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La riforma dell'ordinamento penitenziaro


ARIANNA ZEPPI




Dal regolamento del 1931 alla riforma del 1975


La riforma penitenziaria del 1975 segna una storica svolta, almeno dal punto di vista dei principi ispiratori, della legislazione sul penitenziario, poiché sostituisce definitivamente il regolamento carcerario fascista del 1931.
Quest’ultimo si ispirava ad una filosofia di applicazione della pena che aveva caratterizzato la normativa in materia sin dall’Unità di Italia, e che vedeva nelle privazioni e nelle sofferenze fisiche gli strumenti per favorire il pentimento e la rieducazione del reo. Fino a quel momento il carcere era stato concepito come luogo impermeabile e isolato dalla società libera. L’isolamento trovava espressione nella disciplina dei rapporti con la società esterna - limitati a colloqui, corrispondenza e visite dei prossimi congiunti, peraltro assai restrittiva e aleatoria, in quanto legata al sistema delle ricompense e delle punizioni. Lo stesso valeva per le visite degli istituti penitenziari ad opera di persone estranee all’amministrazione, riservata solo ad un elenco tassativo di personalità. L’impermeabilità del luogo e l’isolamento dalla società trovavano conferma anche nelle strutture architettoniche dei penitenziari, per lo più ispirate al modello del Panopticon1 di Bentham. Alla situazione sinora descritta si accompagnava la previsione di una struttura burocratica rigidamente centralizzata e verticistica dell’amministrazione penitenziaria, con una rigida subordinazione del personale di custodia al direttore, il quale di volta in volta doveva rivolgersi all’amministrazione centrale per ottenere le relative autorizzazioni. Il sistema penitenziario delineato dal Regolamento del 1931 si articolava, dunque, in una serie di strumenti volti ad ottenere, anche attraverso punizioni e privilegi, nonché attraverso quotidiane pratiche di violenza, un’ adesione coatta alle regole, con una costante violazione delle più elementari regole del rispetto della dignità della persona. Per intervenire su siffatto stato di cose si succedettero, nel corso degli anni, numerose iniziative ministeriali e parlamentari, le quali finirono, però, per nonSessanta, avverse alle forme di violenza legalizzata e che trovarono eco nelle rivolte dei detenuti del 1969, che il clima politico-istituzionale mutò. Con la legge 26 luglio 1975, n. 354 (“Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative della libertà”) il lungo percorso della riforma penitenziaria raggiunse una tappa decisiva, dando seguito alle indicazioni contenute nella Costituzione2.


Lo spirito della riforma del 1975: l’umanizzazione della pena

La riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 mette finalmente in pratica, dopo molti anni, un dettato costituzionale rimasto per molto tempo inattuato. Si legge nella Costituzione, art. 27, terzo comma: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Principio basilare di questa concezione è che la pena possa e debba essere tendenzialmente rieducativa, e cioè debba includere una serie di attività e interventi di natura trattamentale, finalizzati al reinserimento sociale del detenuto.
La legge del ’75 attua, perlomeno sulla carta, il principio costituzionale poc’anzi ricordato. Essa afferma che, ai fini del trattamento rieducativo, al detenuto deve innanzitutto essere assicurato il lavoro, sia all’esterno che all’interno del carcere3.
In primo piano vi è, dunque, la figura del detenuto e non più, come accadeva nel regolamento del 1931, la dimensione organizzativa dell’amministrazione penitenziaria con le esigenze di disciplina ad essa connesse. L’impianto dell’ordinamento penitenziario pone adesso alla base del trattamento i valori dell’umanità e della dignità della persona, ai quali fa da corollario l’affermazione del principio della assoluta imparzialità nei riguardi di tutti i detenuti, “senza discriminazioni in ordine di nazionalità, razza, condizioni economiche e sociali, opinioni politiche e credenze religiose” (art. 1, 2° comma, ord. penit.). Ai detenuti viene assicurata parità di condizioni di vita negli istituti penitenziari (art. 3, ord. penit.) e nessuno fra essi “può avere, nei servizi dell’istituto, mansioni che comportino un potere disciplinare o consentano una posizione di preminenza sugli altri” (art. 32, 3° comma, ord. penit.). Il rispetto per la persona si esprime anche nella previsione per cui “i detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome (art. 1, 4° comma, ord. penit.): si tratta, evidentemente, di una netta presa di posizione nei confronti della prassi di indicare i reclusi con il numero di matricola fatta propria dal Regolamento del 19314.
L’ordinamento penitenziario vigente è stato, dunque, concepito e voluto dal legislatore in funzione non della sola custodia del detenuto e neppure del mero riconoscimento del suo diritto elementare ad un trattamento conforme alla sua qualità di persona, ma - in ossequio all’art. 27 della Costituzione - in funzione del recupero sociale del condannato. Anche da norme regolamentari (D.P.R. 431/76) si ha conferma del superamento definitivo della finalità custodialistica, là dove si dispone che "la sicurezza, l’ordine e la disciplina degli istituti penitenziari costituiscono la condizione per la realizzazione delle finalità del trattamento". La privazione della libertà, aspetto afflittivo della pena, diventa in sostanza il mezzo per tendere al recupero sociale del condannato mediante il suo trattamento individualizzato.
L’attuazione di tutti i punti della legge non è stata, ovviamente, immediata. Molti anni sono dovuti passare prima che si desse avvio ad una reale, quanto lenta, riforma dei vari apparati delle istituzioni carcerarie, a partire dagli edifici, alcuni addirittura di epoca rinascimentale, fino al personale qualificato e al trattamento stesso delle pene e dei detenuti5.



