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Modelli economici per comprendere il decentramento energetico
ALBERTO CALVI
	Il settore energetico ha subito 
    in Italia un lento processo di trasformazione innescato dalla normativa 
    europea e descritto nel corso della prima parte del presente lavoro. Le due 
    direttive del 1996 e del 19981, 
    prevedendo norme comuni per i mercati interni dell'energia elettrica e del 
    gas naturale ed aspirando alla costituzione di un mercato unico europeo 
    dell'energia, hanno spinto i diversi paesi membri nella direzione della 
    liberalizzazione.
    Non è obiettivo di chi scrive studiare nelle pagine che seguono i motivi 
    teorici che sottostanno a tale scelta e che devono ricercarsi, stanti i 
    valori economico-liberali sui quali si basano tutti gli Stati membri 
    dell'Unione Europea, nella teoria economica neoclassica. Essa, infatti, 
    riconosce l'efficienza del mercato, cioè la sua capacità di allocare in modo 
    efficiente (a costi e prezzi minimi) i mezzi produttivi tra le imprese, 
    nonché i beni prodotti tra i consumatori. Da tale considerazione generale, è 
    discesa la necessità politica di trasformare il settore energetico, da 
    ambito d'intervento per monopolisti pubblici a mercato libero nel quale le 
    imprese private possano agire in base ai principi concorrenziali.
    Nei paragrafi che seguono, si farà pertanto un breve cenno alla teoria 
    dell'intervento pubblico, concentrandosi maggiormente sulla teoria economica 
    del decentramento. L'obiettivo è comprendere quali siano le motivazioni 
    economiche che sottostanno al processo di decentramento intrapreso nel 
    settore energetico italiano. 
    
    
    1. Cenni sulla teoria dell'intervento pubblico
    
    La teoria dell'intervento pubblico insieme con la Public finance (Hammond, 
    1990) costituiscono la base dell'Economia pubblica per l'identificazione 
    delle caratteristiche e delle motivazioni dell'intervento pubblico 
    nell'economia.
    Si tratta di un argomento assai vasto la cui trattazione completa 
    richiederebbe ben altro spazio. Sarebbe, infatti, necessario illustrare i 
    concetti di efficienza allocativa, di mercato e di configurazione 
    industriale per comprendere e descrivere l'"ambiente" nel quale operano 
    imprese e consumatori, utilizzare i concetti di giustizia distributiva e di 
    libertà (sia in senso positivo sia negativo) per valutare i diversi assetti 
    del mercato, dibattere dei fallimenti di mercato e dei processi decisionali 
    democratici (cui si riferisco il teorema dell'impossibilità di Arrow e la 
    tesi dell'"Impossibilità del liberale paretiano" di Sen) per giungere 
    finalmente all'eventuale necessità di un intervento pubblico ed alle 
    conseguenti difficoltà che incontra l'azione statale. 
    Inoltre, non si dovrebbe fare riferimento unicamente al mainstream economico 
    neoclassico e liberale, dato che le varie scuole di pensiero e le varie 
    ideologie hanno fortemente influenzato il modo di dibattere l'argomento in 
    questione. Lo spettro delle posizioni derivanti dalle diverse impostazioni 
    varia quindi da quelle degli economisti ultraliberali e dei politologi 
    fautori di uno stato minimale, agli economisti di scuola marxista per i 
    quali lo stato, attraverso la programmazione economica, può sostituire tout 
    cour il ruolo del mercato.
    Prescindendo tutto ciò, tradizionalmente la catena di nessi causali che 
    determina la necessità dell'intervento statale deriva dal Primo teorema 
    fondamentale dell'economia del benessere che fornisce gli elementi per la 
    definizione del "primato del mercato" come strumento di allocazione delle 
    risorse. 
    Il primo ed il secondo teorema fondamentale dell'economia del benessere 
    possono essere comunemente intesi come i principali risultati teorici 
    raggiunti dagli economisti della "nuova economia del benessere". Ad Arrow e 
    Debreu (1951) si deve la dimostrazione del primo di tali due teoremi. 
    Basandosi sulle ipotesi che i consumatori e le imprese agiscano da 
    price-takers, cioè adottando comportamenti perfettamente concorrenziali, che 
    esista un insieme completo di mercati, tramite i quali le merci vengono 
    allocate agli agenti, e che sia presente una perfetta informazione degli 
    agenti, i due economisti giunsero alla conclusione che l'eventuale 
    equilibrio competitivo raggiunto, se esiste, è efficiente in termini 
    paretiani.
    In altre parole, ciò significa che mercati perfettamente competitivi e 
    completi portano ad allocazioni Pareto-efficienti2.
    
