alla scelta di imporre al privato non già la mera cessione dell’esecuzione dell’opera che andava a inserirsi come parte di un maggior edificio della cui realizzazione il lottizzatore avrebbe potuto avvantaggiarsi.


Il ricorrente svolge il suo discorso critico, nella consapevolezza dei limiti del giudizio di legittimità, sforzandosi di ipotizzare il vizio logico del processo interpretativo svolto dai giudici pugliesi nel non aver rilevato l’autonomia della clausola 13, che a suo dire non atterrebbe più agli oneri di urbanizzazione.


Ma l’adozione del criterio della globalità interpretativa, da privilegiare rispetto a quello della considerazione atomistica delle singole clausole, non può sicuramente addebitarsi al giudice del merito che adottando il relativo canone, si è uniformato al precetto dettato dall'art. 1363 c.c.


Non giova sottolineare l’autonomia letterale della clausola in esame rispetto alle altre clausole della convenzione urbanistica, poiché non è la contrapposizione a venire in rilievo una volta messo in chiaro che si trattava di puntualizzare la destinazione a scuola materna dell’area e di realizzare tale destinazione (impressa all’area circostante a un edificio e a un piano dell’edificio da costruire) effettuando la costruzione, consistendo il proprium della disposizione imponendo non già semplicemente la messa a disposizione dell’area, ma la realizzazione su quell’area, a destinazione predeterminata e vincolata, dell’opera contemplata (la scuola materna).


Nemmeno vale obiettare, passando all’analisi critica della portata della clausola, che la legge non prevede mai che il lottizzante sia obbligato a costruire un’opera edilizia sotto la direzione del comune. Se una prescrizione puntuale siffatta si potesse rinvenire nella legge, l’avere intrapreso il giudizio sarebbe stato addirittura temerario da parte della società attuale ricorrente. Il problema interpretativo che si pone non è quello di verificare se una clausola con la tipologia qui evidenziata, sia prevista dalla l. urb. che disciplina le convenzioni, ma se sia compatibile con la legge stessa.


Orbene, mentre le svolte considerazioni rendono convinti della legittima utilizzazione della convenzione per imprimere al bene la destinazione economica che i contraenti si impegnano a rispettare, sicché il proprium della clausola in esame consiste nell’individuazione di una scuola materna comunale e di tutti gli interessi giuridicamente rilevanti di cui tale bene costituisce oggetto, non sembra possibile dubitare della coerenza di tale individuazione con lo strumento urbanistico convenzionale secundum legem.

 

La scelta negoziale degli strumenti di realizzazione, in base a quanto si è venuto dicendo, non incontra limiti per quanto attiene allo svolgimento della autonomia privata se non nel rispetto di quella destinazione previamente impressa al bene e nella rispondenza dell’opera, più in generale, alla tipologia considerata dallo strumento urbanistico, essendo fuori discussione che la costruzione di scuole rientri fra le opere di urbanizzazione e che il lottizzatore non è tenuto, in principio, a eseguire a sua cura e spese le opere, non risultando, peraltro, incompatibili con le finalità della convenzione che in una particolare situazione questi assuma altresì l’impegno di provvedere direttamente alla costruzione.


6. L’individuazione degli estremi del sinallagma cui ricondurre l’assunzione da parte del lottizzatore dell’obbligo ulteriore, cui dovrebbe corrispondere un vantaggio ulteriore è preoccupazione senz’altro apprezzabile, indicativa dello scrupolo con cui i giudici della Corte d’Appello hanno trattato la materia, ma ai fini della decisione costruisce un fuor d’opera, sicché non è producente muovere critiche a tale individuazione che per la verità non persuade nemmeno il collegio.


Il riconoscimento della bilateralità sinallagmatica della convenzione urbanistica si riflette sulla convenzione stessa del suo complesso, attiene all’insieme delle pattuizioni. Pretendere di trovare un tantudem correlato all’assunzione dell’obbligo non soltanto di imprimere una destinazione a scuola materna a una parte dell’area, ma anche di provvedere alla costruzione, può trovare giustificazione sul piano dei motivi in funzione della interpretazione della clausola per inquadrarla nel sistema della pattuizione, individuandone la ratio. Ma, una volta inserita la clausola nel complesso
della pattuizione come parte integrante della stessa, è contraddittorio pretendere di ravvisare un equilibrio delle prestazioni circoscritto in via esclusiva alla suddetta pattuizione, mentre sul piano logico della ratio l’assunzione dell’onere si spiega, e in questa prospettiva l’intuizione della Corte d’Appello appare esatta, proprio perché si è realizzata la destinazione del bene futuro come scuola materna di prefigurata consistenza limitata al piano terreno, permettendo al lottizzatore la costruzione di altri piani da utilizzare a suo libito.


Ne consegue per un verso che le critiche del ricorrente non colgono nel segno anche se individuano quello che potrebbe considerarsi un vizio del ragionamento svolto dalla Corte del merito giacché tale ragionamento se rapportato all’individuazione di una ratio adeguata alla clausola appare persuasivo e giustifica la valutazione globale dell’intera convenzione urbanistica, mentre laddove si sforza di ravvisare un vincolo sinallagmatico di prestazioni incentrate sulla clausola stessa la motivazione pare censurabile, ma l’evidenziazione del vizio non comporta la cassazione della sentenza giacché il vizio medesimo non ha spiegato rispetto alla ratio decidenti della sentenza impugnata efficacia determinante.


Conclusivamente sul punto: la clausola 13 nel suo effetto prodromico (di determinare la destinazione del bene a scuola materna con riferimento dell’area indicata) e nel suo effetto finale (di obbligare il lottizzante a eseguire la costruzione dell’edificio scolastico nella così vincolata quanto a destinazione) non necessita per trovare giustificazione, della ricerca e messa in evidenza di un tantundem secondo una connessione sinallagmatica, ma trova ragionevole rispondenza nell’economia globale della convenzione, senza che la previsione specifica in essa racchiusa risulti incompatibile con la disciplina legale dettata per convenzioni siffatte, essendo ammissibile, nell’esercizio dell’autonomia privata, una pattuizione del tipo di quella considerata.


7. Soggiunge la ricorrente che anche l’iniziale posizione difensiva assunta nella causa muoveva dalla constatazione che la previsione di cui all’art. 13 non rientrava fra quelle previste dalla legge con riguardo alle opere di urbanizzazione primarie e secondarie dovendosi interpretare la disciplina delle convenzioni urbanistiche nel senso che il lottizzatore può essere obbligato solo alla messa a disposizione gratuita dell’area, e non anche gravato dall’onere di effettuazione della costruzione, sicché l’obbligazione si doveva ritenere priva di causa e «come tale» integrante una invalida promessa di donazione di bene futuro; ma anche a prescindere dalla reiezione da parte del giudice di merito di tale ipotesi ricostruttiva delle dedotte nullità importava analizzare l’iter che aveva portato residualmente a enuclearla, fra cui spiccava la messa in evidenza della circostanza che nella delibera comunale 13.11.1967, con cui venivano determinati i criteri generali idonei a individuare e a valutare gli oneri di urbanizzazione e nel documento dell’ufficio tecnico comunale con cui venivano determinati nel caso concreto i relativi oneri, non era presa in considerazione in alcun modo la costruzione a cura e spese del lottizzatore della scuola materna. E lamenta che i suddetti documenti, sulle cui rilevanze era stato posto ampiamente l’accento negli scritti difensivi, non siano stati esaminati dai giudici pugliesi.


Sennonché le evidenziate omissioni non integrano fatti decisivi suscettibili di sovvertire le conclusioni cui il giudice di merito è giunto attraverso la puntualizzazione argomentativa sopra riassunta, muovendo da corretti canoni esegetici da un lato e, quel che più conta, da una corretta visione della problematica cui da luogo la figura della convenzione urbanistica.