Individualizzazione del trattamento e misure alternative alla detenzione


La riforma dell’Ordinamento penitenziario è stata dunque realizzata con la legge n. 354/75. La legge è divisa in due titoli, "Trattamento" e "Organizzazione". Il primo titolo si rifà ai principi costituzionali, sia per quanto concerne le modalità detentive (art. 27 Cost.), sia per tutto quello che riguarda la libertà personale. Il concetto di umanizzazione della pena è ben evidente nell’art. 1, comma 1, della citata legge, che stabilisce: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona.” E ancora, l’ultimo comma dello stesso articolo recita: “Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento é attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.”6
Di fondamentale importanza è l’art. 4 dell’ordinamento, che assicura ai detenuti e agli internati l’esercizio personale dei loro diritti anche se si trovano in stato di interdizione legale. La decisiva svolta rispetto al Regolamento del 1931 si esprime, dunque, anche nel riconoscimento al detenuto di una propria soggettività giuridica, venendo identificato e definito quale titolare di diritti e di aspettative e legittimato all’agire giuridico proprio nella qualità di titolare di diritti che appartengono alla condizione di detenuto. E si tratta, per lo più, di valori tutelati dalla Costituzione, esprimendosi nei diritti relativi all’integrità fisica, ai rapporti familiari e sociali, all’integrità morale e culturale7. La riforma interviene poi sui vari aspetti dell’istituzione carceraria, quali, per esempio, le spese per l’esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza detentive8, gli edifici penitenziari9 , l’igiene personale10 , il servizio sanitario11, nonché le attrezzature per le attività di lavoro, di istruzione e di ricreazione12. Ulteriore elemento innovativo della legge 354/75 è il trattamento all’individualizzazione: si prescrive, infatti, l’osservazione scientifica della personalità di ciascun detenuto, così da costituire un programma individuale, utile all’assegnare al detenuto il "luogo" in cui scontare la pena (tipo di istituto e sezione). Al riguardo è esemplificativo l’art. 13, il quale stabilisce: “Il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto. Nei confronti dei condannati e degli internati é predisposta l'osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale. L'osservazione é compiuta all'inizio dell'esecuzione e proseguita nel corso di essa. Per ciascun condannato e internato, in base ai risultati dell’osservazione, sono formulate indicazioni in merito al trattamento rieducativo da effettuare ed é compilato il relativo programma, che é integrato o modificato secondo le esigenze che si prospettano nel corso dell'esecuzione.
Le indicazioni generali e particolari del trattamento sono inserite, unitamente ai dati giudiziari, biografici e sanitari, nella cartella personale, nella quale sono successivamente annotati gli sviluppi del trattamento pratico e i suoi risultati.Deve essere favorita la collaborazione dei condannati e degli internati alle attività di osservazione e di trattamento.”13
Gli elementi del trattamento previsto dalla riforma riguardano l’istruzione, il lavoro, le attività culturali, ricreative e sportive, nonché gli opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia14. Vi sono due principi molto importanti nella legge del ‘75: uno riguarda la discontinuità della pena, con la flessibilità dei permessi (che permette ai detenuti di riallacciare periodicamente i rapporti umani, a partire da quelli familiari); l’altro riguarda la flessibilità della pena, con la liberazione anticipata. In base a quest’ultimo principio, il giudice di sorveglianza controlla il comportamento del detenuto, osserva il divenire della sua personalità, accertandone l’eventuale partecipazione al processo rieducativo, in base al quale poter poi concedere una riduzione della pena. Questa prospettiva non è comprensibile se si rimane legati a un concetto vendicativo di pena. Sta proprio qui il netto cambiamento di ottica insito nel nuovo ordinamento penitenziario.
Si parla, poi, di misure alternative alla detenzione15, che possono consistere nell’affidamento in prova al servizio sociale, nella semilibertà o nella detenzione domiciliare dopo aver scontato metà di determinate pene: la novità, in questo caso, sta nel fatto che è proprio la magistratura di sorveglianza ad essere chiamata a gestire permessi e misure alternative, attuando così una collaborazione inedita con l’amministrazione16.
L’affidamento in prova al servizio sociale è considerato la misura alternativa alla detenzione per eccellenza, in quanto si svolge interamente nel territorio, mirando ad evitare al massimo i danni derivanti dal contatto con l’ambiente penitenziario e dalla condizione di privazione della libertà. E’ regolamentato dall’art. 47 dell’Ordinamento Penitenziario, così come modificato dall’art. 2 della Legge n. 165 del 27 maggio 1998, e consiste nell’affidamento al servizio sociale del condannato fuori dall’istituto di pena per un periodo uguale a quello della pena da scontare17. La semilibertà, invece, può essere considerata come una misura alternativa impropria, in quanto, rimanendo il soggetto in stato di detenzione, il suo reinserimento nell’ambiente libero è parziale. E’ regolamentata dall’art. 48 dell’Ordinamento Penitenziario, e consiste nella concessione al condannato e all’internato di trascorrere parte del giorno fuori dall’istituto di pena per partecipare alle attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale, in base ad un programma di trattamento, la cui responsabilità è affidata al direttore dell’istituto di pena.18



Le attività culturali, ricreative e lavorative


La riforma del ’75 permette ai detenuti, al fine della rieducazione e del conseguente reinserimento sociale, di avvalersi principalmente dell’istruzione, del lavoro19, della religione, delle attività ricreative, culturali e sportive, agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia20. Sono questi i nuovi elementi del trattamento che mirano a superare la chiusura e l’isolamento del mondo carcerario.
Un principio importante, infatti, è quello che prevede la partecipazione della comunità esterna: si profila la possibilità di uno scambio assolutamente nuovo tra popolazione detenuta e popolazione libera, finalizzato alla rieducazione e al reinserimento dei detenuti nella società21.
A tale proposito è di fondamentale rilevanza l’art.17, il quale apre definitivamente le porte del carcere al mondo esterno, stabilendo che la finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita sollecitando la partecipazione di privati e di istituzioni pubbliche o private all’azione rieducativa. Inoltre esso stabilisce che tutti coloro i quali sono interessati all’opera di risocializzazione dei detenuti sono autorizzati a frequentare gli istituti penitenziari con il permesso del magistrato di sorveglianza, su parere favorevole del direttore, contribuendo, in tal modo, a promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera22. L’organizzazione di tali attività è curata da una commissione composta dal direttore dell’istituto, dagli educatori e dagli assistenti sociali, dai rappresentanti dei detenuti e degli internati, la quale ha peraltro il compito di mantenere i contatti con il mondo esterno utili al reinserimento sociale23.
L’art. 19, ord. penit. riguarda, invece, la formazione professionale, intesa come attività istruttiva parascolastica, che mira a favorire il reinserimento sociale del detenuto attraverso l’apprendimento delle tecniche per lo svolgimento di una attività produttiva. La disciplina penitenziaria tende, dunque, a favorire l’istruzione (anche professionale), non ricorrendo allo strumento dell’imposizione, ma prevedendo una serie di incentivi (economici, concessione di alcuni benefici) volti a stimolare il detenuto nel compimento di una scelta, tendenzialmente libera e responsabile, in ordine alla frequenza dei corsi.
L’impegno dell’amministrazione penitenziaria a sostenere gli interessi umani, culturali e professionali dei detenuti, non si traduce solo nel dovere di curare la formazione scolastica e professionale dei reclusi, ma è teso anche alla promozione di nuovi stimoli e interessi volti al miglioramento del substrato culturale del condannato. Ad esempio, nel corpo dell’art. 19, ord. penit., è compresa la previsione dell’accesso alle pubblicazioni contenute nella biblioteca, che deve essere istituita presso ciascun istituto. Nella scelta dei libri e dei periodici si deve, peraltro, realizzare una equilibrata rappresentazione del pluralismo culturale esistente nella società (art. 21, 2° comma, reg. esec.). Ad ogni modo, l’ordinamento penitenziario distingue l’istruzione dalle attività culturali in genere, le quali sono più specificatamente menzionate nell’art. 27, ord. penit., nel quale trova definitiva espressione la generale apertura verso tutte quelle attività che contribuiscono all’affermazione della personalità dei detenuti. Oltre ai benefici che possono essere concessi per la partecipazione a queste attività, importante sembra la previsione per cui “i programmi delle attività culturali, ricreative e sportive sono articolati in modo da favorire possibilità di espressioni differenziate” (art. 59, reg. esec.). Anche in ambito penitenziario, quindi, può e deve trovare espressione il pluralismo culturale e qualsiasi attività che contribuisca alla promozione dell’individuo e allo sviluppo della sua personalità. In questo senso particolare pregio rivestono tutte quelle attività che vedono una diretta partecipazione dei detenuti quali, ad esempio, il teatro, lo sport, la redazione di giornali interni, la musica, la pittura24.