    Tuttavia esistono i cosiddetti "fallimenti di mercato". Essi altro non sono 
    che il venir meno delle ipotesi assunte nel teorema, "imperfezioni" del 
    mercato come le esternalità, i beni pubblici, l'assenza di mercati futuri e 
    contingenti, i rendimenti di scala crescenti, ecc. Tali fallimenti, assai 
    diffusi nella realtà, forniscono la motivazione fondamentale dell'intervento 
    pubblico come correttivo delle imperfezioni e delle inefficienze del libero 
    mercato (Petretto, 1993).
    Il Secondo teorema fondamentale dell'economia del benessere fornisce invece 
    la seconda motivazione tradizionale per l'intervento pubblico in economia. 
    Strettamente legato al primo, il secondo teorema fondamentale si basa sulle 
    stesse ipotesi alle quali si aggiungono alcune condizioni tecniche di 
    regolarità e convessità degli insiemi rilevanti, e la possibilità di 
    realizzare trasferimenti a somma fissa, cioè personalizzati e non distorsivi. 
    Ne consegue allora che ogni allocazione Pareto-efficiente, in particolare 
    quella eticamente desiderata sulla base di una qualche teoria end-state 
    della giustizia3(Zamagni, 
    1986; Dasgupta, 1989), può essere raggiunta tramite mercati perfettamente 
    competitivi. In sostanza, decentralizzando l'economia tramite prezzi 
    competitivi ed effettuando appropriati trasferimenti interpersonali4 
    allo scopo di alterare la distribuzione delle dotazioni iniziali nella 
    direzione voluta.
    Efficienza ed equità sono i due elementi dicotomici del cosiddetto "big 
    trade-off", le categorie sulle quali modellare un intervento pubblico in 
    grado di raggiungere risultati desiderabili per la collettività, i valori e 
    le finalità perseguibili anche separatamente.
    Infine la teoria moderna dell'Economia pubblica, affermatasi nell'ultimo 
    ventennio, introduce nuove variabili e considerazioni che modificano 
    l'automaticità della logica esposta in precedenza giungendo ad una teoria 
    dell'intervento pubblico molto più articolata. 
    
    1.1 Brevi valutazioni sul settore energetico
    
    Molte considerazioni derivanti dall'impostazione sopra descritta, stante le 
    caratteristiche politiche, economiche e tecnologiche del settore energetico, 
    hanno portato in Italia e in molti altri paesi europei alla costituzione di 
    monopoli pubblici. 
    Tali stati hanno, infatti, considerato l'energia, o meglio 
    l'elettrificazione e più recentemente la metanizzazione (problema che rimane 
    tuttora vivo nel nostro meridione) come un bene pubblico. Come si è visto, 
    tale bene poteva essere fornito solo dallo stato, attraverso una sua 
    impresa. Sono infatti le imprese pubbliche che, grazie ai trasferimenti 
    gravanti sulla collettività, hanno potuto raggiungere gli obiettivi 
    prefissati come, per esempio, la totale elettrificazione nazionale anche in 
    quelle zone il cui raggiungimento risultava economicamente sfavorevole. In 
    tal senso può ricordarsi l'esempio einaudiano del servizio postale, nel 
    quale si sottolineava il rischio che, ove l'estensione della prestazione di 
    tale servizio fosse lasciata alla sola legge di mercato del profitto 
    maggiore dei costi, essa sarebbe limitata ai soli centri abitati di 
    dimensioni redditizie, lasciando privo di copertura l'esemplificativo 
    "paesino di montagna" (Einaudi, 1945).
    Una volta venuti meno o raggiunti gli obiettivi di cui si diceva in 
    precedenza, gli Stati europei, sotto lo stimolo comunitario, stanno tuttora 
    procedendo alla liberalizzazione e privatizzazione degli ex-monopolisti.
    Non solo: l'energia è stata, è e sarà il fulcro della nostra vita, il 
    sinonimo per antonomasia di sviluppo, di crescita, di qualità della vita. In 
    quanto variabile strategica, ogni stato è intervenuto e dovrà intervenire 
    nel settore (si pensi alla politica ed alla programmazione energetica) per 
    garantirsi la stessa sopravvivenza. 
    Infine l'energia, in quanto sistema a rete, è vincolata ad una 
    infrastruttura di trasporto. Tale rete, peraltro, è da considerarsi come una 
    di quelle fasi della filiera energetica che costituisce un monopolio 
    naturale, cioè è economicamente impensabile che un privato possa duplicarla 
    costruendone una nuova. Che essa sia pubblica o privata, la sua gestione 
    (l'accesso degli operatori) è requisito essenziale per il funzionamento 
    dell'intero sistema, pertanto l'accesso a tale infrastruttura deve essere 
    comunque regolamentata onde permettere lo sviluppo di un mercato.
    Ancora, le infrastrutture energetiche creano notevoli problemi d'impatto 
    ambientale e come ovvio queste sono l'emblema stesso delle esternalità 
    negative. In considerazione di tutto ciò, è indispensabile l'intervento 
    pubblico nel settore energetico.
    