È appena il caso di ricordare, anche perché sul punto specifico non c’è censura, che la giurisprudenza di questa Corte ha disatteso univocamente le tesi che tentavano di ricondurre la normativa della legge speciale n. 765/1967 agli schemi di contratti nominati e in particolare della donazione, al fine di denunziarne la nullità ai sensi dell’art. 783 c.c.; e ha statuito che le convenzioni urbanistiche di lottizzazione non sono inquadrabili nel modello negoziale della donazione.


Con recente sent. 4715/1988 (Id., 1989, I, 126), si è ancora una volta ribadito che la l. 765 consente alla P.A. di imporre al privato la cessione gratuita di un suolo quale condizione per il rilascio della licenza (o concessione)edilizia.


Occorre al riguardo far capo all’art. 10 della legge stessa la quale, richiedendo la collaborazione dei privati nella realizzazione delle opere di urbanizzazione, ha in definitiva posto un onere a carico dei privati medesimi il cui contenuto va di volta in volta determinato dalla P.A.


In relazione alle opere pubbliche di cui era richiesta l’attuazione si è voluto inserire nel sistema il principio della onerosità del riconoscimento dello ius aedificandi, sia pure, all’epoca, nella forma indiretta del concorso all’opera di urbanizzazione.

 

Confutate le ragioni specificamente dedotte contro l’impugnata sentenza, la correttezza delle conclusioni raggiunte trova avallo logico e giuridico nel discorso che si è impostato all’inizio per focalizzare il nucleo concettuale del problema teorico cui situazioni come quella di specie danno luogo, seguendo la convincente impostazione della difesa del comune. Ritiene il collegio che l’impegno dei privati di eseguire opere di urbanizzazione implica come necessario momento preliminare, l’individuazione del luogo e della qualità di esse. L’effetto giuridico dell’individuazione del luogo in cui devono essere eseguite non può non precedere il momento della individuazione dell’obbligo solo a posteriori, sulla base di tali coordinate, può essere messa a fuoco e realizzato. Le opere di urbanizzazione, la cui costruzione può essere validamente assunta da privati, ai sensi dell’art. 10 l. 765/1967, sono beni giuridici futuri ancora inesistenti al momento dell’assunzione dell’impegno contenuto nella convenzione. Allorché l’impegno venga adempiuto la cosa che viene a esistenza è proprio quel bene individuato nella convenzione volta a volta, secondo le prescrizioni della convenzione considerata, la strada residenziale, l’impianto fognante, ovvero, come nel caso considerato, la scuola materna comunale.


Pertanto, l’atto costitutivo dell’impegno del privato di eseguire opere di urbanizzazione spiega un duplice ordine di effetti: da un lato serve a individuare fra le parti ma sopratutto nei confronti dei terzi, la natura la qualità e ubicazione delle opere di urbanizzazione; dall’altro serve a costituire l’obbligo di compiere l’attività necessaria affinché quelle opere vengano a esistenza.


Una volta che l’opera sia stata utilizzata in conformità alla prevista ubicazione e destinazione, deve necessariamente ritenersi che la tutela giudiziaria riguardante l’efficacia e validità della costituzione dell’obbligo di compiere tali opere non può modificare la natura dell’opera compiuta, né travolgere i diritti e i rapporti di cui forma oggetto.


Poiché nella specie non è venuta a esistenza una porzione del piano terreno del fabbricato cui la licenza edilizia si riferisce, ma la scuola materna comunale individuata nella clausola costitutiva dell’impegno di eseguire la realizzazione, tale rilievo basta a neutralizzare tutte le ragioni giuridiche fatte valere in questa fase di cassazione dalla società ricorrente.


8. Conclusivamente, il ricorso, essendo risultato infondato in tutte le censure in cui si articola, deve essere respinto con ogni conseguenza. (Cass., 14.7.1989, n. 3322)


La sentenza sembra avere accolto una prospettazione a suo tempo avanzata da Michele Costantino, che l’ha commentata nella nota pubblicata con Di Mauro sul Foro Italiano, e così la rimedita nella «Appendice IV» inserita nella ristampa del volume, da lui curato, Convenzioni urbanistiche e rapporti tra privati (Milano, 1995, pp. 585 ss.)


Mancava la mise in forme della notizia di una sentenza che desse conto dell’efficacia giuridica delle convenzioni urbanistiche nei rapporti tra privati per il profilo riguardante le destinazioni d’uso.


La doppia valenza delle convenzioni urbanistiche di lottizzazione, quali atti della pianificazione urbanistica di attuazione e quali contratti, era fuori discussione. Si trattava di far entrare una volta per tutte negli ordinari circuiti dell’informazione giuridica che, quali contratti, le convenzioni urbanistiche di lottizzazione imprimono sui beni che ne formano oggetto vincoli di destinazione che:

a) hanno l’istituzionale proprietà di operare inscindibilmente sul piano pubblicistico e nei rapporti di diritto privato;

b) possano essere fatti valere con l’assolutezza tipica del diritto reale nei confronti dei terzi che ne contestino l’esistenza o l’efficacia;

c) comportano l’esercizio di poteri immediati e diretti sui beni che ne formano oggetto tali da rendersi incompatibili con ogni altra forma di utilizzazione anche soltanto mediata e indiretta.


Decisioni ce ne dovevano essere state tante, ma non risultavano pubblicate, forse perché di merito, o forse perché ritenute notizie non meritevoli di essere mises en forme. In tutta Italia qualcuno dei proprietari colottizzanti doveva aver capito che il mantenimento delle destinazioni d’uso delle aree vincolate alla realizzazione di opere di urbanizzazione comportava la conservazione del valore patrimoniale del suo bene. Se il piano pilotis (cioè il porticato a piano terra) era stato riempito realizzando abusivamente ulteriore cubatura, se l’area destinata a verde o a impianti sportivi era stata divisa e trasformata in giardinetti esclusivi privati, il privato proprietario di una porzione delle costruzioni realizzate in base a quella convenzione doveva aver capito che la violazione dei vincoli derivanti dalla convenzione recava un vantaggio a chi l’aveva compiuta, ma modificava in peggio la sua proprietà.


Certamente qualcuno si era assunto il compito di difendere gli autori delle violazioni, e questo non era il legislatore dei condoni edilizi, perché tutti i condoni hanno fatto salvi i diritti dei terzi. Forse questo qualcuno aveva fatto notare che, in fondo, è uno spreco non utilizzare il porticato per fare tanti bei locali da vendere, che i giardinetti privati esclusivi sono tenuti meglio delle aree di verde collettivo, che degli impianti sportivi non c’è quel bisogno impellente che induce a scoprire la tutela dell’effettività della destinazione d’uso delle aree a ciò destinate.


Ma, di fronte alla domanda di un proprietario co-lottizzante di tutelare l’effettività  dell’uso nei confronti di altri proprietari o loro aventi causa che avessero contestato l’esistenza o l’efficacia dei vincoli di destinazione, quali argomentazioni giuridiche potevano scongiurare provvedimenti di condanna a non opporsi all’esercizio dei corrispondenti diritti?
Alla massa enorme di violazioni che avevano sconciato i progetti posti a base delle convenzioni urbanistiche di lottizzazione, le pubbliche amministrazioni, benché dotate di poteri di autotutela, non avevano reagito, anche per la difficoltà di individuarle una per una e di procedere di conseguenza.


Questa difficoltà non esisteva per i soggetti concretamente interessati. La mancata diffusione di notizie concernenti la tutela disponibile poteva dipendere dalla mancanza di un apparato concettuale idoneo a rappresentare il problema sul piano dogmatico.


Ma la riluttanza ad ammettere la richiesta tutela non poteva ascriversi all’influenza del principio del cosiddetto numero chiuso dei diritti reali. Infatti, il numero chiuso si giustifica per l’esigenza di contenere nelle ipotesi tipiche disegnate dal legislatore le ipotesi in cui è possibile trasferire, con effetti reali (cioè erga chiunque sia poi titolare del diritto di godere e di disporre di quei beni), da una proprietà a un’altra proprietà, un’utilità determinata: cioè è possibile utilizzando lo schema dell’usufrutto, dell’uso, dell’abitazione, della superficie e della servitù: oltre questi strumenti non se ne possono inventare altri.


