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CONFLITTI AMBIENTALI GLOBALI E DIRITTO INTERNAZIONALE:

 

ATTORI E DINAMICHE PER UNA LORO RISOLUZIONE PACIFICA

(Estratto - Il testo integrale è in corso di pubblicazione presso Leo S. Olschki Editore, Firenze)

 

 

Avv. Federico Antich

 

 

La presente indagine è finalizzata a valutare se gli attuali strumenti apprestati in sede internazionale per porre rimedio ai problemi ambientali siano in grado di far fronte al rischio di degenerazione degli stessi in conflitti violenti. Ci si pone cioè l’obiettivo di comprendere se il diritto internazionale preveda oggi strumenti, tecniche ed organi idonei a prevenire e risolvere i cd. Conflitti Ambientali Globali, o se invece il perseguimento di tale obiettivo richieda l’impiego di nuovi strumenti (sostanziali e processuali) e l’emersione di nuovi soggetti.

 

1 - Globalizzazione e ambiente

Come dimostra il continuo aggravarsi delle problematiche ambientali - dalla crisi energetica, a quella climatica, a quella idrica, alla deforestazione -, l’attuale modello di sviluppo, basato su un irrazionale sfruttamento delle risorse, uno smisurato consumo di energia, una sovrapproduzione di rifiuti e di inquinamento, sta portando l’umanità verso un livello mai visto di degrado ambientale ed esaurimento delle risorse naturali disponibili[1]. L’uso delle risorse naturali, disancorato dai principi di solidarietà e ragionevolezza, «tende all’affermazione di un interesse personale o locale»[2] provocando crescenti livelli di ineguaglianza tra i diversi Paesi, e pregiudica altresì il diritto all’ambiente delle future generazioni, in aperto contrasto con il diritto della collettività a godere di un ambiente sano e ad avere libero accesso alle risorse ambientali[3]

La possibilità di arginare i problemi ambientali che affliggono il pianeta è certamente ancora praticabile[4], ma resta ancorata alla volontà di tutti di ricercare ed attuare un diverso approccio alle risorse dell’ambiente, le quali devono essere intese e preservate quale patrimonio comune dell’umanità. Soprattutto occorre favorire uno stretto coordinamento tra i governi, in una sorta di governance mondiale di emergenza: «una globalizzazione sì, ma dagli obiettivi esattamente opposti a quelli perseguiti dall’attuale sistema di mercato»[5].

La difficoltà che ciò avvenga in tempi ragionevoli non può non essere considerata. Vi è allora da chiedersi quali possano essere le conseguenze probabili e gli scenari che si aprirebbero nell’ipotesi in cui non si faccia abbastanza o non si faccia in tempo ad evitare il tracollo.

 

2 - Il rischio di degenerazione degli ecodisastri in conflitti

Nel valutare quali prospettive ci attendono in mancanza di adeguati interventi in campo ambientale, si rivela interessante riprendere le considerazioni formulate in relazione al cd. scenario business-as-usual[6], ossia allo scenario che potrebbe presentarsi nel caso in cui la società procedesse senza avviare adeguati processi diretti a preservare le risorse naturali e porre rimedio alle cd. crisi ambientali globali[7]. In tale contesto, in cui la tecnologia continua incessantemente ad avanzare, in cui la produzione industriale comporta l’emissione di sempre più sostanze inquinanti ed esige sempre più risorse non rinnovabili, in cui aumenta la popolazione mondiale e crescono i consumi pro capite, le crisi ambientali globali si rivelano sostanzialmente irrisolvibili, rendendo il futuro incerto in ordine alla possibilità di mantenere l’attuale livello di sviluppo, e comportando altresì il grave rischio di incidere sulle relazioni politiche, economiche e militari tra i Paesi del mondo. Il pericolo che si corre è cioè di determinare quelli che vengono definiti Conflitti Ambientali Globali (CAG), intesi come conflitti armati provocati dal degrado ambientale su scala planetaria.