    
    2. La teoria del decentramento
    
    La teoria del decentramento è una branca della teoria dell'Economia 
    pubblica, e fa quindi parte di quella che in Italia è nota come Scienza 
    delle finanze. Sviluppatasi a partire dal secondo dopoguerra, l'argomento di 
    studio è l'intervento pubblico nell'economia, visto solitamente da un lato 
    come fornitura di beni pubblici e dall'altro come imposizione fiscale. 
    L'obiettivo è la comprensione di quale possa essere la migliore struttura di 
    un governo e il livello ottimale al quale affidare gli interventi in ambito 
    economico.
    Nella teoria del decentramento vengono individuati tre modelli di governo 
    territoriale:
     Il sistema funzionale, detto anche della deconcentrazione, è tipico degli 
    stati fortemente centralizzati. Secondo tale sistema, il settore pubblico è 
    strutturato in vari enti che hanno competenza sull'intero territorio 
    nazionale e sono dotati di una singola funzione o responsabilità. La 
    fissazione di standard, di qualunque genere, è definita uniformemente 
    sull'intero territorio nazionale. Nei paesi dove sono presenti enti locali 
    autonomi, come comuni e province, il sistema della deconcentrazione li 
    utilizza alla stregua delle diramazioni locali dei ministeri. Gli enti 
    locali sono quindi agenti del governo nazionale, dato che ne sono sottoposti 
    ai controlli e ne attuano le direttive. 
    L'obiettivo principale di questo sistema è quello di garantire sull'intero 
    territorio nazionale sia l'efficienza, sia l'uniformità delle prestazioni, 
    ma ci si deve scontrare con la complessità del sistema, con il difficoltoso 
    controllo dell'operato degli organismi periferici e con la limitata 
    possibilità di adattare le performance alla realtà delle diverse zone del 
    paese, quindi alle preferenze dei cittadini che le abitano.
    Esistono due varianti del sistema della deconcentrazione: quello 
    prefettizio, utilizzato fino al 1981 in Francia, dove il prefetto esercitava 
    poteri di indirizzo e controllo sugli uffici locali dei vari ministeri, e 
    quello funzionale, applicato prima del 1970 in Italia, dove il prefetto 
    aveva poteri più limitati occupandosi quasi esclusivamente di ordine 
    pubblico.
     Il sistema della decentralizzazione spaziale, detto anche della 
    devoluzione, è basato sulla ripartizione fra organi di diverso livello di 
    governo delle competenze nelle varie materie. Legittimati dall'elezione 
    popolare dei vari organi, i governi sub-nazionali hanno competenza su una 
    determinata area territoriale e su determinate materie, disponendo di un 
    bilancio e di entrate proprie. "Le unità locali, sono autonome, indipendenti 
    e considerate chiaramente come livelli separati di governo, sui quali le 
    autorità centrali esercitano un esiguo livello di controllo, quando lo 
    esercitano"5.
    I sistemi regionali esistenti ad oggi in paesi come l'Italia, la Spagna e la 
    Francia, rientrano in questa categoria. La regionalizzazione ha devoluto 
    poteri legislativi ed amministrativi che prima erano di competenza centrale 
    ad un livello intermedio dotato di una dimensione comunque rilevante.
    Il modello della devoluzione, pone quindi l'accento sulla responsabilità e 
    sulla soddisfazione delle preferenze dei cittadini.
     Il sistema federale, che nasce da un accordo tra stati (appunto, 
    federati), assegna ad essi maggiori competenze che in un sistema di 
    decentralizzazione spaziale, offrendo loro maggiore autonomia ed anche 
    maggiori garanzie sulla stabilità del quadro delle competenze.
    Prescindendo dal modello di decentramento prescelto, la decentralizzazione 
    presenta molti vantaggi, diversamente enfatizzati dalle diverse dottrine 
    politiche, sociali, economiche.
    Innanzitutto si potrebbe affermare che un governo decentralizzato è, per 
    l'organizzazione politica, ciò che un mercato è per l'economia (Brosio, 
    2003): un sistema che offre ai cittadini maggiori opportunità di scelta e 
    alle istituzioni spazi e stimoli per la competizione. Inoltre è da notarsi 
    come la decentralizzazione renda il governo più vicino al popolo, favorendo 
    il coinvolgimento dei cittadini nella gestione degli affari pubblici e 
    rafforzando le possibilità di controllo sui governanti. Ma non basta, 
    infatti, un sistema decentrato offre maggiori tutele delle minoranze in 
    società piuttosto differenziate, anche se sul piano pratico spesso ciò si 
    traduce nella prevaricazione da parte di potenti minoranze e in 
    comportamenti egoistici.
    Altri teorici, legati alla teoria sociologica dell'organizzazione, 
    sostenevano che vi fossero evidenti limiti alla capacità amministrativa di 
    un governo centrale, pertanto la decentralizzazione era un modo quasi 
    obbligato per aumentare l'efficienza amministrativa. I progressi fatti nelle 
    comunicazioni, nel trasporto e nel trattamento delle informazioni, hanno 
    innalzato la dimensione minima efficiente (i piccoli governi multifunzionali 
    sono storicamente inefficienti), anche se le catene di comando sono più 
    corte e quindi meglio gestibili e controllabili nei governi di piccole 
    dimensioni.
    Un'altra motivazione che rende interessante il decentramento a favore di 
    governi locali, è la maggiore possibilità di sperimentare, e quindi 
    innovare, nelle politiche svolte. Ci si riferisce in questo caso sia al 
    ragionamento banale che sottolinea la molteplicità-numerosità dei governi 
    locali, sia all'implicita possibilità che i trasferimenti dal governo 
    centrale contengano incentivi a comportamenti innovatori.
    Per i teorici del federalismo competitivo, invece, il vantaggio di un 
    sistema di governo decentralizzato deriva dalla competizione tra poteri e 
    dai conseguenti effetti benefici sul funzionamento del settore pubblico nel 
    suo complesso. Ciò si verifica perché un cittadino, nel tentativo di 
    soddisfare una propria necessità, può rivolgersi di volta in volta o al 
    governo centrale o a quello locale, oppure può mettere a confronto l'operato 
    del proprio governo locale con quello di un'altra città o regione. In questo 
    modo si mette in competizione il governo nazionale con quelli locali o i 
    governi locali tra di loro. Il primo tipo di confronto determina una 
    competizione verticale che trae origine dalla sovrapposizione degli effetti 
    di politiche diverse affidate a governi diversi; nel secondo caso si ha una 
    concorrenza orizzontale che induce alla mobilità e al confronto politico. Il 
    fenomeno della mobilità può essere illustrato con il modello di Tiebout: i 
    cittadini insoddisfatti delle politiche attuate dai propri governi locali 
    andranno a risiedere in altre località, provocando in tal modo, competizione 
    tra i governi attraverso il meccanismo noto come "voto con i piedi". Su 
    questo modello si basa la competizione per lo sviluppo locale: i governi 
    cercheranno di attrarre sul proprio territorio le attività economiche, vista 
    la mobilità delle imprese e, più in generale, del capitale. Il secondo 
    modello, meno noto ma più realistico per quanto riguarda il comportamento 
    della cittadinanza, è stato inizialmente sviluppato da Pierre Salmon. 
    Secondo l'autore i cittadini non spostano la propria residenza, ma valutano 
    i diversi enti politici confrontando le prestazioni percepite e modificando 
    il proprio voto politico sulla base di tale confronto. La valutazione in 
    questione può riguardare sia governi locali di diverso colore politico, sia 
    i programmi dei diversi partiti su base nazionale. Tutti questi modelli, 
    essendo di tipo concorrenziale, sono basati sulle ipotesi neoclassiche 
    richiamate nel primo paragrafo, di particolare importanza risulta pertanto 
    l'assenza di esternalità.
    Secondo la teoria contrattualista, il governo è visto come il risultato di 
    uno specifico ed implicito contratto tra cittadini e politici, i cui 
    elementi sono le promesse elettorali dei politici e la promessa dei 
    cittadini di rieleggerli, in caso di soddisfazione. Tale contratto dovrebbe 
    portare i politici ad impegnarsi esattamente per ottenere la rielezione, ma 
    i contratti in essere sono incompleti, nel senso che alcuni parametri 
    rilevanti sono non osservabili e non certificabili. Normalmente in simili 
    casi gli esiti del contratto possono essere differenti, dipendendo anche 
    dalla parte cui viene attribuito il diritto di intraprendere determinate 
    azioni dipendenti dalle informazioni non certificabili, ad esempio se sono 
    gli elettori locali o nazionali che hanno il diritto di eleggere il governo. 
    La scelta tra un governo centrale o decentralizzato è quindi pensabile come 
    l'attribuzione del diritto di decidere la rielezione del governo a livello 
    locale o nazionale, e tali governi sono pertanto caratterizzati da un 
    diverso grado di controllabilità da parte degli elettori. Esiste quindi un 
    trade-off tra benefici del coordinamento ed i costi sociali derivanti della 
    mancanza di responsabilità nei confronti delle singole comunità. Va altresì 
    sottolineato che la presenza o meno di particolari fattori casuali, come 
    l'omogeneità nazionale delle preferenze o eventuali difficoltà di percezione 
    degli elettori, potrebbe spingere un governo centrale a non differenziare 
    territorialmente le proprie politiche; così come, al contrario, la sempre 
    maggiore importanza che rivestono le elezioni nazionali potrebbe spingere il 
    governo centrale ad una sorta di iperattivismo nei confronti delle diverse 
    realtà locali.
    