Le nuove figure professionali

Nel secondo titolo della legge troviamo tutta una serie di disposizioni relative all’organizzazione penitenziaria, le quali intervengono in materia di istituti25, di giudici di sorveglianza26, di procedimento di sorveglianza27, di servizio sociale e assistenza28 e infine di personale penitenziario29. Vengono dunque introdotte, al fine dell’osservazione scientifica e del reinserimento sociale del detenuto, delle figure professionali del tutto nuove all’interno dell’istituzione carceraria.
Ora, accanto agli agenti di custodia preposti alla custodia del detenuto e al mantenimento dell’ordine pubblico, compaiono gli educatori, portatori del preciso mandato del trattamento rieducativo, e gli assistenti sociali, curatori della nascente “area penale esterna”, che prende corpo con la previsione delle “misure alternative alla detenzione”.
Il gruppo di osservazione scientifica della personalità è costituito da un nucleo stabile di componenti professionali. Essi corrispondono, in definitiva, alle aree di indagine che interessano le esigenze che il soggetto presenta sotto il profilo medico-psicologico, affettivo, educativo e sociale. Tale nucleo è costituito da: il medico, lo specialista, l’educatore e l’assistente sociale, con il direttore dell’istituto, membro e presidente. Ad esso si aggiungono, con contributi diretti o mediati dai componenti stabili, tutti coloro che a vario titolo entrano in relazione con il soggetto30.
Tra i compiti che la normativa penitenziaria raggruppa sotto le competenze dell’area educativa troviamo: la cura delle attività di istruzione scolastica e professionale, di quelle lavorative, culturali, ricreative, sportive e in genere miranti al trattamento rieducativo dei condannati e degli internati; l’offerta agli imputati di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali, e ciò anche attraverso la collaborazione della comunità esterna.
La figura professionale a cui la normativa riconosce un ruolo centrale all’interno dell’area è quella dell’educatore. A quest’operatore è affidata la segreteria tecnica del gruppo d’osservazione e trattamento, nonché una pluralità di compiti che attengono al trattamento rieducativo del recluso. Dell’area, oltre agli educatori, fanno parte anche altre figure professionali, operatori e volontari, la cui opera viene svolta all’interno delle cosiddette attività d’osservazione e trattamento.
La figura dell’educatore ha saputo portare, all’interno della realtà chiusa del carcere, un elemento di novità, di diverso approccio culturale, un ponte tra il mondo carcerario e quello esterno, fino ad allora mediato solo attraverso la figura del cappellano. Attraverso l’educatore, il carcere diventa un luogo sempre più aperto e sempre più avviato a colmare quelle distanze con cui erano stati vissuti quei pochi metri di muro di cinta che separa il dentro dal fuori. L’educatore colma queste distanze e occupa uno spazio che enfaticamente il legislatore definisce “umanizzazione della pena”, quasi a voler riconoscere la disumanizzazione di un sistema che, fino a quel momento, aveva fatto prevalere la carcerazione sempre più come vendetta sociale e sempre meno come rieducazione31.


