La riforma dell'ordinamento penitenziaro
	ARIANNA ZEPPI
Dal regolamento del 1931 alla riforma del 1975
La riforma penitenziaria del 1975 segna una storica svolta, almeno dal punto 
di vista dei principi ispiratori, della legislazione sul penitenziario, poiché 
sostituisce definitivamente il regolamento carcerario fascista del 1931.
Quest’ultimo si ispirava ad una filosofia di applicazione della pena che aveva 
caratterizzato la normativa in materia sin dall’Unità di Italia, e che vedeva 
nelle privazioni e nelle sofferenze fisiche gli strumenti per favorire il 
pentimento e la rieducazione del reo. Fino a quel momento il carcere era stato 
concepito come luogo impermeabile e isolato dalla società libera. L’isolamento 
trovava espressione nella disciplina dei rapporti con la società esterna - 
limitati a colloqui, corrispondenza e visite dei prossimi congiunti, peraltro 
assai restrittiva e aleatoria, in quanto legata al sistema delle ricompense e 
delle punizioni. Lo stesso valeva per le visite degli istituti penitenziari ad 
opera di persone estranee all’amministrazione, riservata solo ad un elenco 
tassativo di personalità. L’impermeabilità del luogo e l’isolamento dalla 
società trovavano conferma anche nelle strutture architettoniche dei 
penitenziari, per lo più ispirate al modello del Panopticon1 
di Bentham. Alla situazione sinora descritta si accompagnava la previsione di 
una struttura burocratica rigidamente centralizzata e verticistica 
dell’amministrazione penitenziaria, con una rigida subordinazione del personale 
di custodia al direttore, il quale di volta in volta doveva rivolgersi 
all’amministrazione centrale per ottenere le relative autorizzazioni. Il sistema 
penitenziario delineato dal Regolamento del 1931 si articolava, dunque, in una 
serie di strumenti volti ad ottenere, anche attraverso punizioni e privilegi, 
nonché attraverso quotidiane pratiche di violenza, un’ adesione coatta alle 
regole, con una costante violazione delle più elementari regole del rispetto 
della dignità della persona. Per intervenire su siffatto stato di cose si 
succedettero, nel corso degli anni, numerose iniziative ministeriali e 
parlamentari, le quali finirono, però, per nonSessanta, avverse alle forme di 
violenza legalizzata e che trovarono eco nelle rivolte dei detenuti del 1969, 
che il clima politico-istituzionale mutò. Con la legge 26 luglio 1975, n. 354 
(“Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative 
della libertà”) il lungo percorso della riforma penitenziaria raggiunse una 
tappa decisiva, dando seguito alle indicazioni contenute nella Costituzione2.
Lo spirito della riforma del 1975: l’umanizzazione della pena 
La riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 mette finalmente in pratica, 
dopo molti anni, un dettato costituzionale rimasto per molto tempo inattuato. Si 
legge nella Costituzione, art. 27, terzo comma: “Le pene non possono consistere 
in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione 
del condannato”.
Principio basilare di questa concezione è che la pena possa e debba essere 
tendenzialmente rieducativa, e cioè debba includere una serie di attività e 
interventi di natura trattamentale, finalizzati al reinserimento sociale del 
detenuto. 
La legge del ’75 attua, perlomeno sulla carta, il principio costituzionale poc’anzi 
ricordato. Essa afferma che, ai fini del trattamento rieducativo, al detenuto 
deve innanzitutto essere assicurato il lavoro, sia all’esterno che all’interno 
del carcere3.
In primo piano vi è, dunque, la figura del detenuto e non più, come accadeva nel 
regolamento del 1931, la dimensione organizzativa dell’amministrazione 
penitenziaria con le esigenze di disciplina ad essa connesse. L’impianto 
dell’ordinamento penitenziario pone adesso alla base del trattamento i valori 
dell’umanità e della dignità della persona, ai quali fa da corollario 
l’affermazione del principio della assoluta imparzialità nei riguardi di tutti i 
detenuti, “senza discriminazioni in ordine di nazionalità, razza, condizioni 
economiche e sociali, opinioni politiche e credenze religiose” (art. 1, 2° 
comma, ord. penit.). Ai detenuti viene assicurata parità di condizioni di vita 
negli istituti penitenziari (art. 3, ord. penit.) e nessuno fra essi “può avere, 
nei servizi dell’istituto, mansioni che comportino un potere disciplinare o 
consentano una posizione di preminenza sugli altri” (art. 32, 3° comma, ord. 
penit.). Il rispetto per la persona si esprime anche nella previsione per cui “i 
detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome (art. 1, 4° 
comma, ord. penit.): si tratta, evidentemente, di una netta presa di posizione 
nei confronti della prassi di indicare i reclusi con il numero di matricola 
fatta propria dal Regolamento del 19314.