Il problema dei vincoli di destinazione, però, non collideva affatto con la salvezza del principio del numero chiuso dei diritti reali: l’atto che costituisce il vincolo non trasferisce affatto un’utilità da un proprietario a un altro, ma soltanto conforma i rispettivi diritti di proprietà per attuare un collegamento funzionale fra i beni che ne costituiscono oggetto. Trattandosi di effetti conformativi, il principio del numero chiuso dei diritti reali non c’entrava per niente.


Del resto, nella pratica, il problema era stato affrontato e risolto sia a proposito delle clausole pattuite fra condomini negli uffici o nei condomini orizzontali impositive di vincoli di destinazione su beni di proprietà esclusiva oppure comune, sia a proposito della cosiddetta multiproprietà, dove, oltre alla destinazione d’uso, veniva in considerazione la determinazione temporale del modo di godimento.


Sull’altro versante dell’apparato concettuale per comprendere la natura dell’atto impositivo del vincolo di destinazione e dell’effetto giuridico in cui esso consiste, la pratica diffusissima degli atti di asservimento (unilaterali, produttivi di effetti reali, trascrivibili, opponibile ai terzi), utilizzati a piacimento sia quali elementi di complesse fattispecie di mutui agevolati, sia di buoni affari di cessione di cubatura, aveva mostrato l’esistenza di atti e di effetti giuridici forse ignoti alla dogmatica, forse male appellati dalla giurisprudenza («atti di diritto pubblico dei privati»), ma comunque ben radicati nell’esperienza giuridica.


Infine, la rilevanza dei vincoli di destinazione impressi da convenzione urbanistica di lottizzazione aveva salvato dai rigori della legge Galasso le aree vincolate, sottraendole al giudizio di congruità rispetto ai valori tutelati del passaggio, perché riconosciute beni aventi le caratteristiche e le qualità risultanti dal progetto approvato, benché non ancora edificate.


Dunque, il problema investiva soltanto la qualificazione di effetti giuridici già collaudati e la loro collocazione sistematica.
Questo compito era della dottrina, ma si verificò un’occasione da non perdere per la Corte di Cassazione.  Il caso di specie era emblematico: con una convenzione urbanistica di lottizzazione era stato stabilito che il piano terra dell’edificio da costruire dovesse essere scuola materna comunale. Realizzato l’edificio, il privato proprietario, lottizzante e concessionario, aveva fatto causa al Comune, sostenendo che l’obbligo assunto di trasferire il suo diritto di proprietà sul piano terra al Comune era inesistente per illiceità della causa. Il Comune, invece, aveva dedotto l’inesistenza del diritto di proprietà del privato sul piano terra dell’edificio venuto a esistenza: ciò che era venuto a esistenza era proprio il «bene giuridico» descritto nella convenzione urbanistica di lottizzazione, cioè la scuola materna comunale. Non vi era spazio per discutere dell’obbligo di trasferire il diritto su una «cosa», se la «cosa» venuta a esistenza era un «bene giuridico» che non poteva formare oggetto del diritto di proprietà privata.


In effetti, il proprietario dell’area, lottizzante e concessionario, aveva assunto l’obbligo di eseguire direttamente le opere di urbanizzazione, e fra queste la scuola materna al piano terra del costruendo edificio. Si trattava, perciò, di dichiarare che la convenzione aveva impresso un vincolo di destinazione sui beni futuri – quelli che sarebbero venuti a esistenza – e che questo effetto giuridico si era prodotto prima della realizzazione delle opere. La Corte di Cassazione era dunque chiamata a chiarire la natura di questo effetto giuridico e a collocarlo nel sistema delle fonti. Il che avvenne. In questa parte dell’Appendice è pubblicata la sent. 3322/1989 della Corte di Cassazione e sono richiamati i commenti che l’hanno accompagnata nelle riviste dove è stata pubblicata.

 

È doveroso segnalare, per mettere in guardia il lettore, che in due di essi la sentenza è stata presentata per esternarne preoccupazioni e ambasce di ordine universale, anticipando un malcostume che ha trovato in questi ultimi tempi trionfali espressioni in trasmissioni televisive. Nei commenti non si affronta il problema della natura delle questioni decise (si auspica che il ruolo dell’atto di destinazione economica quale elemento integrativo della vicenda circolatoria di beni futuri possa essere chiarito da studi di teoria generale, ma si dichiara che questo compito «poco si addice» alla fondamentale funzione nomofilattica della Cassazione), col risultato di confondere l’informazione giuridica sul punto, declinando la soluzione senza motivi e senza ricordare gli studi di teoria generale già da tempo pubblicati e alla Cassazione evidentemente noti.


In quello che si intitola Dei limiti e dei pericoli della cosiddetta nomofilachia si dichiara che la questione esaminata «non presentava particolari aspetti di novità», anzi «non poneva alcun problema»; poi si sottolinea che la lunghezza della motivazione avrebbe nuociuto all’organizzazione del servizio di dattilografia della suprema Corte; infine, si critica «l’estensione al diritto pubblico di una categoria che, forse, può essere giustificata nel diritto privato, quella dell’atto negoziale di destinazione di un bene», e si svela che il principio: «sin tanto che l’opera è in corso essa permane in proprietà del privato», contraddice la soluzione (cioè, la pronuncia commentata risolve la questione – «che non poneva alcun problema» secondo il diritto pubblico – in contrasto con un principio di diritto privato che l’argomentazione adoperata, tenuta nascosta, riusciva a superare).


In quello che si intitola Convenzione di lottizzazione e autonomia negoziale: destinazione ignota? si informa il lettore che le origini della prassi delle convenzioni urbanistiche corrispondono «a una logica utilitaristica di esternalizzazione, da parte della P.A. locale, dei costi di redazione e attuazione dei piani regolatori particolareggiati» e si sottolinea, con il conforto di «autorevolissime notazioni», la preoccupazione che «una troppo disinvolta gestione convenzionale produca conseguenze nefaste o non desiderabili sul piano urbanistico». Ciò è sufficiente per «raccomandare» un più puntuale rispetto delle prescrizioni legali e per «intravedere» il pericolo di una soccombenza degli interessi in gioco, pubblici o privati, che segnerebbe la ricaduta negli errori e distorsioni del passato (lo scandalo della pronuncia commentata starebbe nel fatto che il Comune si sia «accaparrato a costo zero una scuola materna». Sul punto annunciato dal titolo: «Destinazione ignota?», si dichiara che la pronuncia riapre «non sopite questioni», citandone una sola, quella «del momento decisivo ai fini dell’acquisto della qualità di bene pubblico».


La segnalazione dello stile di queste due presentazioni della sent. 3322/1989 ha dunque una giustificazione serissima: quella di avvertire il lettore che certi atteggiamenti mentali, oltre che rivelare lo spessore di una certa politica del diritto, rappresentano pericoli maggiori di quelli costituiti dai singoli e dai gruppi che hanno interessi contrari all’attuazione dell’ordinamento giuridico.


Non capire che la rilevanza giuridica della destinazione d’uso del piano terra del futuro edificio a scuola materna soddisfa elementari esigenze di certezza e risolve, per es., il problema dell’impignorabilità da parte dei creditori del proprietario-lottizzante (appunto perché è giuridicamente rilevante e opponibile ai terzi una destinazione «nota») costituisce un pericolo maggiore che desiderarlo di proprietà privata esclusiva, fino a che non venga compiuto un atto di volontà, dovuto, ripetitivo, dichiarativo, ricognitivo della stipulata e trascritta convenzione di lottizzazione.


Quanto al potere dei privati di vincolare la destinazione d’uso dei beni osserva Pietro Perlingieri che il «diritto di godere» e il «diritto di disporre» (art. 832 c.c.) non sono diritti autonomi bensì facoltà o poteri insiti nella situazione proprietaria. Non sembra si possano identificare i concetti di godimento e di disposizione, sottolineando che tra essi c’è la stessa differenza che passa tra valore di uso e valore di scambio del bene; né sembra che si possa affermare che il diritto di godimento è l’utilità che il bene riesce a dare per il suo uso. Il potere di godimento non si identifica necessariamente con il valore di uso. Nella facoltà di disposizione possono rientrare anche attività – solitamente inserite in quella di godimento –, nelle quali non v’è vero scambio ma vi è comunque disposizione del bene, attività negoziale che incide sulla sua natura.