    2.1 I modelli
    Di seguito sono illustrati i modelli fondamentali della teoria del 
    decentramento. Sono tutti caratterizzati dall'assegnazione 
    all'amministrazione pubblica del compito della fornitura di beni pubblici, 
    spesso di carattere locale.
    Si rimanda, invece, al paragrafo conclusivo per le considerazioni relative 
    al problema dell'attribuzione delle competenze politiche ed amministrative 
    tra i diversi livelli di governo.
    
    2.1.1 Il teorema di decentramento di Oates
    Nel modello sviluppato da Oates (1972), la decentralizzazione trae la 
    principale giustificazione dalla sua capacità di soddisfare le preferenze di 
    un numero maggiore di cittadini rispetto ad un sistema centralizzato. Ci 
    sono alcune e decisive ipotesi sottostanti:
     il governo nazionale non è in grado di differenziare territorialmente le 
    proprie politiche;
     le preferenze all'interno delle singole comunità locali sono omogenee;
     le politiche pubbliche non creano effetti di spillover tra le 
    giurisdizioni;
     la produzione dei beni pubblici locali avviene a costi costanti.
    In un siffatto modello, composto magari da solo due comunità locali, il 
    governo centrale soddisferà con le proprie politiche una fittizia preferenza 
    media nazionale, non soddisfacendo in realtà nessuna delle due (salvo il 
    caso di totale uniformità delle preferenze); al contrario i due governi 
    locali, andrebbero a soddisfare esattamente la totalità della popolazione, "fittando" 
    con precisione le curve di preferenza locali.
    La soluzione decentralizzata sembra quindi permettere, consentendo di 
    massimizzare la rendita dei consumatori, la soddisfazione delle preferenze 
    di un maggiore numero di persone rispetto a quella centralizzata, che 
    risulta pertanto inefficiente. 
    Secondo le regole decisionali presenti nelle moderne democrazie, che 
    affidano a ciascun cittadino uguale potere decisionale, cioè un voto, la 
    forma di governo decentralizzata risulta quindi superiore. Ma i nostri 
    sistemi democratici non tengono conto del possibile interesse più intenso 
    che un cittadino, rispetto ad un altro, può avere nei confronti di una 
    determinata materia. Il benessere collettivo è quindi considerato solo in 
    termini molto approssimativi dai sistemi elettorali democratici e, se il 
    benessere individuale potesse essere calcolato, il sistema di governo 
    decentralizzato sarebbe preferibile soltanto in presenza di omogeneità delle 
    preferenze all'interno delle comunità locali. Si può quindi affermare che il 
    criterio democratico interpretato in base alla percentuale di persone 
    soddisfatte propende per la soluzione decentralizzata; il criterio 
    economico-utilitaristico consistente nella massimizzazione del benessere 
    favorisce la soluzione centralizzata se la disomogeneità media delle 
    preferenze è maggiore all'interno delle giurisdizioni locali che a livello 
    nazionale.
    