L’ordinamento penitenziario vigente è stato, dunque, concepito e voluto dal 
legislatore in funzione non della sola custodia del detenuto e neppure del mero 
riconoscimento del suo diritto elementare ad un trattamento conforme alla sua 
qualità di persona, ma - in ossequio all’art. 27 della Costituzione - in 
funzione del recupero sociale del condannato. Anche da norme regolamentari 
(D.P.R. 431/76) si ha conferma del superamento definitivo della finalità 
custodialistica, là dove si dispone che "la sicurezza, l’ordine e la disciplina 
degli istituti penitenziari costituiscono la condizione per la realizzazione 
delle finalità del trattamento". La privazione della libertà, aspetto afflittivo 
della pena, diventa in sostanza il mezzo per tendere al recupero sociale del 
condannato mediante il suo trattamento individualizzato.
L’attuazione di tutti i punti della legge non è stata, ovviamente, immediata. 
Molti anni sono dovuti passare prima che si desse avvio ad una reale, quanto 
lenta, riforma dei vari apparati delle istituzioni carcerarie, a partire dagli 
edifici, alcuni addirittura di epoca rinascimentale, fino al personale 
qualificato e al trattamento stesso delle pene e dei detenuti5. 
Individualizzazione del trattamento e misure alternative alla detenzione
La riforma dell’Ordinamento penitenziario è stata dunque realizzata con la 
legge n. 354/75. La legge è divisa in due titoli, "Trattamento" e 
"Organizzazione". Il primo titolo si rifà ai principi costituzionali, sia per 
quanto concerne le modalità detentive (art. 27 Cost.), sia per tutto quello che 
riguarda la libertà personale. Il concetto di umanizzazione della pena è ben 
evidente nell’art. 1, comma 1, della citata legge, che stabilisce: “Il 
trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il 
rispetto della dignità della persona.” E ancora, l’ultimo comma dello stesso 
articolo recita: “Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere 
attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con 
l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento é 
attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche 
condizioni dei soggetti.”6
Di fondamentale importanza è l’art. 4 dell’ordinamento, che assicura ai detenuti 
e agli internati l’esercizio personale dei loro diritti anche se si trovano in 
stato di interdizione legale. La decisiva svolta rispetto al Regolamento del 
1931 si esprime, dunque, anche nel riconoscimento al detenuto di una propria 
soggettività giuridica, venendo identificato e definito quale titolare di 
diritti e di aspettative e legittimato all’agire giuridico proprio nella qualità 
di titolare di diritti che appartengono alla condizione di detenuto. E si 
tratta, per lo più, di valori tutelati dalla Costituzione, esprimendosi nei 
diritti relativi all’integrità fisica, ai rapporti familiari e sociali, 
all’integrità morale e culturale7. 
La riforma interviene poi sui vari aspetti dell’istituzione carceraria, quali, 
per esempio, le spese per l’esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza 
detentive8, 
gli edifici penitenziari9 
, l’igiene personale10 
, il servizio sanitario11, 
nonché le attrezzature per le attività di lavoro, di istruzione e di ricreazione12. 
Ulteriore elemento innovativo della legge 354/75 è il trattamento 
all’individualizzazione: si prescrive, infatti, l’osservazione scientifica della 
personalità di ciascun detenuto, così da costituire un programma individuale, 
utile all’assegnare al detenuto il "luogo" in cui scontare la pena (tipo di 
istituto e sezione). Al riguardo è esemplificativo l’art. 13, il quale 
stabilisce: “Il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni 
della personalità di ciascun soggetto. Nei confronti dei condannati e degli 
internati é predisposta l'osservazione scientifica della personalità per 
rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale. 