L’opinione secondo la quale la c.d. facoltà di godimento non è determinata ma è un complesso generico di facoltà, sintesi delle possibili facoltà di utilizzazione e di sfruttamento della cosa, compresa quella di disposizione, presuppone che questa rientri nella facoltà di godimento. Vi sono ipotesi, come quella della vendita di cosa altrui (art. 1478 c.c.), nella quale la facoltà di disposizione del bene sembra staccata e autonoma completamente dalla titolarità del diritto disposizione e della titolarità della stessa proprietà nell’eventualità che disposta fosse la proprietà. Vi sono
proprietà nelle quali sono assenti certe forme di godimento e altre nelle quali manca una facoltà di disposizione; disposizione e godimento, pur essendo caratteristiche normali della proprietà, non sono essenziali e tipiche del diritto.


Il potere di godimento è concetto non univoco e omogeneo, ma variabile, contenutisticamente fungibile: esiste, per es., una sostanziale diversità tra il godimento della proprietà da parte di una persona fisica e di una persona giuridica; lì il godimento è strettamente legato all’immediatezza della situazione con il soggetto fisico titolare, mentre nelle persone giuridiche più che di godimento si tratta di «utilizzazione» del bene, la quale spesso si autoregola, si autodetermina, si autolimita. Si pensi all’oggetto sociale di una società per azioni, che è per definizione limitato; i beni che fanno parte del patrimonio della società possono essere utilizzati, ma questa forma di godimento, meglio di utilizzazione, del bene è limitata a quelle che sono le caratteristiche istituzionali della persona giuridica che si è autolimitata nel momento nel quale ha stabilito che il patrimonio deve essere rivolto a uno scopo determinato. Così non ha senso discorrere di godimento per interposta persona, quando si tratta piuttosto di utilizzazione del bene attraverso persone che direttamente ne godono.

 

Il potere di utilizzazione – si pensi alle forme di proprietà che producono una rendita – è considerato per lo più dai moderni legislatori meno favorevolmente del potere di godimento (diretto).

 

La nozione di godimento in senso stretto implica l’esistenza di un immediatezza tra il bene e colui che compie l’atto di disposizione negoziale o materiale.
 

Il godimento spesso comporta la consumazione del bene, come nelle ipotesi nelle quali la stessa proprietà del bene è per definizione temporanea; si pensi alla proprietà dei beni di consumo, per es. i cibi, che sono destinati a esaurirsi nel tempo: godimento e proprietà hanno un rapporto di interdipendenza reciproca e connaturale che non consente di accostare questa forma di godimento a tutte le altre che presuppongono un rapporto costante tra il bene e il soggetto; sia quelle che si considerano forme di godimento delle persone fisiche sia quelle che si considerano forme di utilizzazione delle persone giuridiche.

 

Nelle forme di proprietà dei beni deteriorabili destinati al consumo, e quindi di proprietà per definizione temporanea, ogni limitazione da parte dell’ordinamento nel loro godimento costituirebbe manifestazioni di un giudizio di non meritevolezza dello stesso diritto di proprietà, perché uno Stato che ponesse dei limiti o dei vincoli al godimento di questi beni, sostanzialmente negherebbe tutela alla loro proprietà.


La parola «disposizione» ha nella nostra dottrina un significato non univoco; viene usata per indicare la disposizione negoziale come compimento di atti di autonomia privata, la scelta della destinazione economica del bene, la sua disposizione materiale o il potere di scelta del tempo di utilizzazione e di godimento.

 

La nozione di disposizione distinta da quella di godimento, è concorrente con questa nell’individuazione del contenuto delle singole situazioni. Quando si discorre di disposizione la mente corre alla teoria degli atti, all’autonomia privata; le elaborazioni dottrinali in materia riguardano proprio il potere di disposizione, cioè il potere di compiere attività, alla radice delle quali vi è (sempre)l’autonomia privata destinata ad assumere specificazioni concrete in riferimento alle singole funzioni negoziali e alle singole situazioni soggettive delle quali si dispone. Rispetto alla proprietà il problema della disposizione riguarda le attività negoziali concernenti l’istituto, essendo arbitraria la limitazione della nozione di disposizione a quegli atti che contribuiscono a smembrare sotto un profilo contenutistico il diritto. Si sostiene, erroneamente, che il potere di disposizione è un’attività che si riferisce esclusivamente a quelle forme negoziali che tendono a far costituire diritti reali limitati, e addirittura si dubita che nel potere di disposizione possa rientrare anche la particolare attività che fa nascere i diritti reali di garanzia, in particolare l’ipoteca.

 

Il potere di disposizione del proprietario non è limitato al potere di costituire diritti reali ma è comprensivo di quegli atti d’autonomia che il proprietario può compiere e che sono in senso lato dispositivi, cioè di quegli atti con i quali egli crea situazioni soggettive favorevoli a terzi, comprese le situazioni personali di godimento.

 

Il potere di disposizione, inteso in senso di scelta della destinazione da dare al bene, acquista una rilevanza particolare, specie per la sua attualità, in quanto costituisce la confluenza tra il problema delle situazioni staticamente considerate e l’iniziativa economica: il proprietario che si pone il problema della scelta della destinazione da dare a un bene non è soltanto proprietario ma è per lo più anche imprenditore.


Il potere di disposizione non è un potere unitario; se ne devono cogliere i diversi atteggiamenti che esso assume in riferimento alle legislazioni speciali.

 

Per «disposizione» si può intendere non soltanto un atto negoziale o volontario ma anche un «atto di disposizione materiale», preparatorio se mai di una disposizione giuridica. Sì che non sorge il problema se l’atto di disposizione materiale, il trasferimento di un bene da un luogo all’altro sia o no negoziale; normalmente non lo è. Si tratta di un atto che non è né di godimento in senso tecnico, né di utilizzazione, né di disposizione giuridica; è invece atto di disposizione materiale.


Nell’ambito del potere di scelta si può distinguere la scelta della destinazione del bene da quella del tempo di alienazione. Si pensi al diritto agli utili e al diritto ai dividendi nelle società. Nelle leggi e negli statuti che dettano la disciplina per le società, vi sono eterolimitazioni e autolimitazioni; lo statuto può stabilire che determinati dividendi non vengono distribuiti per un numero di anni, sì d’attuare una forma di autofinanziamento.


Vi sono ipotesi nelle quali il potere di disposizione della proprietà spetta a un soggetto, mentre quello di godimento spetta ad altri. S’introduce il tema delle proprietà sostanziali e formali.


Tra godimento e disposizione non esiste una correlazione necessaria: se è vero che la proprietà può essere definita – ed è definita dal codice – come facoltà o potere di godere e di disporre, è anche vero che si rinviene in più di una ipotesi una dissociazione, un distacco tra questi due poteri, al punto che taluni sono titolari del godimento e altri del potere di disposizione. Sotto altro profilo, questa dissociazione si atteggia nel senso che non sempre il proprietario ha il potere di disporre del bene, di creare situazioni soggettive favorevoli a terzi, né quello di disporre materialmente della proprietà né quello di scegliere liberamente la destinazione economico-sociale del bene. In quest’attività di disposizione egli viene a essere controllato talvolta, integrato tal altra, dalla partecipazione di altri, sì che la facoltà di disposizione non è assoluta né tanto meno arbitraria.


Anche nell’ambito della nozione di godimento si può constatare una dissociazione: il fenomeno giuridico e sociale dello smembramento (della figura unitaria) della proprietà ha avuto una notevole evoluzione fino a raggiungere una situazione di estrema varietà anche a causa della mutata realtà economica. Si discute se il mandatario senza rappresentanza, una volta acquistato il bene, abbia il diritto o comunque il dovere di goderne.
(P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 1991).