 

3 - Il concetto di “Conflitto Ambientale Globale

Al fine di chiarire cosa si intende per CAG, pare utile operare una ricognizione della letteratura presente in argomento[8], valutando innanzitutto i risultati dell’indagine condotta nell’ambito del Progetto su Ambiente, Popolazione e Sicurezza dell’Università di Toronto, diretto da Thomas Homer-Dixon. Attraverso un’analisi empirica[9] delle relazioni esistenti tra scarsità delle risorse e conflitti, è emerso che elementi quali la riduzione quali-quantitativa delle risorse ambientali, la crescita della popolazione e la diseguaglianza nell’accesso a dette risorse conducono, singolarmente o in combinazione tra loro, ad un incremento della scarsità di terre coltivabili, corsi d’acqua, foreste e risorse ittiche per certi gruppi di popolazione. Può determinarsi così una riduzione della produttività, anche al di fuori del gruppo direttamente colpito, potendo addirittura incidere sull’economia di una intera Nazione. Le popolazioni colpite tendono ad emigrare verso nuove terre, dando luogo a consistenti flussi migratori in grado di destabilizzare il Paese di origine e quello di destinazione, aggravando tensioni etniche, razziali e religiose, incrementando le differenze di benessere e potere tra gruppi sociali ed indebolendo le istituzioni sociali e politiche.

Tali conseguenze, che Homer-Dixon inquadra come effetti sociali intermedi della scarsità di risorse, contribuiscono a compromettere lo status quo favorendo l’insorgere di conflitti sia all’interno dei Paesi che tra essi[10]. La riduzione delle risorse disponibili, secondo Homer-Dixon, solo raramente contribuirebbe in modo diretto a provocare conflitti tra Stati[11].

I risultati del progetto paiono, da un lato, non identificare l’esistenza di un nesso diretto ed esclusivo tra il conflitto ed il fattore ambientale che lo avrebbe scatenato, potendo interagire con questo altri fattori di ordine sociale, religioso, economico ed etnico[12]; dall’altro, gli stessi devono essere presi con le dovute cautele in un eventuale processo di generalizzazione che intendesse rapportarli sul piano mondiale, dal momento che ogni situazione presenta propri aspetti peculiari[13].

Nel solco di indagine tracciato da Homer-Dixon, benché su presupposti differenti, si pone il Progetto su Ambiente e Conflitti promosso dall’Istituto Tecnico Federale di Zurigo, in collaborazione con la Fondazione Elvetica per la Pace di Berna che, muovendo da un’indagine di casi[14], si è incentrato sui conflitti armati, attuali o potenziali, a bassa e ad alta intensità, offrendo anche una griglia di riferimento concettuale assai utile per inquadrare le possibili cause dei conflitti ambientali in un’ottica di Peace and Ecology compatibility analysis e permetterne, così, una loro più agevole risoluzione[15].

Essa ha altresì il pregio di pervenire ad una analitica formulazione del concetto di CAG, quali conflitti di tipo politico, sociale, economico, etnico, religioso o territoriale, oppure conflitti per risorse o per interessi nazionali: essi costituiscono dunque dei conflitti in senso tradizionale, ma indotti dal degrado ambientale sotto forma di sovrasfruttamento delle risorse rinnovabili; eccessivo impiego delle capacità ambientali di assorbimento dei rifiuti; impoverimento dell’habitat naturale[16].

Un diverso e più recente filone d’indagine è rappresentato dagli studi condotti dall’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Oslo, nell’ambito del “Programma sulla sicurezza del genere umano ed i mutamenti ambientali globali”, la cui ottica di indagine appare degna di nota in quanto focalizzantesi su aspetti di carattere qualitativo e non più solo quantitativo[17]. Il taglio adottato permette di enfatizzare, nella dicotomia scarsità/degrado presente nella definizione di CAG, il secondo dei due elementi e consente di precisare che i CAG non si esauriscono nei conflitti direttamente o indirettamente correlati alla penuria di risorse naturali[18].

Il presente escursus[19] permette di inquadrare il concetto di CAG, anche se presenta il limite di condurre a risultati necessariamente teorici, non potendo essere verificati empiricamente. Resta comunque l’indubbio pregio di avere esaminato analiticamente il fattore ambiente - e, in particolare, i fenomeni di deterioramento ambientale - come causa di conflitti: anche solo l’eventualità che essi possano verificarsi in futuro giustifica non solo la continua attenzione verso di essi, ma anche l’apprestare strumenti idonei per gestirli o, meglio, per evitarli.