    2.1.2 Il modello di Tiebout
    Il modello di Tiebout, esposto in un saggio pionieristico del 1956 (quindi 
    prima che Oates costruisse il proprio), è basato sul federalismo 
    concorrenziale che prevede la perfetta mobilità dei cittadini.
    In precedenza Samuelson (1954), analizzando il problema della fornitura dei 
    beni pubblici, aveva dimostrato che non esisteva alcun sistema 
    decentralizzato dei prezzi che potesse servire a determinarne, in modo 
    ottimale, i livelli di consumo collettivo. In una siffatta situazione 
    pertanto, l'allocazione dei beni pubblici non può essere affidata al 
    mercato, ma va guidata attraverso un meccanismo di scelta pubblica. In virtù 
    delle esternalità di tali beni pubblici, i cittadini possono godere dei 
    benefici anche senza contribuire al loro finanziamento ed hanno quindi un 
    incentivo a non rivelare le proprie preferenze.
    Per Tiebout il problema della non rivelazione delle preferenze si poneva 
    solo per i beni ed i servizi pubblici che richiedono l'intervento del 
    governo centrale. Tali beni, infatti, necessitano di un procedimento 
    politico (una votazione) per verificare quale sia la domanda espressa dagli 
    elettori. Al contrario, per i beni pubblici locali, è ipotizzabile che i 
    cittadini manifestino le proprie preferenze attraverso il meccanismo della 
    mobilità residenziale. Così scriveva Tiebout: "allo stesso modo in cui è 
    possibile visualizzare il consumatore nell'atto di spostarsi verso un 
    negozio privato per acquistare i beni di cui necessita e i cui prezzi sono 
    fissati, così possiamo immaginare lo stesso consumatore dirigersi verso una 
    comunità locale ove i prezzi (le imposte) dei servizi forniti sono 
    ugualmente fissati. Ambedue i movimenti conducono il consumatore al mercato. 
    In un'economia di tipo spaziale non vi è possibilità alcuna, per il 
    cittadino, di non rivelare le proprie preferenze. La mobilità spaziale 
    costituisce, nel settore dei beni pubblici locali, quel che è il fare gli 
    acquisti nel mercato dei beni privati"6.
    Tiebout immagina così una federazione come un mercato dei beni pubblici 
    locali, all'interno del quale ogni cittadino può sceglierne il paniere che 
    preferisce semplicemente spostandosi dove esso viene fornito. Essenziale è a 
    questo punto l'esistenza di un buon numero di giurisdizioni che competono 
    nell'offrire beni e servizi locali ai cittadini. Maggiore è tale numero, più 
    elevata è la probabilità che il cittadino individui la comunità che meglio 
    risponde alle proprie esigenze, che vada a risiedervi e che l'allocazione 
    delle risorse finisca con l'essere tanto efficiente quanto lo è in un 
    mercato di beni privati.
    Per raggiungere tali obiettivi, è necessario però che siano soddisfatte 
    alcune ipotesi:
     i consumatori sono perfettamente mobili e razionali, si spostano cioè 
    nelle comunità dove l'offerta di beni e servizi locali soddisfa al meglio le 
    proprie preferenze;
     i cittadini dispongono di una perfetta informazione, sia relativamente ai 
    panieri di beni e servizi offerti, sia sulle imposte necessarie per il loro 
    finanziamento;
     i cittadini guadagnano redditi non da lavoro (dividendi), pertanto non 
    esistono restrizioni alla mobilità individuale derivante da problemi 
    occupazionali;
     esiste un numero di giurisdizioni sufficiente da soddisfare le preferenze 
    di tutti i cittadini. Non vi sono pertanto barriere alla costituzione di 
    nuove comunità;
     non esistono effetti di spillover tra comunità confinanti;
     ogni giurisdizione produce beni in base ad una funzione caratterizzata da 
    costi unitari costanti.
    
    2.1.3 La teoria dei club
    La teoria dei club è stata sviluppata da Buchanan (1965) per illustrare un 
    meccanismo efficiente di fornitura dei beni pubblici impuri, cioè 
    escludibili e la cui godibilità dipende da un effetto di congestione. Il 
    club deve risolvere due problemi di ottimalità fra loro indipendenti: la 
    dimensione del club, data dai suoi membri e il livello di produzione del 
    paniere di beni.
    L'esempio, diventato poi modello per spiegare come può nascere il club, è 
    quello della piscina. Dato che i singoli cittadini, ad eccezione di quelli 
    molto ricchi, non potrebbero sostenere la spesa per costruirsi una piscina, 
    si possono associare in un club per beneficiare delle conseguenti economie 
    di scala. La teoria dei club assume le seguenti ipotesi:
     il costo per la discriminazione nei confronti dei non soci è zero;
     i costi e benefici sono suddivisi in maniera eguale tra tutti i soci;
     tutti i soci massimizzano una funzione dell'utilità del tipo: maxUi(Bip,C,G)
    In tale funzione d'utilità il terzo argomento, che rappresenta la dimensione 
    del club, internalizza nella funzione medesima eventuali congestioni o 
    economie di scala, mentre i primi due argomenti rappresentano il consumo di 
    beni privati e del bene fornito dal club.
    Ovviamente la quantità ottima da produrre è quella che massimizza la rendita 
    dei consumatori e che quindi avviene ai costi medi minimi. Data la forma 
    della curva dei costi, nel punto di costo minimo sono state colte tutte le 
    economie di scala consentite e gli effetti negativi del congestionamento non 
    hanno ancora preso il sopravvento.
    L'equilibrio viene raggiunto se esiste un numero ottimale di club i cui 
    componenti massimizzino la loro funzione di utilità, in modo che nessuno 
    abbia la convenienza a spostarsi dal club dove è inserito. In un tale 
    stadio, ogni club sarebbe ottimamente dimensionato e tutti godrebbero dello 
    stesso livello di benessere data l'ipotesi d'omogeneità delle preferenze.
    