Un’interessante vicenda – in tema di vincolo di destinazione ad alloggio del portiere – è stata oggetto di una pronuncia genovese.

Il fatto.

Con atto di citazione notificato il 30.10.1978 Cappelli Alessandro e Galeazzi G. Carlo sulle premesse:
– che erano comproprietari, a seguito di acquisto da Cozzano Paolo, per atto notar. Ceroni del 15.12.1977 di un appartamento sito in via Chiodo 161, La Spezia, Scala A int. 1;
– che attualmente l’appartamento da essi acquistato era occupato dalla lavascale del condominio, la quale ne aveva il godimento gratuito a parziale contropartita della prestazione lavorativa effettuata a favore del Condominio di via Chiodo 161 che le corrispondeva una modesta retribuzione (circa lire 50.000);
– che il Condominio versava ai proprietari dell’immobile una modestissima somma di denaro in considerazione del suo utilizzo;
– che una tale situazione sarebbe nata da una vecchia clausola – della quale essi istanti sarebbero venuti a conoscenza dopo l’acquisto dell’immobile – in forza della quale il precedente e unico proprietario di tutto il caseggiato di via Chiodo 161 tale Corzani Costantino, al momento di vendere i singoli appartamenti a varie persone aveva riservato a sé la proprietà dell’appartamento in questione stabilendo nel contempo che esso avrebbe dovuto essere destinato a uso di portineria;
– che tale clausola assumeva il significato giuridico di un onere reale e al contempo di regolamento condominiale contrattuale;
– che peraltro il rapporto poteva anche essere ricondotto sotto la fattispecie del contratto di locazione, in tal senso potendosi interpretare la volontà del Corzani Costantino;
– che in ogni caso l’appartamento de quo era stato destinato solo per alcuni anni a uso portineria e che dal 1945 esso non era più adibito a tale scopo, avendo deciso il condominio di rinunciare al servizio di portineria;
– che, inoltre, subito dopo gli anni dal 1945, vi era stato un periodo in cui i precedenti proprietari avevano riscosso personalmente un regolare canone di locazione, in quanto l’immobile era condotto da un privato che non aveva alcun rapporto con il condominio, e che successivamente i precedenti proprietari avevano convenuto con il condominio di far occupare l’immobile de quo dalla lavascale;
– che, non essendo stato esercitato più il servizio di portineria dal 1945 ed essendovi differenza fra il regime giuridico normativo del servizio di portineria e di quello di lavascale, il vincolo d’uso – se considerato onere reale – si era comunque prescritto per il decorso del termine di legge;
– che non vi era ragione, cessato il servizio di portineria, di conservare tale clausola limitativa d’uso a favore del condominio;
– che era intenzione di essi istanti di adibire tale alloggio per esigenze personali per uso ufficio;
– che la soluzione alternativa rispetto a quella attuale potrebbe essere quella di adottare un nuovo criterio di ripartizione delle spese, rispondenti alla nuova situazione, da prendersi con deliberazione a maggioranza dei condomini;
– che inutilmente essi avevano tentato una simile soluzione che, in mancanza di accordo, ben avrebbe potuto essere stabilita dal giudice ex art. 1124 c.c.;
tanto premesso convenivano in giudizio innanzi al Tribunale di La Spezia, il Condominio di via Chiodo 161 (SP) in persona dell’Amministratore pro–tempore per sentire determinata la natura giuridica della clausola limitativa d’uso come d’onere reale; dichiarare che la stessa non è applicabile nei confronti degli attori quali terzi acquirenti in buona fede; in ogni caso dichiarare che detta clausola è cessata per prescrizione estintiva. In entrambi i casi dichiarare che il Condominio non ha diritto a vantare sull’appartamento in questione alcuna clausola limitativa d’uso o onere reale, disponendo nel contempo la ripartizione delle spese di pulizia delle scale, dell’androne, degli accessori ed eventualmente anche per l’accensione o lo spegnimento della luce, per l’apertura e chiusura del portone – con esclusione del servizio di vigilanza e custodia – a norma dell’art. 1124;
condannare il condominio a liberare l’immobile dal vincolo di cui sopra; in via subordinata, dichiarare la natura giuridica del patto come rapporto di locazione intercorrente fra gli attori e il condominio.


Il convenuto, ritualmente costituitosi, chiedeva il rigetto delle domande attrici assumendo che l’appartamento acquistato dagli attori era ancora gravato da un vincolo (non inquadrabile negli istituti degli oneri reali e/o di locazione) costituito dalla servitù di essere destinato ad alloggio del portiere e/o della persona incaricata di provvedere alla pulizia dello stabile. Deduceva che tale servitù era stata costituita con atto notar. Boracchia del 29.1.1895 del quale era stata rinnovata la trascrizione nei registri immobiliari di Sarzana in data 16.11.1967, dai fratelli Costantino, Francesco e Luigi Cozzani, all’epoca proprietari dell’intero fabbricato che essi successivamente avevano alienato per singole porzioni. Eccepiva l’incompetenza ratione materiae del Tribunale a conoscere della domanda subordinata proposta dagli attori.


Veniva prodotta varia documentazione, venivano ammesse ed espletate prove orali e all’esito il Tribunale di La Spezia, con sent. 5/7.2.1987, rigettava le domande proposte dal Cappelli e dal Galeazzi e condannava gli stessi al rimborso in favore del convenuto delle spese di causa.


Avverso tale sentenza hanno proposto rituale appello Cappelli Alessandro e Galeazzi Giancarlo lamentando:
1) l’errata identificazione della natura giuridica del vincolo di destinazione;
2) l’omessa declaratoria di prescrizione del vincolo per non uso ventennale;
3) l’omessa declaratoria di inopponibilità del vincolo a essi appellanti quali terzi in buona fede;
4) l’omessa declaratoria che l’immobile de quo era liberato dal vincolo per la mancanza di utilità da parte dei proprietari in virtù della clausola «rebus sic stantibus»;
5) in via subordinata, l’omessa declaratoria che il vincolo non si riferisce all’intero condominio;
6) l’omessa compensazione delle spese di causa.
Ha restituito l’appellato, chiedendo il rigetto dell’appello perché infondato.
All’udienza del 2.6.1989, sulle conclusioni delle parti come in epigrafe trascritte, la causa è stata assegnata a sentenza.


I motivi.

A motivazione della propria decisione il Tribunale anzitutto ha ritenuto che con il vincolo di destinazione ad alloggio del portiere dello stabile contro il previsto versamento di lire una e centesimi cinquanta per ogni mese (e per ciascuno degli acquirenti) – vincolo imposto con atto notar. Boracchia del 29.1.1895 all’appartamento di loro proprietà alla scala A interno 1 del fabbricato sito in La Spezia, via Chiodo 4 (oggi 161) – Cozzani Costantino, Francesco e Luigi, all’epoca comproprietari dell’intero stabile, abbiano costituito un legame, una dipendenza, un rapporto pertinenziale fra il detto appartamento e gli appartamenti di cui agli interni 3 e 4 scala A, cose principali. Il Tribunale ha escluso che il detto vincolo possa inquadrarsi nella figura degli oneri reali e in quelli della servitù. Secondo i primi giudici è opponibile agli attori tale vincolo che risultava trascritto in epoca anteriore a quella dell’acquisto dell’immobile da parte del Cappelli e del Galeazzi e che quindi non è invocabile l’acquisto in buona fede, smentito – oltre che dalla presunzione legale a conoscenza del vincolo – anche da una dimostrata effettiva conoscenza di quest’ultimo. Il Tribunale ha poi escluso che detto vincolo fosse venuto meno per prescrizione estintiva ventennale per non essere stato utilizzato l’appartamento scala A interno 1 come alloggio del portiere: ad avviso del Tribunale non era stata mai dismessa la destinazione dell’immobile inizialmente prevista, sia pure limitatamente all’alloggio di un lava scale, in quanto l’eventuale diminuzione della destinazione funzionale non ne travolge né ne estingue la finalità.