Le modifiche successive: dalla legge Gozzini al D.P.R. n. 230/2000

E’ soprattutto negli anni ’80 che si assiste, in Italia, ad un mutamento di spinta progressista e innovatrice nel campo della giustizia. Innanzitutto vi è una crescita dell’interesse e della difesa dei diritti umani, che spinge ad un nuovo rapporto carcere territorio. Una seconda grande spinta positiva è rappresentata dal volontariato. L’uomo è, in questo contesto, considerato un patrimonio essenziale, un bene prezioso da salvaguardare, una fonte di civiltà e progresso, un patrimonio di vita. Ma a fronte del tramonto di una vecchia mentalità sui detenuti è subentrato un vuoto culturale sulla loro realtà odierna. Le ricerche storiche e sociologiche sull’opinione pubblica mostrano il disinteresse e la tendenza a non pensare al mondo carcerario. La cancellazione del carcere può essere attribuita ad un atteggiamento di paura e di fastidio nei confronti del carcere stesso, che porta a delegare i problemi di giustizia a pattuglie di volontari, illuminati e legislatori32.
Ad ogni modo, la rivisitazione dell’intero ordinamento penitenziario risale al 1985, quando il ministro Martinazzoli decide di non presentare un disegno di legge governativo, ma di ampliare il piccolo testo di Gozzini: ecco perché la legge 663/1986 va sotto il suo nome (legge Gozzini)33. Essa è ad un tempo causa ed effetto del clima diverso verificatosi nelle carceri italiane a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80. Assistiamo, in questo periodo, ad una serie di convegni organizzati dai detenuti con l’appoggio del Ministero, come ad esempio quello tenutosi a Rebibbia nel giugno ’84, in concomitanza con la rappresentazione dell’Antigone di Sofocle (attori, costumisti, scenografi tutti detenuti, regia e collaborazione della Rai, volontari)34. Ogni convegno è stato un’occasione d’incontro tra esterno e interno, che ha visto la partecipazione di Enti locali, parlamentari, sindacalisti, magistrati, operatori penitenziari, e anche un’occasione per dimostrare che il dettato costituzionale sulla rieducazione dei detenuti può essere un obiettivo realmente perseguibile. Questa legge ha avuto il merito di ampliare ed approfondire le questioni lasciate aperte dalla riforma, permettendo l’osmosi e la permeabilità tra prigione e mondo esterno, favorendo l’ampliamento delle possibilità per i condannati di usufruire di misure alternative alla detenzione35.
La legge Gozzini ha introdotto, nel ventaglio delle alternative, la detenzione domiciliare: con tale beneficio si è voluto ampliare l’opportunità delle misure alternative consentendo la prosecuzione, per quanto possibile, delle attività di cura, di assistenza familiare, di istruzione professionale, già in corso nella fase della custodia cautelare nella propria abitazione (arresti domiciliari) anche successivamente al passaggio in giudicato della sentenza, evitando così la carcerazione e le relative conseguenze negative. L’art. 47 ter è stato modificato dalla legge n. 165 del 27/05/1998 (cosiddetta legge Simeone-Saraceni), che ha ampliato la possibilità di usufruire di questo beneficio. La misura consiste nell’esecuzione della pena nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza e accoglienza36.
Sono stati introdotti, poi, i permessi premio, concessi a quei detenuti che non risultano di particolare pericolosità sociale. Essi hanno durata non superiore ogni volta ai quindici giorni, per consentire di curare interessi affettivi, culturali e di lavoro. La durata dei permessi non può comunque superare complessivamente i quarantacinque giorni in ciascun anno di espiazione, e possono essere concessi a chi ha condanne non superiori a tre anni, o a chi ha già scontato un quarto della pena. Infine la liberazione anticipata, introdotta anch’essa dalla legge Gozzini e applicabile a ciascun condannato, la quale consiste nello sconto di quarantacinque giorni per ogni semestre scontato con regolare condotta37.
Vediamo, dunque, come il trattamento rieducativo si sposti aldilà delle sbarre, dove si svolgono, con l’aiuto della comunità esterna, sempre maggiori interventi rispetto a quelli operati all’interno delle mura carcerarie.
A partire dal 1990, però, rincorrendo un nuova emergenza, viene fatto un passo indietro. In seguito agli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino, vengono posti dei limiti (cfr. art. 4 bis, l. 356/92) alla possibilità di accedere a benefici premiali38.
Le modifiche più recenti apportate all’ordinamento penitenziario del ’75 derivano dalla necessità di trovare una risposta a significativi problemi rimasti irrisolti, quali il sovraffollamento e l’insufficienza delle strutture, le condizioni sanitarie, la crescente conflittualità interna, il limitato ricorso all’area penale esterna. Problemi che concorrono ad aumentare il divario esistente tra legge scritta e sue concrete possibilità di attuazione sul terreno delle strutture, dell’organizzazione e del personale.
L’esigenza di fronteggiare il fenomeno del sovraffollamento degli istituti di pena è alla base della legge 27 maggio 1998, n. 165 (c.d. legge Simeone), la quale, come abbiamo visto, amplia la possibilità di fruizione delle misure alternative, in particolar modo dell’affidamento in prova al servizio sociale per i condannati fino a tre anni di reclusione. Il problema del sovraffollamento, che ha comportato la frequente assenza delle principali norme di igiene, ha ispirato la legge n. 231 del 1999, la quale ha introdotto il principio dell’incompatibilità del regime carcerario per i malati di Aids e quelli affetti da altre gravi malattie, in ragione dei maggiori rischi di contagio all’interno delle strutture penitenziarie. Occorre richiamare, inoltre, anche il d.lgs. 22 giugno 1999, n. 230, che stabilisce principi, diritti e competenze in materia di sanità penitenziaria. I detenuti e gli internati hanno diritto, in base a tale legge, alla prevenzione, alla diagnosi, alla cura e alla riabilitazione. Alle detenute madri è poi rivolta la legge 8 marzo 2001, n. 40, che introduce la “detenzione domiciliare speciale” e l’“assistenza all’esterno dei figli minori”, nel tentativo di superare definitivamente la logica custodialistica del carcere39. Altro ambito interessato da recenti interventi normativi è quello del lavoro dei detenuti (elemento essenziale, se non principale, del trattamento rieducativo), per agevolare il quale è stata prevista la defiscalizzazione degli oneri contributivi a carico delle imprese dall’art. 3 della legge n. 193 del 200040. Ulteriori novità sono costituite dalla previsione dell’incremento degli organici dell’amministrazione penitenziaria e dell’adeguamento dei profili professionali di tutto il personale (d.lgs. 21 maggio 2000, n. 146), nonché dagli stanziamenti per l’attuazione di un programma di investimenti nell’edilizia penitenziaria (legge 23 dicembre 2000, n. 388).
E’ necessario, inoltre, citare l’adozione del nuovo regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario (d.p.r. 30 giugno 2000, n. 230), che rappresenta la più importante realizzazione del movimento riformatore di questi anni41. Il nuovo regolamento di esecuzione si ispira espressamente alle “Regole minime per il trattamento dei detenuti” adottate dall’ONU nel 1955 e alle “Regole penitenziarie europee” del Consiglio d’Europa del 1987. Esso è molto importante poiché ribadisce la necessità, nonché il dovere, di umanizzare le condizioni di vita dei detenuti42. A tale proposito si dispone nell’art. 1, 1° e 2° comma, che “il trattamento degli imputati sottoposti a misure privative della libertà consiste nell'offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali.
Il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale.” 43
L’istituto penitenziario deve poi assicurare l’esistenza di luoghi di pernottamento e di locali comuni per le attività da svolgersi durante il giorno, le singole camere devono essere dotate di finestre che consentano il passaggio dell’aria e della luce, di acqua calda e bidet. Massima attenzione, inoltre, è riservata all’alimentazione, poiché si deve tener conto, oltre che delle esigenze dietetiche, anche delle diverse usanze culturali e delle prescrizioni religiose a causa della eterogenea popolazione detenuta. Viene successivamente ribadito che il programma di trattamento deve essere riferito al singolo individuo, cioè deve essere idoneo a fornire linee guida per il recupero sociale del singolo condannato44. Al problema dei detenuti stranieri, poi, fenomeno di minime dimensioni al tempo del primo regolamento, sono dedicate delle disposizioni apposite45. Altro momento fondamentale è quello dell’ingresso in istituto, in cui viene predisposto l’accertamento di eventuali maltrattamenti46. Viene data, inoltre, molta rilevanza agli incontri con i familiari, previsti in appositi locali o all’aperto. In generale, dunque, si ampliano, seppur parzialmente e non per tutti, i colloqui e le comunicazioni telefoniche con i congiunti47.
In tema di collaborazione tra carcere e società esterna si dispone, nell’art. 4, D.P.R. n. 230/2000, che “alle attività di trattamento svolte negli istituti e dai centri di servizio sociale partecipano tutti gli operatori penitenziari, secondo le rispettive competenze. Gli interventi di ciascun operatore professionale o volontario devono contribuire alla realizzazione di una positiva atmosfera di relazioni umane e svolgersi in una prospettiva di integrazione e collaborazione. A tal fine, gli istituti penitenziari e i centri di servizio sociale, dislocati in ciascun ambito regionale, costituiscono un complesso operativo unitario, i cui programmi sono organizzati e svolti con riferimento alle risorse della comunità locale; i direttori degli istituti e dei centri di servizio sociale indicono apposite e periodiche conferenze di servizio. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ed i provveditori regionali adottano le opportune iniziative per promuovere il coordinamento operativo rispettivamente a livello nazionale e regionale.”48
Ampio spazio viene inoltre dato al volontariato, protagonista negli ultimi anni di numerose attività svolte con i detenuti. Il suddetto D.P.R. autorizza, infatti, tutti coloro che dimostrano interesse e sensibilità per la condizione umana dei sottoposti a misure privative della libertà, e che danno prova di concrete capacità nell’assistenza a persone in stato di bisogno49.