    2.1.4 Il modello senza mobilità (la concorrenza orizzontale)
    I modelli elaborati da Tiebout e Buchanan, sebbene abbiano raggiunto fama e 
    trovato posto sui libri di testo, non sono poi così credibili nella loro 
    ipotesi di perfetta mobilità dei contribuenti, soci o elettori: non è 
    possibile pensare ad una mobilità così totale da costituire un mercato. Un 
    modello competitivo che prescinde da tale ipotesi è stato elaborato in due 
    versioni simili, nel 1987 da due economisti: Breton, canadese e Salmon, 
    francese.
    Come nel modello di Tiebout, anche in questo caso si ritrova l'assunzione di 
    un mercato virtuale, cioè privo di una sua precisa collocazione spaziale, ma 
    ora gli enti locali (i club) avrebbero un marketing più aggressivo. Si 
    immagina infatti che gli amministratori degli enti locali entrino in 
    competizione per soddisfare meglio le preferenze dell'elettore. Questi viene 
    posto al centro del mercato politico virtuale come se perdesse il suo 
    specifico radicamento nel territorio.
    La differenza col modello di Tiebout è semplice: nel modello di metà anni 
    cinquanta il "voto con i piedi", cioè un meccanismo "implicito" di 
    rivelazione delle preferenze, sostituiva quello formale delle scelte 
    collettive. Invece nel modello Breton-Salmon permane la necessità di 
    procedure formali di scelta collettiva che pertanto devono essere precisate; 
    inoltre la concorrenza si sposta più chiaramente dal lato dell'offerta.
    Il decentramento è quindi augurabile in quanto capace, analogamente al 
    mercato perfettamente concorrenziale, di rilevare meglio le preferenze dei 
    cittadini (e dei consumatori) grazie ad un più efficiente meccanismo 
    decentrato di decisioni.
    Breton e Salmon non si collocano però nell'ambito del puro neo-classicismo, 
    non riferendosi alla concorrenza basata sull'imprenditore autonomo e 
    distinto da ogni altro che opera in un contesto competitivo di prezzo su 
    prodotti uguali o simili. Al contrario si riferiscono all'imprenditore 
    schumpeteriano che introduce innovazioni, nuove tecnologie, offre nuovi 
    beni, attacca frontalmente l'impresa esistente cercando di travolgerla 
    secondo lo schema della "distruzione creatrice".
    Questo tipo di concorrenza è simile a quella che si svolge in gare e tornei, 
    ma Salmon è interessato a quella fra grandi città o fra regioni, che non 
    implica che esse competano per l'approvazione dello stesso elettorato, 
    competendo così in un torneo dove il partecipante, se vince, ottiene 
    innanzitutto l'approvazione del proprio collegio e se perde può non essere 
    riconfermato. In un simile contesto esistono tre tipi di concorrenza in uno 
    stato centralizzato: 
     la concorrenza tra i politici per ottenere il voto;
     la concorrenza tra le giurisdizioni per attirare residenti e imprese;
     la concorrenza come rivalità per il potere o per avere responsabilità.
    La concorrenza fra politici e/o partiti per accaparrarsi il consenso degli 
    elettori non si svolge su un mercato unico, come nel modello di Tiebout, 
    bensì su diversi mercati. Anzi, Salmon sostiene addirittura la possibilità 
    che tale concorrenza possa svolgersi anche senza mercato, in un contesto nel 
    quale i cittadini tengono conto delle promesse elettorali, del comportamento 
    passato dei politici, ecc. Sembra pertanto si possa quasi trattare di 
    concorrenza per il mercato, anziché nel mercato o, ancora, della concorrenza 
    nel mercato del lavoro, che fa emergere lo sforzo produttivo messo in atto 
    da ciascun lavoratore che partecipa al torneo e aiuta a superare 
    l'asimmetria informativa.
    L'argomento a favore del pluralismo dei livelli di governo permane la sua 
    capacità di ridurre i problemi di asimmetria informativa e di adeguamento 
    dei meccanismi incentivanti. I limiti principali che si riscontrano sono 
    invece:
     l'assunzione che i partecipanti partano da posizioni paritarie, poiché se 
    ci fossero concorrenti più e meno forti, allora i più deboli potrebbero non 
    partecipare al torneo. Ne deriverebbe la necessità di meccanismi perequativi 
    sia di tipo orizzontale che verticale;
     la natura incompleta del contratto che lega eletti ed elettori, in quanto 
    si ha ambiguità nella motivazione del politico locale e difficoltà nel 
    percepire l'effettivo operato a fronte di operazioni d'immagine.
    