Con il primo motivo gli appellanti censurano l’impugnata sentenza sul punto della qualificazione giuridica del vincolo di destinazione.
Sostengono gli appellanti che – diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale – tale vincolo è inquadrabile nella categoria degli oneri reali e non è assimilabile a un rapporto pertinenziale perché tale istituto non era regolato dal c.c. del 1865 vigente all’epoca della stipula del citato atto notar. Boracchia del 29.11895. Del resto sarebbe errata la creazione di un rapporto pertinenziale essendo stata l’utilità del bene accessorio pattuita anche oltre il beneficio delle cose principali.

 

Tale motivo è fondato.
Come giustamente osservato dagli appellanti in comparsa conclusionale, la qualificazione della natura del vincolo contenuto nella clausola dell’atto Boracchia 29.1.1895 è stata definita in maniera differente sia dalle parti che dal Tribunale: gli attori, hanno definito il vincolo come onere reale, il convenuto come servitù il Tribunale come pertinenza. Ciò evidenzia la difficoltà della questione, tanto più che sia in dottrina che in giurisprudenza manca una univocità di opinione in materia. In particolare, la Suprema Corte nei pochi casi analoghi nei quali si trattava di stabilire quale fosse la natura giuridica del vincolo gravante su di un immobile in forza del quale il proprietario debba conservarne la destinazione ad alloggio del portiere, dopo aver affermato in epoca meno recente che sussiste in detti casi una servitù, recentemente è orientata nel definire tale vincolo come onere reale (da ultima Cass. 11.11.1986, n. 6584). Per la verità la Suprema Corte, con sent. 22.8.1978, n. 3910 ha ritenuto che nell’ipotesi in cui l’unico proprietario di un edificio diviso in appartamenti, destini un appartamento ad alloggio del portiere si verifica la costituzione di un rapporto pertinenziale. Va rilevato però che si tratta di fattispecie regolata dal c.c. vigente (la destinazione era stata fatta nel 1955) e non, come nel caso in esame, da quello del 1865. Ad avviso di questa Corte, per accertare la natura giuridica del detto vincolo e per attribuirgli la sua esatta configurazione occorre far capo alla disciplina vigente all’epoca della stipula dell’atto notar. Boracchia 29.1.1895 e tale disciplina era costituita dal c.c. del 1865 che, come è noto, non dettava alcuna norma specifica con riferimento alle pertinenze fra immobili e anzi, come è stato osservato in dottrina, il vocabolo «pertinenza» non figura affatto in alcuna disposizione del c.c. abrogato. Poiché quindi, all’epoca, non era ammissibile la costituzione di un rapporto pertinenziale è evidente che la qualificazione giuridica data dai giudici di primo grado è errata.


Né, poi, è provata la sussistenza del requisito soggettivo, consistente nella volontà di costituire un rapporto pertinenziale. Del resto, tale requisito non poteva sussistere in quanto, come si è detto, il codice abrogato non conteneva una sistemazione generale delle pertinenze non essendo riconosciuto in linea di principio generale il rapporto di pertinenza fra immobili.
A ciò va aggiunta la considerazione che la destinazione di parte dell’edificio di proprietà esclusiva di un solo condominio a un’attività oggettiva e duratura a favore di tutti i condomini, pur limitando le facoltà dell’esclusivo proprietario vincolandone l’esercizio al rispetto della destinazione collettiva, non può giungere ad annientare del tutto il diritto dominicale del condominio fino a trasformare la parte dell’edificio di proprietà esclusiva in accessorio condominiale.


Né, come sostenuto dall’appellato, il vincolo di destinazione gravante sull’immobile Scala A interno 1 può essere qualificato come servitù. Come è stato rettamente ritenuto dal Tribunale, deve escludersi che in virtù della clausola contenuta nell’atto Boracchia l’appartamento attualmente di proprietà degli appellanti sia stato sottoposto a un «pati» nel senso tecnico-giuridico dell’accezione. Del pari va escluso il requisito della tipicità del vincolo, sia pure intesa nella più ampia concezione della possibilità di riconduzione di un qualsiasi vincolo reale a un tipo di servitù. Senza dire che, mentre la servitù non può avere come contenuto principale un facere, nel caso in esame il proprietario dell’appartamento scala A interno 1 è tenuto a eseguire una prestazione di carattere positivo consistente nella messa a disposizione dell’appartamento per essere adibito ad alloggio del portiere e nel mantenere l’appartamento stesso in condizioni di poter essere adibito a tale uso.


Orbene, ritiene la Corte che, pur essendo appropriato nella specie il richiamo ai limiti alla facoltà di destinazione del bene del proprietario, tuttavia ai fini dell’esatta qualificazione giuridica del vincolo de quo, con maggiore aderenza alle peculiarità del caso in esame, giova richiamarsi all’indirizzo giurisprudenziale (Cass. 21.9.1974, n. 3168 e cit. Cass. n. 6584/86) che configura come oneri reali (di natura convenzionale) quelle limitazioni oggettive nascenti da clausole negoziali ma con effetti diretti e durevoli sulle «res» che restringono i poteri e le facoltà del singolo sulla cosa propria per garantire il miglior godimento della cosa altrui o comune.
 

E fra tali clausole è appunto da annoverare non solo quella che vieta di dare all’immobile una o più destinazioni fra le tante possibili (Cass. n. 1856/73; 899/72) ma anche quella, come nella specie, che impone di conservare all’appartamento di proprietà del singolo l’originaria destinazione di alloggio del portiere, cioè di res a servizio dell’intero stabile.


Senza voler approfondire il problema che esorbiterebbe dal thema decidendum, va ricordato che sono ben note in dottrina e in giurisprudenza le incertezze sulla esatta natura dell’onere reale. Tale figura, che non trova nell’ordinamento positivo specifico accoglimento (così come non era contemplata nel codice abrogato del 1865) costituisce un istituto di origine feudale che permane come nozione istituzionale o in riferimento a pesi di natura pubblicistica e tributaria o più genericamente come categoria di vincoli proprietari diversa dalle obbligazioni propter rem per un più forte connotato della realtà. La Suprema Corte (cit. sent. 6584/86) ha rilevato che la figura dell’onere reale è stata enucleata dalla dottrina e dalla giurisprudenza in rapporti di carattere obbligatorio con prestazioni permanenti o periodiche il cui lato passivo è collegato a una determinata cosa, o meglio a un diritto reale su di una determinata cosa. L’obbligato alla prestazione si identifica con il titolare del diritto reale.

 

In sostanza la Corte di Cassazione, sulla base del suo precedente orientamento (Cass. 24.5.1951, n. 1268 e cit. sent. 3168/1974) ha ritenuto che l’onere reale, essendo costituito da un peso obiettivo su di un fondo è attratto nell’ambito dei diritti reali. L’opinione del Supremo collegio non è però condivisa da una parte della dottrina, secondo la quale i rapporti derivanti da obbligazioni reali, cioè da obbligazioni «propter rem» che costituirebbero appunto gli oneri reali, non si possono ridurre alla categoria dei diritti reali o a quelli di diritti di obbligazione perché presentano caratteri propri e quindi hanno natura mista partecipando della realtà e dell’obbligatorietà dei diritti e assumendo in conseguenza una speciale configurazione.

 

Ritiene tuttavia la Corte che, pur essendo il vincolo de quo inquadrabile nella figura dell’onere reale, debba essere dato il giusto peso alle rilevanti particolarità del caso in esame. Ve rilevato che i termini della questione decisa con la citata sentenza della Suprema Corte 6584/1986 sono simili a quelli della presente controversia.


Orbene, come è stato affermato in detta sentenza, non è possibile fermarsi allo schema normale dell’onere reale ma occorre tenere conto della natura del tutto anomala del rapporto in questione. Normalmente l’onere reale si esaurisce nella prestazione che il titolare di quel diritto reale gravato dall’onere è tenuto a eseguire in favore di altro soggetto, titolare della posizione attiva del rapporto; non vi è quindi, di norma, una controprestazione che il titolare della posizione attiva sia tenuto a sua volta a eseguire. Nel caso in esame, invece, il Condominio, creditore della prestazione a carico del gravato dell’onere reale è a sua volta tenuto a corrispondere al detto gravato periodicamente una somma di danaro.