Incongruenze della riforma e boom penitenziario

Nei paragrafi precedenti abbiamo analizzato le principali norme introdotte dalla riforma del ’75, e successivamente abbiamo passato in rassegna le principali modifiche apportate in materia di ordinamento penitenziario, sottolineando come queste ultime tentino, in via di principio, di sanare quelle lacune rimaste irrisolte dalla legge originale (l. 354/75). La realtà dei fatti, purtroppo, risulta assai lontana da tali disposizioni, le quali oggi sembrano trovare, per una serie di motivi, difficoltà di attuazione.
Attualmente il carcere e lo stesso diritto penale stanno attraversando un periodo di crisi. Così il classico principio retributivo, che sancisce, come noto, la proporzionalità della pena alla gravità del reato (ovvero reati di uguale gravità dovrebbero essere puniti con sanzioni altrettanto gravi), sembra messo definitivamente in crisi dall’introduzione delle misure alternative alla detenzione50. Ora, infatti, la modulazione della durata della pena avviene non più e non solo sulla base della gravità del reato, bensì sulla base della condotta del detenuto in carcere e delle condizioni del suo ipotetico reinserimento, opportunamente monitorate da equipe di esperti. Le misure alternative, dunque, sul piano applicativo, non sembrano rispondere ad alcun criterio di razionalità e di certezza. Il fenomeno più evidente di tale incongruenza, da più parti rilevato, risulta dalla totale assenza di relazione tra le suddette misure e l’attuale andamento della popolazione detenuta. Dopo la riforma del ’75, infatti, che ha introdotto le primissime misure, la popolazione detenuta ha cominciato gradualmente a crescere fino al 1986, anno dell’approvazione della legge Gozzini, e tale tendenza ha continuato a persistere nel periodo immediatamente successivo. Neppure la recente legge Simeone-Saraceni, che pure ha esteso l’ottenibilità in astratto delle misure alternative, appare aver calmierato la crescita della popolazione detenuta. Inoltre non è affatto scontato che l’estensione di tali misure si traduca necessariamente in un effettivo aumento della loro concessione51. Ad ogni modo, in termini assoluti, l’area di applicazione delle misure tende a crescere, poiché, al di là delle fasi alterne nell’andamento delle concessioni, sempre maggiore è il numero di soggetti che risultano beneficiarne. Tale area, però, cresce parallelamente e in concomitanza con il crescere della popolazione reclusa, delineandosi, così, una paradossale crescita complessiva dei soggetti sottoposti a controllo penale all’interno e all’esterno del carcere. L’idea, quindi, che l’estensione dell’intervento penale segni una decisa tendenza nella prevedibile riduzione dei massimi di pena, all’insegna di una più contenuta retributività, appare del tutto infondata, inserendosi il fenomeno in una più ampia ridefinizione del sistema di controllo sociale52. In questo senso il carcere, anziché essere elemento di extrema ratio, sembra restare al centro della natura delle misure alternative: da un lato come costante minaccia a cui ricorrere in caso di violazione delle regole trattamentali o di recidiva; dall’altro come induzione all’adesione alle regole interne e alla sopportazione delle disciplina in vista della potenziale concessione dei benefici53. Ad un’ analisi più approfondita si può ipotizzare che il carcere sia un indicatore particolarmente significativo della crisi della società, del suo sistema di controllo, dei processi di destabilizzazione e di disgregazione sociale che l’attraversano, delle culture emergenziali che si diffondono54.
Esistono, inoltre, ulteriori incongruenze tra riforma e concreta attuazione delle norme riguardanti il sistema penitenziario, All’interno degli istituti, ad esempio, permangono meccanismi farraginosi e preclusivi della fruizione di diritti fondamentali per i detenuti, a partire da quelli che riguardano i controlli sanitari fino ad arrivare ai rapporti con l’esterno - colloqui, visite, telefonate -, i cui passaggi burocratici sono spesso gestiti in modo non univoco e poco razionale. Così, una volta terminata la formazione professionale, gli operatori si trovano spesso in un ambiente di lavoro limitato logisticamente, impenetrabile al rinnovamento e alla collaborazione, distante da quanto hanno precedentemente appreso. Ciò è riscontrabile nei metodi di lavoro utilizzati nei confronti di tossicodipendenti, omosessuali, transessuali, immigrati, giudicabili, giudicati in primo grado, definitivi, i quali sono in gran parte gestiti, a differenza di quanto si impara nei corsi, in modo indifferenziato anziché personalizzato. Si è del resto attraversata una fase di riassetto delle carriere in cui il personale è spesso stato inserito in livelli per i quali non era ancora preparato, determinando, così, instabilità organizzativa e scarsa interazione tra gli operatori del mondo penitenziario (di ambiti e ruoli professionali diversi), gli addetti alla sorveglianza e le figure più prettamente preposte al trattamento rieducativo quali educatori, assistenti sociali e psicologi. Non essendoci una cultura specialistica comune tra le diverse figure professionali, ognuno finisce per far riferimento a modelli esterni, acuendo in tal modo le difficoltà prima citate di collaborazione e determinando una generale perdita di senso e di incisività del proprio operare. Il senso di frustrazione che ne deriva può indurre gli addetti al trattamento a perdere fiducia nel proprio lavoro e