    2.1.4 La competizione verticale e il federalismo cooperativo
    La competizione verticale si sviluppa a partire dall'inevitabile 
    sovrapposizione degli effetti causati dalle diverse politiche affidate a 
    livelli di governo differenti. L'esempio tipico italiano, a riguardo, è 
    l'attribuzione al governo centrale della politica industriale e alle regioni 
    italiane della politica ambientale. Gli effetti delle due politiche si 
    sovrappongono ed i cittadini possono scegliere quale sia la soluzione 
    preferita rivolgendosi ad uno dei due livelli di governo, mettendoli così in 
    competizione.
    C'è però chi fa notare che così come esistono nel mercato di beni privati 
    accordi di coordinamento e integrazione, si ha qualcosa di simile anche per 
    la produzione di beni pubblici tra i diversi livelli di governo. Si può cioè 
    avere una forte cooperazione tra livelli di governo in un assetto federale 
    dove i vari livelli dovrebbero tendere a specializzarsi in attività che sono 
    complementari.
    Inoltre la concorrenza dei candidati alle cariche pubbliche di vario livello 
    e la concorrenza post-elettorale per la migliore offerta di un dato servizio 
    sono differenti. La concorrenza verticale si svolge infatti per guadagnare o 
    mantenere il favore dello stesso elettorato. Ma due elementi sono 
    fondamentali:
     i concorrenti competono sì per lo stesso elettorato, ma hanno anche 
    mandati diversi e non facilmente paragonabile;
     forse non esistono vere e proprie funzioni esclusive, ma si tratta più di 
    funzioni pubbliche condivise.
    A partire da tali ragionamenti si è sviluppato il filone di pensiero del 
    federalismo cooperativo, che non considera la competizione come l'unico 
    strumento per ricercare l'efficienza. Infatti, nel settore pubblico i 
    privati cooperano più di quanto non facciano in un mercato; inoltre il 
    settore pubblico ha spesso proprio il compito di offrire beni e servizi che 
    un mercato privato non può proprio offrire (a causa dei fallimenti di 
    mercato). 
    Banale nonché famosissimo esempio a supportare l'idea che la cooperazione in 
    taluni casi e nel settore pubblico in particolare sia più importante e più 
    utile della competizione, è il dilemma del prigioniero. Come si sa in questo 
    tipo di gioco, i due giocatori/prigionieri scelgono di non cooperare proprio 
    per inseguire il massimo interesse in termini egoistici, salvo ottenere un 
    risultato inefficiente poiché se avessero collaborato entrambi avrebbero 
    potuto raggiungere un miglior risultato.
    Questo è comunque il destino dei giochi one shot, dove tende a prevalere la 
    strategia egoistica di breve periodo. Con i supergiochi, cioè i giochi 
    ripetuti più volte nel tempo (meglio se indefinitamente), la cooperazione 
    tende a prevalere e fu Axelrod a dimostrare che la migliore strategia in un 
    gioco di questo tipo e quella nota come tit for tat. Tale semplicissima 
    strategia è infatti caratterizzata dal replicare al proprio avversario la 
    stessa mossa che egli ha fatto immediatamente in precedenza.
    La cooperazione è quindi auspicabile anche in una situazione di mercato, si 
    veda l'applicazione della teoria dei giochi all'economia industriale per 
    quel che riguarda le concentrazioni ed i cartelli. Anzi in alcuni casi la 
    cooperazione è strettamente necessaria: solo il settore pubblico può 
    permettersi di fornire i beni pubblici che non sarebbero convenienti per i 
    privati, si voglia per i problemi di free riding, si voglia per 
    l'impossibilità di raggiungere importanti economie di scala. In alcuni casi 
    la cooperazione nasce spontaneamente, in altri va incentivata e/o 
    organizzata.
    È poi utile notare che in tempi recenti diversi economisti e filosofi hanno 
    iniziato a criticare il principio del self-interest, con le critiche 
    all'utilitarismo, con le teorie della scelta pubbliche, con la teoria 
    economica della giustizia e con il neo-istituzionalismo. Ciò che emerge è 
    quindi che le scelte degli individui possono basarsi non unicamente sulla 
    massimizzazione del proprio benessere, o meglio ancora per rendere il 
    boccone meno amaro al main-stream neoclassico, che nella funzione d'utilità 
    individuale possano rientrare elementi non economici o non legati al consumo 
    del bene in questione. Sempre per rimanere nell'ambito di esempi banali, 
    tutti sanno che in Italia ci sono molti evasori fiscali, ma non per questo e 
    neanche solo per i controlli della Guardia di Finanza, l'intera popolazione 
    italiana cerca di non pagare le tasse.
    Se per alcuni studiosi potrebbe quindi non esservi differenza tra uno stato 
    centralizzato ed uno federale; se si guarda alle possibilità di meglio 
    rispettare le preferenze dei cittadini nei vari contesti in cui essi si 
    trovano ad operare, il governo federale appare come un modello di democrazia 
    più avanzato, dove i cittadini possono partecipare più attivamente alla 
    formazione delle scelte pubbliche.
    Allo stesso modo, anche il modello cooperativo presuppone una maggiore 
    partecipazione dei cittadini e dovrebbe pertanto ritenersi superiore ai 
    modelli competitivi. Inoltre in una teoria di ampio successo come quella di 
    Rawls, la cooperazione è implicitamente introdotta con il "velo d'ignoranza" 
    che riporta tutti gli agenti ad una "posizione originaria" di totale 
    eguaglianza.
    Ancora, in uno stato federale o decentrato, niente garantisce che via sia 
    armonia tra i vari obiettivi e che non vi sia conflittualità tra gli 
    strumenti dei vari livelli di governo. Anzi, dato che esistono dei trade-off 
    tra i vari fini, occorre che gli organismi di governo cooperino per 
    bilanciare costantemente gli obiettivi, calibrare al meglio gli strumenti a 
    tali obiettivi e prevedere meccanismi perequativi sia verticali sia 
    orizzontali.
    