Un rapporto giuridico così anomalo – definito «assurdo» dalla Suprema Corte – che non solo impone una controprestazione al creditore dell’onere ma che costringe il proprietario, da un lato, a privarsi di ogni possibilità di disposizione e di godimento della cosa, pur di sua proprietà, e dall’altro a sopportare tutti i pesi inerenti al suo diritto – comprese le spese necessarie per mantenere la cosa nello stato di idoneità all’uso a cui è destinata – non può trovare disciplina diretta né nelle norme relative ai diritti reali né in quelle dei rapporti obbligatori, per cui è necessario risalire ai principi generali dell’ordinamento, in difetto di altri istituiti giuridici dai quali mutuare, sia pure con i dovuti adattamenti, la disciplina giuridica per il caso concreto (art. 12, co. 2°, ultima parte disp. Sulla legge in generale).

 

In conclusione, ad avviso della Corte, il vincolo di destinazione ad alloggio del portiere gravante sull’appartamento scala A int. 1 ha natura di onere reale in quanto sembra che tale figura meglio aderisca alla fattispecie, pur riconoscendo che con tale vincolo si è dato vita a un rapporto anomalo fra le parti.

 

Va comunque detto che la definizione giuridica della fattispecie non assume un particolare rilievo sotto il profilo delle conseguenze pratiche perché, come si dirà più avanti, in ogni caso, ad avviso della Corte, merita accoglimento il secondo motivo di appello relativo all’avvenuta prescrizione estintiva del detto vincolo.

 

Con il secondo motivo gli appellanti lamentano l’erroneità dell’impugnata decisione che, pur avendo accertato che l’appartamento scala A interno1 non era stato adibito ad alloggio del portiere, ha escluso l’avvenuta prescrizione del vincolo per non uso, ritenendo che non fosse stata mai dismessa la destinazione dell’immobile originariamente prevista dal momento che l’immobile stesso era stato adibito ad abitazione della lavascale. Gli appellanti deducono che le figure e i compiti del portiere e della lavascale sono nettamente diversi fra loro, con la conseguenza che si è  verificata la prescrizione estintiva del vincolo.


Tale motivo è fondato.
Come si è detto in premessa, l’atto notar. Boracchia del 29.1.1895 con il quale gli originari unici proprietari di tutto il caseggiato, Cozzani Costantino, Francesco e Luigi vendettero a Beverini Franco e a Piana Bernardo (che acquistò per il figlio Indo) gli appartamenti in La Spezia, via Chiodo 4 (oggi 161) interni 3 e 4 scala A, conteneva la seguente clausola: «i venditori dovranno mantenere per uso di alloggio al portinaio dell’intera casa suddetta il piccolo quartiere negli ammezzati, segnato col numero interno uno, scala A, a servizio della sicurezza e pulizia dello stabile ma gli acquisitori dovranno corrispondere per tale destinazione ai sigg. Cozzani lire una e centesimi cinquanta, per ciascuno e per ogni mese».


Orbene, ritiene la Corte che, essendo chiarissimo il significato delle espressioni del testo negoziale, l’accertamento della comune intenzione delle parti sia possibile attraverso il fondamentale criterio interpretativo logico-letterale. Giova infatti ricordare che – per giurisprudenza costante della Suprema Corte –, qualora il senso letterale della convenzione riveli, per le espressioni usate, con chiarezza, univocità e immediatezza la comune intenzione dei contraenti, è inammissibile un’ulteriore interpretazione in quanto condurrebbe il giudice a sostituire la propria soggettiva opinione all’effettiva volontà dei contraenti. Non può pertanto condividersi l’interpretazione del Tribunale che ha ritenuto che la finalità del vincolo non fosse quella «della mera esistenza di un portinaio» bensì quella «della sicurezza e pulizia delle scale». Avendo le parti convenuto che l’appartamento scala A int. 1 fosse destinato ad alloggio del portiere, «a servizio della sicurezza e pulizia dello stabile», non può sussistere il minimo dubbio che la clausola de quo si riferisca al servizio di portierato e non a quello di lava scale.

 

Le due figure sono nettamente diverse fra loro sul piano giuridico, hanno diversa regolamentazione e hanno compiti differenti. È infatti il portiere (e non la lava scale) che provvede alla sicurezza (custodia e vigilanza) congiuntamente, il più delle volte, alla pulizia dello stabile, come previsto nella clausola de quo. I servizi resi dalla lavascale invece riguardano unicamente «la pulizia delle ringhiere, la lavatura delle finestre, delle scale e del portone, la spazzatura e la lavatura dell’atrio e degli accessori» (vd. contratto relativo prodotto dagli appellanti). Inoltre la circostanza che è esplicitamente esclusa «l’attività di custodia e di guardianaggio » dal contratto con la lavascale smentisce l’apodittica affermazione del Tribunale che la «lava scale, abitando nel quartiere, e gratuitamente, in buona sostanza adempie anche a quelle finalità di sicurezza ripropostesi dalla destinazione a suo tempo costituita».


Senza dire che attualmente il servizio di pulizia delle scale è affidato a impresa estranea al condominio e che l’appartamento scala A int. 1 è destinato unicamente a deposito di attrezzi per la pulizia delle scale.


È pertanto innegabile e non più contestabile che la comune intenzione delle parti sia stata quella di destinare l’appartamento de quo (attualmente, come si è detto, di proprietà degli appellanti) esclusivamente ad alloggio di persona che svolgesse il servizio di portineria.


È poi pacifico in causa – ed è stato provato attraverso tutte le risultanze delle prove orali – che l’appartamento de quo, in maniera certa per lo meno dal 1945, non è stato adibito ad alloggio del portiere.


Ne consegue ineluttabilmente che l’originario vincolo di destinazione, inquadrato come si è detto nella figura dell’onere reale, è venuto meno per effetto della maturata prescrizione estintiva per non avvenuto esercizio ultraventennale delle facoltà derivanti in relazione all’uso per il quale era stato contrattualmente previsto, essendo irrilevante la destinazione dell’immobile ad abitazione della lavascale.

 

Né può convenirsi con il Tribunale secondo il quale l’eventuale diminuzione della destinazione funzionale dell’immobile de quo non ne travolge né ne estingue le finalità. Come si è detto innanzi, non si è in presenza di una limitazione o diminuzione dell’uso di un vincolo di carattere reale ma di una destinazione da parte del condominio del tutto diversa da quella inizialmente pattuita dalle parti per cui, una volta venuto meno per prescrizione estintiva l’originario vincolo di destinazione, il diritto dominicale degli attuali appellanti ha ripreso la sua completa espansione.


Va aggiunto che anche nel caso che il vincolo in questione volesse qualificarsi alla stregua di un diritto di servitù – che nella specie, comportando destinazioni apparenti, certamente è prescrittibile – si sarebbe comunque verificata la prescrizione estintiva per mancato esercizio ultraventennale.
Ad analoghe conclusioni si giungerebbe anche nella non ritenuta ipotizzabilità di una figura di vincolo pertinenziale. Come è noto, il concetto di pertinenza va rapportato all’effettiva e concreta volontà di destinazione da parte degli aventi diritto e la durata della destinazione non può supporre limiti prefissati di tempo, trattandosi di concetto necessariamente correlato alla natura della cosa. Orbene, dal momento che il condominio dal 1945 ha rinunziato al servizio di portierato e comunque è stata data al bene una destinazione del tutto diversa da quella originaria, è evidente che – essendo il vincolo pertinenziale legato al permanere nel tempo del servizio del portierato – sarebbe venuto meno quel collegamento funzionale pertinenziale fra l’appartamento Scala A int. 1 e gli altri appartamenti dello stabile.