nella possibilità di riabilitazione del detenuto, e di conseguenza ad accentuare un approccio di tipo puramente regolativo e burocratico. Così, ad esempio, per quanto concerne la polizia penitenziaria, non c’ è stata, negli ultimi anni, una formazione culturale e professionale adeguata a fornire parametri riqualificanti da utilizzare nel quadro delle nuove attività trattamentali previste dalla riforma. Tutto ciò si è tradotto in uno sconfinamento in atteggiamenti autoritari, talora violenti, i quali costituiscono ancora oggi una problema aperto55. Dato che il carcere, come abbiamo visto, offre continue e pericolose tentazioni di violazione dei diritti, risulta di fondamentale importanza il corretto funzionamento delle strutture, l’efficienza dei servizi e l’adeguata preparazione degli operatori. In sintesi, il quadro delle carceri italiane si presenta oggi in maniera profondamente disomogenea: pochi sono i regolamenti interni regolarmente approvati e vigenti negli istituti, molte e variegate le prassi, vi è carenza di personale di polizia, il sovraffollamento è ormai una caratteristica comune a tutti gli istituti, così come l’elevato numero di stranieri e tossicodipendenti, nonché l’elevato numero di atti di autolesionismo; vi è, inoltre, un mancato adeguamento degli istituti (spesso per mancanza di fondi) a quanto richiesto dal nuovo regolamento di esecuzione, problema, questo, che rende impossibile introdurre docce in cella, sbarre che consentano il passaggio di luce naturale, nidi per i figli delle detenute madri, cucine comuni ogni 200 persone, in sostanza tutte quelle strutture, di cui hanno pieno diritto i detenuti, previste dal regolamento d’esecuzione del 200056.
Tale situazione si inserisce in un più preoccupante contesto sociale che vede protagonista, negli ultimi anni, un boom penitenziario che non conosce precedenti. A partire dagli anni ’90 il numero di persone in stato di detenzione o in attesa di una probabile condanna è cresciuto rapidamente in quasi tutti i paesi nord-occidentali. Tutte le democrazie sviluppate procedono, ormai, alla costruzione di nuove carceri e incrementano le spese destinate alle forze di polizia e al personale carcerario adibito alla custodia. Le politiche penali che vedevano il carcere come strumento di reinserimento sociale stanno lasciando il campo a politiche che vedono la detenzione esclusivamente come strumento repressivo e incapacitante. Secondo la concezione emergente la pena deve servire da deterrente e la prevenzione speciale deve limitarsi all’incapacitazione temporanea. Non si chiede al sistema penale di reinserire socialmente il reo: gli si chiede solo di metterlo, almeno per un certo periodo di tempo, in condizioni di non nuocere. Tale fenomeno affonda le sue radici nelle numerose problematiche che i governi occidentali sono chiamati ad affrontare. Oggi, per fronteggiare le masse di migranti ed emarginati, si fa ricorso alle mere misure incapacitanti, al mero contenimento. Attualmente la società, data la possibilità illimitata di reclutare manodopera che le migrazioni offrono e data l’ossessione della scarsezza delle risorse utilizzabili per fini sociali, non sembra voler concedere una nuova possibilità di vita sociale a chi ha commesso un reato57.
Si può, inoltre, osservare un circolo vizioso che sembra aver accelerato con forza nell’ultimo decennio del secolo scorso: si osservano variazioni concomitanti piuttosto chiare tra aumento della popolazione detenuta e condannata, incremento della percezione sociale di insicurezza, inasprimento della domanda sociale di tipo punitivo (fortemente incoraggiata per via politica)58. Le politiche penali ruotano, infatti, intorno al tema, ormai diventato centrale, della sicurezza. La penologia attuariale insegna a selezionare soggetti a rischio di devianza, individuandoli come destinatari delle politiche di controllo penale. Così, migranti, tossici e minori diventano, come abbiamo detto, vittime di strumenti incapacitanti, poiché rappresentano nicchie di esclusione sociale in cui il cittadino non ama affatto identificarsi e da cui si sente fortemente minacciato. La parola d’ordine sicurezza interpreta, quindi, un sentimento diffuso, e gli fornisce, semplificandone la complessità sociale, una risposta simbolica59.
In sintesi, l’attuale emergenza sembra essere rappresentata dal diffondersi della microcriminalità, dall’immigrazione clandestina, dai reati di strada o dalla pedofilia: emergenza che in gran parte evoca problemi di carattere sociale e culturale di grande complessità, a cui il sistema penale risponde con i tradizionali rimedi, ossia attraverso una politica di espansione del sistema repressivo e del controllo penale60. Ormai la pena sembra svincolata da ogni ipotesi di tipo correzionalista, e si ricorre ad essa, invece, in maniera simbolica, invocandone sempre più la severità. D’altronde, come abbiamo visto, l’utilizzo delle alternative come simbolo di garanzia dei diritti fondamentali delle persone (vedi malati di Aids e detenute con figli minori), il privilegio accordato nei fatti e in prospettiva (attraverso l’uso del braccialetto elettronico) a misure maggiormente contenitive e di mero controllo (vedi la detenzione domiciliare), sembrano segnare il definitivo fallimento delle misure alternative e la loro riduzione a semplici strumenti di controllo sul territorio della crescente popolazione detenuta che non è possibile o non è più necessario contenere all’interno degli istituti di pena61.