    
    3. Un breve commento
    
    In riferimento al problema dell'attribuzione delle competenze tra i diversi 
    livelli di governo, è necessario porre attenzione innanzitutto al confronto 
    tra la dimensione della giurisdizione (i suoi confini) e l'area entro la 
    quale sono percepibili gli effetti di una sua politica. Per il principio 
    d'equivalenza, si può affermare che una qualunque funzione è svolta al 
    livello efficiente se tali due aree geografiche coincidono. In caso 
    contrario l'efficienza non è raggiunta per la presenza, a seconda del tipo 
    di politica implementata e di quale dei due concetti-grandezza sia 
    superiore, di esternalità positive o negative.
    Le esternalità sono infatti un tipico caso di fallimento del mercato che 
    conducono il sistema verso l'inefficienza. Altro caso di fallimento dei 
    mercati interessante è quello dei beni pubblici, quei beni o servizi che per 
    le loro caratteristiche sono non rivali nel consumo e non escludibili. Per 
    estensione potremmo includere alcune delle politiche pubbliche all'interno 
    di tale categoria: si pensi, ad esempio, a tipici compiti pubblici 
    d'importanza differente quali la giustizia, la difesa militare, la tutela 
    ambientale, l'illuminazione pubblica,… Avvicinandoci al tema del federalismo 
    energetico, si pensi al perseguimento della sicurezza degli 
    approvvigionamenti energetici, al miglioramento della qualità dell'aria e 
    altro ancora. Certo né l'elettricità, né il gas naturale possono essere 
    considerati beni pubblici, ma data l'estensione del consumo e l'importanza 
    che questo riveste nel pieno godimento di diritti socio-economici, si 
    possono considerare come beni pubblici almeno alcune delle politiche del 
    settore.
    Infine, quando l'economia si trova in una situazione di fallimento di 
    mercato, lo Stato può decidere se intervenire direttamente, ad esempio 
    attraverso un monopolio pubblico, od indirettamente. È questo il caso della 
    regolamentazione, attività attraverso la quale si riduce la libertà d'agire 
    sul mercato all'attività imprenditoriale attraverso: incentivi o 
    disincentivi, fissazione dei prezzi (o dei tetti alla loro crescita, o 
    ancora dei tassi di rendimento), imposizione di eventuali obblighi, …
    Esempio di regolazione del mercato sono i servizi "universali", categoria di 
    beni studiata solo di recente e contrapposta alla coppia dicotomica "beni 
    pubblici - beni privati". In campo energetico si può citare il problema 
    della tutela dei "consumatori", cioè dei clienti/utenti sprovvisti di forza 
    negoziale sufficiente per stipulare contratti di acquisto/fornitura a 
    condizioni ritenute vantaggiose.
    A riguardo è stato notato che "il diritto alla "prestazione minima" è ormai 
    da considerarsi principio generale di rango costituzionale"7 
    e l'esigenza di tutela dei consumatori si traduce, nei settori 
    dell'elettricità e del gas, nella disciplina del servizio pubblico e, in 
    particolare, del servizio universale ai "clienti vincolati".
    La definizione di un servizio come "universale" implica l'imposizione di 
    obblighi, in capo alle imprese private fornitrici di tale servizio, volti a 
    garantire un servizio "minimo essenziale, a quasi tutti, a prezzi 
    abbordabili" (Clarich, 1998). Elementi necessari della disciplina del 
    servizio pubblico universale sono, dunque, l'obbligo di prestazione e la 
    disciplina "politica" della fissazione del prezzo. Nei settori di cui si 
    discute, di conseguenza, si prevede da un lato un obbligo espresso di 
    connettere chiunque ne faccia richiesta, nei limiti delle regole di 
    funzionamento efficiente del sistema8; 
    dall'altro, in riferimento al settore elettrico9, 
    la normativa vigente prevede espressamente l'obbligo di una tariffa unica 
    nazionale fissata dall'Autorità per l'Energia elettrica ed il gas per i 
    clienti vincolati10.
    
    In definitiva, prescindendo dal tipo di bene e servizio fornito 
    dall'amministrazione pubblica, ogni livello di governo deve considerare i 
    possibili fenomeni di congestione, di free riding, di esternalità sia 
    positive sia negative, di economie di scala, di scopo e di apprendimento.
    Sono tali fenomeni che, insieme alle caratteristiche del settore energetico, 
    devono essere valutati per decidere la ripartizione delle competenze fra i 
    differenti livelli di governo.
____________________
	
    [1] Si tratta, 
    rispettivamente, delle direttive 96/92/CE e 98/30/CE
    [2] l'equilibrio è 
    il migliore tra quelli raggiungibili e caratterizzato dall'efficienza 
    allocativa 
    [3] basata, cioè, 
    sui risultati finali indipendentemente dei processi seguiti
    [4] tale 
    redistribuzione deve avvenire tramite i trasferimenti lump sum, strumenti 
    non distorsivi del mercato
    [5] Rondinelli 
    D.A., Cheema G.S., "Decentralization and Development"
    [6] Tiebout C.M., 
    "A Pure Theory of Local Government Expenditures", Journal of Political 
    Economy, 1956
    [7] Autorità 
    garante per la concorrenza ed il mercato, Segnalazione AS226
    [8] decreto 
    legislativo n. 79/99, art. 9 e d. lgs. 124/00, art. 16
    [9] infatti, dal 1 
    gennaio 2003 tutti i clienti del settore gas sono idonei
    [10] d. lgs. N. 
    79/99, art. 9
    __________________________
    
 
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