L’accoglimento di tale motivo rende superfluo l’esame degli altri motivi.
Alla luce delle suesposte argomentazioni, in riforma della impugnata sentenza e  in accoglimento della domanda va dichiarato che l’appartamento scala A int. 1 è liberatodal vincolo di destinazione ad alloggio del portiere dello stabile per prescrizione estintiva del detto vincolo in relazione all’uso per il quale era stato originariamente stabilito.
(App. Genova, 4.10.1989)


Nella prospettiva di analisi che si è delineata ,sia per dare conto di ulteriori svolgimenti della riflessione dottrinale e della law in action  giurisprudenziale,sia per la necessaria elaborazione sistematica della materia si rendono poi necessari numerosi approfondimenti (continua)
 
(*) Questi materiali antologici raccolti da Andrea Fusaro sono parte di capitolo  del secondo volume di Poteri dei privati e statuto della proprietà, S.e.a.m. editore ,Roma 2002,dove si trattano gli argomenti segnalati dall’indice dell’opera (**).

(**)

INDICE DEL PRIMO VOLUME

Nozione e rilevanza costituzionale
PREMESSA 7
CAPITOLO PRIMO
Per una definizione della proprietà 9
1.1 La proprietà nel vocabolario giuridico 9
1.2 La prospettiva costituzionale 20
1.3 Nel quadro dei diritti dell’uomo 22
1.4 Le new properties 29
CAPITOLO SECONDO
La proprietà nei modelli stranieri e attraverso la comparazione 45
2.1 La proprietà nei modelli stranieri notevoli 45
2.1.A) Property 45
2.1.B) Proprieté 66
2.1.C) Eigentum 74
2.2 Lo ius aedificandi 79
2.3 L’espropriazione 92
2.4 Le immissioni 100
2.5 Diritti e rimedi in prospettiva comparatistica 107
2.6 Il trust 119
2.7 Trasferimento della proprietà e sistemi di pubblicità 125
2.8 Il numero chiuso dei diritti reali 140
471
CAPITOLO TERZO
La prospettiva dell’analisi economica 149
3.1 Un metodo di studio della proprietà. L’analisi economica del diritto 149
3.1.A) Introduzione 149
3.1.B) Le premesse dell’analisi economica del diritto:
il teorema di Coase 151
3.1.C) Diritto di proprietà e teoria economica 161
3.1.D) Costi transattivi e disciplina della proprietà:
la tesi di Posner 165
3.1.E) Costi transattivi e disciplina della proprietà:
la tesi di Calabresi e Melamed 170
3.1.F) La letteratura successiva 178
3.1.G) Alcuni ripensamenti 180
3.2 I property rights nell’analisi economica 207
3.2.A) La prospettiva rimediale 207
3.2.B) Il matrimonio tra comparazione e analisi economica 210
3.2.C) In tema di property rights 228
3.3 Il numero chiuso dei diritti reali tra teoria economica e property law 235
3.4 Le new properties nell’analisi economica 252
CAPITOLO QUARTO
La funzione sociale della proprietà 257
4.1 La proprietà nella Costituzione repubblicana del 1948.
I lavori dell’Assemblea Costituente 257
4.2 Le diverse letture dell’art. 42 Cost. 262
4.3 Le garanzie costituzionali della proprietà privata 279
4.4 La funzione sociale della proprietà. Profili storici e ideologici 291
4.5 Proprietà privata ed espropriazione 297
4.6 L’occupazione acquisitiva 304
4.7 La funzione sociale e la «socialità» nella Costituzione 318
4.8 La funzione sociale e la Costituzione materiale 320
4.9 Gli statuti della proprietà e la disciplina dei beni 331
4.10 La funzione sociale alla vigilia del nuovo millennio 340
CAPITOLO QUINTO
La proprietà e le proprietà 357
5.1 La proprietà tra diritto soggettivo e interesse legittimo 357
5.2 La proprietà e le proprietà 365
5.3 La proprietà conformata e la proprietà vincolata 369
5.4 Titolarità individuale e fruizione collettiva (beni culturali
e ambientali) 381
5.5 La proprietà edilizia 386
5.5.A) Le peculiarità della proprietà edilizia 386
5.5.B) Il bene «casa» e il diritto all’abitazione 389
5.5.C) La disciplina urbanistica ed edilizia 400
5.5.D) La proprietà dei suoli urbani 409
5.6 La proprietà agraria 412
5.6.A) La proprietà agraria e la disciplina del Codice civile 412
5.6.B) La proprietà agraria nella Costituzione 415
5.6.C) La legislazione speciale del primo dopoguerra:
la riforma agraria 423
5.6.D) L’accesso alla proprietà contadina e il diritto di prelazione
a favore dei coltivatori diretti 426
5.6.E) La tipizzazione dei contratti agrari 432
5.7 La proprietà dei gruppi 437
5.8 La proprietà fiduciaria 456
5.9 La proprietà-garanzia 465
Tavola delle abbreviazioni dei periodici italiani citati 470

 

INDICE DEL SECONDO VOLUME

POTERI DEI PRIVATI E STATUTO DELLA PROPRIETA’
IL CODICE CIVILE E LE LEGGI SPECIALI

CAPITOLO PRIMO
Dal Codice napoleonico al modello contemporaneo 7
1.1 I poteri del proprietario nella definizione di «proprietà»
del codice napoleonico 7
1.2 Le definizioni di «proprietà» nei codici italiani preunitari 21
1.3 La proprietà nello statuto albertino 25
1.4 La disciplina della proprietà nel Codice civile italiano del 1865 29
1.5 Proprietà e impresa. La vicenda del conflitto tra proprietari
terrieri e imprenditori di trasporti ferroviari 45
1.6 Proprietà e intervento dello Stato. Le opere pubbliche
e i lavori pubblici 55
1.7 Le trasformazioni del diritto di proprietà: (a) La proprietà
come potere relativo, limitato dal diritto pubblico 60
1.8 (b) L’idea di «funzione sociale» della proprietà nelle elaborazioni
del socialismo giuridico 73
1.9 (c) La legislazione di guerra 83
1.10 (d) La funzione sociale nei testi costituzionali. La Costituzione
di Weimar 87
1.11 Verso una nuova definizione di proprietà. L’interventismo
corporativo e la codificazione del 1942 95
1.12 La legislazione speciale. Proprietà agraria e proprietà edilizia 115
1.13 L’evoluzione successiva 128
CAPITOLO SECONDO
Una vicenda da concettuale: il numero chiuso dei diritti reali 149
2.1 Introduzione 149
2.2 La definizione di un dogma: la tesi di Venezian 152
2.3 Il diritto di cacciare sul fondo altrui. Uso e servitù irregolari 156
2.4 La trascrizione degli obblighi personali 171
2.5 Il principio del numero chiuso dei diritti reali sullo sfondo
della crisi del modello tradizionale di proprietà 183
2.6 Convenzioni di lottizzazione, asservimenti, cessioni di cubatura 207
2.7 La vicenda dei diritti reali nella dottrina recente 239
CAPITOLO TERZO
L’oggetto del diritto di proprietà 251
3.1 La nozione di oggetto del diritto di proprietà 251
3.2 I limiti all’appropriazione 263
3.2.A) Res nullius, caccia e pesca, le energie 263
3.2.B) Lo statuto del corpo umano 268
3.2.C) L’informazione, i programmi per elaboratori 271
3.2.D) Suolo e sottosuolo 277
3.3 L’ambiente come bene 290
CAPITOLO QUARTO
I limiti temporali al diritto di proprietà 301
4.1 La proprietà temporanea 301
4.2 La multiproprietà 308
CAPITOLO QUINTO
Il contenuto dei poteri del proprietario 323
5.1 Le limitazioni nell’interesse pubblico 323
5.2 La disciplina urbanistica ed edilizia 357
5.2.A) Nozione e ambito dell’urbanistica 357
5.2.B) La facoltà edificatoria 384
5.2.C) Autonomia privata e disciplina urbanistica 394
5.3 Il potere dei privati di vincolare la destinazione d’uso dei beni 414
5.4 La legislazione vincolistica 423
5.5 Immissioni e tutela della salute 430
Tavola delle abbreviazioni dei periodici italiani citati 446