 

Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 25/09/2005

 

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1 Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire., Einaudi, Torino 1993, pp. 218-228. Secondo Foucault, il Panopticon, ideato da Jeremy Bentham nella metà del XIX secolo, ha espresso nella forma più pura le differenze tra i vecchi ricoveri e le nuove prigioni. Panopticon era il nome che Bentham diede a un carcere ideale da lui progettato, ma mai interamente realizzato. Il Panopticon aveva una forma circolare, con delle celle tutte intorno alle mura perimetrali e con al centro una torre di controllo. Ogni cella era dotata di due finestre, una verso la torre di controllo, l’altra rivolta all’esterno. La finalità del progetto era di rendere i detenuti costantemente visibili alle guardie: le finestre della torre erano coperte da persiane alle veneziana, in modo che il personale del penitenziario potesse sorvegliare continuamente i carcerati, senza a sua volta esporsi alla loro vista. La pianta del Panopticon contribuì a diffondere il principio delle celle separate per singoli individui o piccoli gruppi di carcerati.
2 Ibidem., pp. 19-26.
3 M. Gozzini, L’ordinamento penitenziario dopo la legge 663/1986. Problemi ancora aperti, in A. Lovati (a cura di), Carcere e territorio. I nuovi rapporti promossi dalla legge Gozzini e un’analisi del trattamento dei tossicodipendenti sottoposti a controllo penale, Franco Angeli, Milano 1988, pp. 27-44. Fino ad allora il lavoro in carcere - assai scarso - era quello cosiddetto di istituto (pulizia, cucina, lavanderia), che non occupava più del 25% dei detenuti.
4 M. Ruotolo, op. cit., pp. 26-28. Il principio della imparzialità e della parità di condizioni di vita, se implica il divieto di discriminazioni, non esclude, però, che a livello operativo possa realizzarsi una differenziazione nel trattamento penitenziario. Un primo elemento di differenziazione riguarda gli imputati in stato di detenzione il cui trattamento, in conformità alla previsione del 2° comma dell’art. 27 della Costituzione, “deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva” (art. 1, 5° comma, ord. penit.). Altra importante differenziazione dovrebbe riguardare i detenuti minorenni, in conformità al principio costituzionale della protezione dell’infanzia e della gioventù (art. 31, 2° comma, Cost.) e alla luce della normativa internazionale.
5 M. Gozzini, L’ordinamento penitenziario dopo la legge 663/1986. Problemi ancora aperti, in A. Lovati (a cura di), op. cit., pp. 27-44.
6 Cfr. legge n. 354/75, art. 1
7 M. Ruotolo, op. cit., p. 31
8 Cfr. legge n. 354/75, art. 2
9 Cfr. legge n. 354/75, art. 5
10 Cfr. legge n. 354/75, art. 8
11 Cfr. legge n. 354/75, art. 11
12 Cfr. legge n. 354/75, art. 12
13 Cfr. legge n. 354/75, art. 13
14 Cfr. legge n. 354/75, art. 15
15 Al riguardo, cfr. A. Lovati, Recenti modifiche dell’ordinamento penitenziario in relazione allo stato di alcool e tossicodipendenza, in A. Lovati (a cura di), op. cit., pp. 211-226. Secondo Lovati l’esistenza di forme alternative alla detenzione offre vantaggi eccezionali. In particolare tali misure mettono in primo piano la persona, rendono più umana la pena e il modo di viverla, stimolano e facilitano l’elaborazione di un trattamento per la persona, preparandola più efficacemente al reinserimento, permettono di conservare i rapporti con la famiglia e con la comunità di appartenenza.
16 M. Gozzini, L’ordinamento penitenziario dopo la legge 663/1986. Problemi ancora aperti, in A. Lovati (a cura di), op. cit., pp. 27-44.
17 L. Borsani, Cssa e detenuti stranieri, in F. Berti, F. Malevoli (a cura di), Carcere e detenuti stranieri. Percorsi trattamentali e reinserimento, Franco Angeli, Milano 2003, pp.140-166.
18 Ibidem, pp. 140-166.
19 Cfr. legge n. 354/75, art. 20. Sul lavoro svolto all’esterno degli istituti penitenziari, cfr. legge n. 354/75, art. 21.
20 Cfr. legge n. 354/75, art. 15
21 M. Gozzini, L’ordinamento penitenziario dopo la legge 663/1986. Problemi ancora aperti, in A. Lovati (a cura di), op. cit., pp. 27-44.
22 Cfr. legge n. 354/75, art. 17
23 Cfr. legge n. 354/75, art. 27
24 M. Ruotolo, op. cit., pp. 134-138. Una delle esperienze più significative, nel campo del teatro, è quella di Carte Blanche, gruppo teatrale fondato a Volterra nel 1987 da Armando Punzo e Annet Henneman. Nel 1988 questa compagnia ha iniziato un lavoro, all’interno del carcere di Volterra, che ha portato alla creazione di una vera e propria compagnia teatrale stabile di detenuti, la Compagnia della Fortezza. Sono stati realizzati numerosi spettacoli, rappresentati dentro e, in rare occasioni, persino fuori dalle mura carcerarie, ottenendo successo sia presso il pubblico che presso la critica e gli studiosi di teatro.
In un contesto che, come quello del carcere, annulla per le sue stesse caratteristiche l’individualità della persona, assumono un ruolo fondamentale tutte quelle attività che contribuiscono, come sottolineato nello stesso regolamento penitenziario, a sviluppare la personalità e la libera espressione dell’individuo. In questo senso l’esperienza teatrale di Volterra assume un ruolo assai rilevante all’interno del panorama carcerario italiano.
25 Cfr. legge n. 354/75, art. 59-67
26 Cfr. legge n. 354/75, art. 68-70-bis
27 Cfr. legge n. 354/75, art. 71-71-sexies
28 Cfr. legge n. 354/75, art. 72-78
29 Cfr. legge n. 354/75, art. 79-91
30 G. Calderaro, A. Meli, Planimetria dell’universo carcerario. Agenti di polizia penitenziaria, educatori, assistenti sociali, psicologi, medici amministrativi, tra competenze e processi comunicativi, in R. Mancuso (a cura di), op. cit., pp. 212-224. Il profilo operativo del gruppo incaricato di svolgere l’osservazione, più comunemente chiamato équipe, si rivela in modo abbastanza preciso dal 3° e 4° comma dell’art. 28 e dall’art. 29, reg. esec. Recita, infatti, il 3° comma dell’art. 28, reg. esec. che “l’osservazione è condotta da personale dipendente dall’amministrazione ed anche dai professionisti indicati dall’art. 80 della legge” (professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica), mentre l’art. 29 prevede che “la compilazione del programma di trattamento è effettuata da un gruppo presieduto dal direttore e composto dal personale e dagli esperti che hanno svolto attività di osservazione”.
31 Ibidem, pp. 212-224.
32 L’opinione è di M. Gozzini, L’ordinamento penitenziario dopo la legge 663/1986. Problemi ancora aperti, in A. Lovati (a cura di), op. cit., pp. 27-44.
33 Ibidem, pp. 27-44. In realtà, oltre a Gozzini, gli altri autori della legge furono tre giuristi: Giuliano Vassalli, che presiedeva la Commissione, Raimondo Ricci e Marcello Gallo, che era il relatore.
34 Ibidem, pp. 27-44. A questo convegno ne sono seguiti, in quegli anni, molti altri, da Bergamo a Porto Azzurro (sui mass media), da Bellizzi Irpino a Sollicciano (sul lavoro).
35 Ibidem, pp. 27-44.
36 L. Borsani, Cssa e detenuti stranieri, in F. Berti, F. Malevoli (a cura di), op. cit., pp.140-166.