(...)

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[1] Cfr. NESPOR (2002), 1 ss.; Federazione Internazionale degli Amici della Terra (a cura di), Verso un'economia sostenibile: nuove regole per la globalizzazione economica, www.amiciterra.it/NEWSLETT/news19/economiasos.htm

[2] LETTERA (1992), 235-236.

[3] Il diritto fondamentale dell’uomo all’ambiente ha trovato affermazione già nella Dichiarazione di Stoccolma del 1972, che ha sancito, da un lato, il diritto di ognuno alla libertà, all'uguaglianza e a condizioni di vita soddisfacenti, in un ambiente che gli consenta di vivere nella dignità e nel benessere, e, dall’altro, il suo corrispondente dovere di proteggere l'ambiente a favore delle generazioni presenti e future.

[4] BROWN - FLAVIN - POSTEL (1991), descrive come sviluppare un’economia meno inquinante al fine di evitare l’aggravarsi della crisi energetica.

[5] DI FAZIO (2002).

[6] MEADOWS ET AL. (1972), 25.

[7] Per una disamina delle principali problematiche ambientali globali, cfr. BROWN ET AL. (2000), nonché il sito del Worldwatch Institute, www.worldwatch.org.

[8] Cfr. EHRLICH - GLEICK - CONCA (2000); ROMANO (2000), 13-24.

[9] Gaza, Haiti, Pakistan, Rwanda e Sud Africa.

[10] Cfr. HOMER DIXON (1991), 76 ss.; ID. (1995).

[11] ZEBICH-KNOS (1998) osserva come i cambiamenti ambientali possano portare a differenti tipologie di conflitto che vanno dalle dispute diplomatiche e commerciali al terrorismo fino a sfociare in vere e proprie guerre.

Un’altra definizione di conflitto ambientale è proposta da DOKKEN - GRAEGHER’S (1995), 38 ss., quale «conflitto che coinvolge lo stress o il degrado ambientale sia come causa, come conseguenza o come variabile incidente, magari combinata ad elementi sociali, etnici o politici».

[12] Con riferimento ai conflitti indotti, oltre che da cause ambientali, anche da ragioni etniche, religiose ecc., alcuni ricercatori preferiscono utilizzare il termine “environmentally-induced conflict”, piuttosto che il generico “environmental conflict”. In proposito LIBISZEWSKI (1992). Per un’indagine ENCOP sui diversi tipi di conflitti e relative cause, cfr. MOLVÆR REIDULF (1991), 175-188.

[13] DABELKO (1996) critica la ricerca effettuata da Homer Dixon in quanto i casi riportati a supporto delle argomentazioni espresse risultano quantitativamente ridotti e geograficamente circoscritti ai Paesi del Terzo Mondo. Secondo DEUDNEY (1990), 461-476, la scarsità delle risorse ambientali non necessariamente genera conflitti, avendo gli Stati la possibilità di colmare la propria carenza di una determinata risorsa operando sui mercati internazionali. Dello stesso autore si vedano DEUDNEY (1991), 23-28; DEUDNEY - RICHARD (1999).

[14] Bangladesh, Asia Centrale, Rwanda, M.O., Sudan e Nigeria.

[15] Cfr. BOGE (1992).

[16] LIBISZEWSKI (1992).

[17] Cfr. DIEHL - GLEIDITSCH (2000).

[18] WESTING (1986).

[19] Altri contributi sul tema sono stati forniti da BYRES (1991), 65 ss., il quale è convinto che i conflitti ambientali possano nascere dalla non coincidenza tra confini politici e confini ecologici, come nei casi in cui due o più Stati condividono una medesima ecoregione e nei casi in cui singoli Stati occupano più di una ecoregione; da SHIN-WHA LEE (2001), 73 ss., che identifica le fasi che conducono ad un ecoconflitto; nonché dal Programma sulla Dimensione Umana Internazionale dei mutamenti ambientali del Comitato Nazionale Elvetico, l’Istituto Belga di Ricerca e Formazione sulla Pace e la Sicurezza e l’Istituto di Ricerca sulla Pace di Tampere, il quale, tuttavia, tratta l’argomento in un’ottica strettamente locale.