37 Cfr. C. Polignieri, E. Silvestro, Cenni di storia del diritto penitenziario e caratteristiche dell’ordinamento penitenziario italiano, data ultimo aggiornamento 15/06/2004,
http://www.comune.torino.it/cultura/intercultura/index2.html
38 P. Gonnella, S. Marietti, Il viaggio della riforma, in C. Bertolazzi (a cura di), Una storia diversa. Carcere diritti lavoro, Coop 29 Giugno, Roma 2004, pp. 45-49.
39 M. Ruotolo, op. cit., pp. 32-36.
40 Ibidem, pp. 32-36. Oltre a prevedere sgravi fiscali per le imprese che assumano lavoratori detenuti, la legge n. 193 del 2000 integra l’art. 20, ord. penit. stabilendo che “le amministrazioni penitenziarie, centrali e periferiche, stipulano apposite convenzioni con soggetti pubblici o privati o cooperative sociali interessati a fornire a detenuti o internati opportunità di lavoro. Le convenzioni disciplinano l’oggetto e le condizioni di svolgimento dell’attività lavorativa, la formazione e il trattamento retributivo, senza onere a carico della finanza pubblica” (art. 5). Infine, considera “persone svantaggiate”, ai fini della applicabilità delle agevolazioni previste dalla legge sulle cooperative sociali (n. 381 del 1991), “le persone detenute o internate negli istituti penitenziari” (art. 1).
41 Ibidem, pp. 32-36.
42 L. Bresciani, F. Ferradini, Mutamenti normativi, in S. Anastasia, P. Gonnella (a cura di), Inchiesta sulle carceri italiane, Carocci, Roma 2002, pp. 99-108.
43 Cfr. D.P.R. n. 230/2000, art.1
44 L. Bresciani, F. Ferradini, Mutamenti normativi, in S. Anastasia, P. Gonnella (a cura di), op. cit., pp. 99-108.
45 Ibidem, pp. 99-108. Al fine di garantire una comprensione tra l’amministrazione penitenziaria e gli stranieri si è ritenuto indispensabile la presenza di mediatori culturali anche per sperimentare interventi trattamentali nei paesi di origine.
46 Ibidem, pp. 99-108. Al riguardo si fa carico alla direzione penitenziaria di segnalare all’autorità giudiziaria competente le condizioni fisiche del nuovo arrivato che, dopo il suo ingresso in istituto, deve essere esaminato da un esperto dell’osservazione del trattamento.
47 Ibidem, pp. 99-108.
48 Cfr. D.P.R. n. 230/2000, art.4
49 Cfr. D.P.R. n. 230/2000, art.120
50 G. Mosconi, La crisi postmoderna del diritto penale e i suoi effetti sull’istituzione penitenziaria, in S. Anastasia, M. Palma (a cura di), La bilancia e la misura, Franco Angeli, Milano 2001, pp. 37-65. Secondo Mosconi tale principio appare da sempre disapplicato, data, da un lato, la grande varietà di regimi carcerari, a seconda delle linee amministrative e delle caratteristiche strutturali delle diverse istituzioni; dall’altro la diversa afflittività della pena, in relazione al diverso status sociale del condannato. La proporzionalità della pena è andata ulteriormente in crisi, secondo l’autore, con il superamento dell’economia di mercato in cui la stessa si era definita. La postmodernizzazione dell’economia si può porre in relazione con un analogo processo in materia penale, per cui sulla proporzionalità e la retributività, che segnavano l’equilibrio dello scambio mercantile, sono ora le funzioni simboliche e pragmatiche a prevalere.
51 Ibidem, pp. 37-65. Mosconi nota come, all’indomani dell’approvazione della legge Gozzini, nonostante l’introduzione di modifiche normative atte ad ampliare, in astratto, la concedibilità dei vari benefici, la maggior discrezionalità attribuita ai giudici si sia tradotta in una contrazione generalizzata della concessione degli stessi e in un corrispondente aumento, sia relativo che assoluto, dei rigetti.
52 Ibidem, pp. 37-65. L’opinione è di Mosconi.
53 Dello stesso avviso è M. Ruotolo, Diritti dei detenuti e Costituzione, Giappichelli, Torino 2002, pp. 163-230.
54 G. Mosconi, La crisi postmoderna del diritto penale e i suoi effetti sull’istituzione penitenziaria, in S. Anastasia, M. Palma (a cura di), op. cit., pp. 37-65.
55 F. Barbieri, Handle with care: il personale penitenziario e la sua formazione, in S. Anastasia, P. Gonnella (a cura di), op. cit., pp. 159-175. Le difficoltà non sono quindi solo di ordine organizzativo, le differenze di mentalità e il peso simbolico che il carcere mantiene, anche per gli operatori, impediscono un approccio omogeneo negli interventi negli istituti, dove si giocano una rete di relazioni che non impegnano solo il destino di chi è detenuto, ma anche gli equilibri, non solo professionali, del personale. L’adeguatezza dei supporti formativi si misura quindi sulla possibilità di dare una maggiore scientificità ai parametri con i quali si interviene e quindi a predisporre riferimenti comuni, condivisi tra le varie categorie di operatori, e a misurarli sugli interessi complessivi dei destinatari cui ogni intervento alla fine va rivolto, i detenuti.
56 P. Gonnella, Osservando: istantanee dalle carceri italiane, in S. Anastasia, P. Gonnella (a cura di), op. cit., pp. 179-190. Questi i principali problemi rilevati dall’Associazione Antigone durante l’inchiesta sulle carceri italiane. Poiché le garanzie e i diritti delle persone private della libertà personale non hanno nel nostro paese una autorità indipendente che ne verifichi il rispetto (la magistratura di sorveglianza sempre più spesso riduce il proprio lavoro a quello di giudice di esecuzione delle misure alternative e di determinazione in concreto della durata della pena), l’Osservatorio dell’associazione si è promosso quale organo diretto a verificare che gli standard di detenzione non siano al di sotto di quelli imposti dalla normativa interna e sopranazionale.
57 E. Santoro, Carcere e criminalizzazione dei migranti: una politica “da tre soldi”, in F. Berti, F. Malevoli, op. cit., pp. 40-67..
58 A. Martelli, Uno sguardo dal carcere: l’integrazione paradossale, l’integrazione negata, le politiche di livello locale, in F. Berti, F. Malevoli, op. cit., pp. 189-204. In particolare, per ciò che riguarda la realtà carceraria, l’autore nota come all’aumento della popolazione detenuta corrisponda un ampliamento delle popolazioni-bersaglio, termine che indica le categorie sociali più esposte al rischio penitenziario, del quale si sa che colpisce di preferenza i giovani, gli immigrati, i meno privilegiati.
59 S. Anastasia, Introduzione, in S. Anastasia, P. Gonnella (a cura di), op. cit., pp. 13-30.
60 S. Anastasia, M. Palma, Introduzione, in S. Anastasia, M. Palma (a cura di), op. cit., pp. 7-17. L’opinione riportata è degli autori. A loro avviso la richiesta repressiva trova risposta nei provvedimenti di riordino delle carriere di polizia e delle forze dell’ordine, che hanno visto scatenarsi preoccupanti contese corporative tra i loro sindacati e vertici, nonché negli indirizzi ministeriali e negli orientamenti degli operatori del sistema penale e repressivo, che hanno portato non solo il carcere, ma l’intero apparato di controllo penale ai suoi massimi storici.
61 Ibidem., pp. 7-17. L’opinione riportata è degli autori.