L'osservazione é compiuta all'inizio dell'esecuzione e proseguita nel corso di 
essa. Per ciascun condannato e internato, in base ai risultati 
dell’osservazione, sono formulate indicazioni in merito al trattamento 
rieducativo da effettuare ed é compilato il relativo programma, che é integrato 
o modificato secondo le esigenze che si prospettano nel corso dell'esecuzione.
Le indicazioni generali e particolari del trattamento sono inserite, unitamente 
ai dati giudiziari, biografici e sanitari, nella cartella personale, nella quale 
sono successivamente annotati gli sviluppi del trattamento pratico e i suoi 
risultati.Deve essere favorita la collaborazione dei condannati e degli 
internati alle attività di osservazione e di trattamento.”13
Gli elementi del trattamento previsto dalla riforma riguardano l’istruzione, il 
lavoro, le attività culturali, ricreative e sportive, nonché gli opportuni 
contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia14. 
Vi sono due principi molto importanti nella legge del ‘75: uno riguarda la 
discontinuità della pena, con la flessibilità dei permessi (che permette ai 
detenuti di riallacciare periodicamente i rapporti umani, a partire da quelli 
familiari); l’altro riguarda la flessibilità della pena, con la liberazione 
anticipata. In base a quest’ultimo principio, il giudice di sorveglianza 
controlla il comportamento del detenuto, osserva il divenire della sua 
personalità, accertandone l’eventuale partecipazione al processo rieducativo, in 
base al quale poter poi concedere una riduzione della pena. Questa prospettiva 
non è comprensibile se si rimane legati a un concetto vendicativo di pena. Sta 
proprio qui il netto cambiamento di ottica insito nel nuovo ordinamento 
penitenziario.
Si parla, poi, di misure alternative alla detenzione15, 
che possono consistere nell’affidamento in prova al servizio sociale, nella 
semilibertà o nella detenzione domiciliare dopo aver scontato metà di 
determinate pene: la novità, in questo caso, sta nel fatto che è proprio la 
magistratura di sorveglianza ad essere chiamata a gestire permessi e misure 
alternative, attuando così una collaborazione inedita con l’amministrazione16.
L’affidamento in prova al servizio sociale è considerato la misura alternativa 
alla detenzione per eccellenza, in quanto si svolge interamente nel territorio, 
mirando ad evitare al massimo i danni derivanti dal contatto con l’ambiente 
penitenziario e dalla condizione di privazione della libertà. E’ regolamentato 
dall’art. 47 dell’Ordinamento Penitenziario, così come modificato dall’art. 2 
della Legge n. 165 del 27 maggio 1998, e consiste nell’affidamento al servizio 
sociale del condannato fuori dall’istituto di pena per un periodo uguale a 
quello della pena da scontare17. 
La semilibertà, invece, può essere considerata come una misura alternativa 
impropria, in quanto, rimanendo il soggetto in stato di detenzione, il suo 
reinserimento nell’ambiente libero è parziale. E’ regolamentata dall’art. 48 
dell’Ordinamento Penitenziario, e consiste nella concessione al condannato e 
all’internato di trascorrere parte del giorno fuori dall’istituto di pena per 
partecipare alle attività lavorative, istruttive o comunque utili al 
reinserimento sociale, in base ad un programma di trattamento, la cui 
responsabilità è affidata al direttore dell’istituto di pena.18 
Le attività culturali, ricreative e lavorative 
La riforma del ’75 permette ai detenuti, al fine della rieducazione e del 
conseguente reinserimento sociale, di avvalersi principalmente dell’istruzione, 
del lavoro19, 
della religione, delle attività ricreative, culturali e sportive, agevolando 
opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia20. 
Sono questi i nuovi elementi del trattamento che mirano a superare la chiusura e 
l’isolamento del mondo carcerario.
Un principio importante, infatti, è quello che prevede la partecipazione della 
comunità esterna: si profila la possibilità di uno scambio assolutamente nuovo 
tra popolazione detenuta e popolazione libera, finalizzato alla rieducazione e 
al reinserimento dei detenuti nella società21.
A tale proposito è di fondamentale rilevanza l’art.17, il quale apre 
definitivamente le porte del carcere al mondo esterno, stabilendo che la 
finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere 
perseguita sollecitando la partecipazione di privati e di istituzioni pubbliche 
o private all’azione rieducativa. Inoltre esso stabilisce che tutti coloro i 
quali sono interessati all’opera di risocializzazione dei detenuti sono 
autorizzati a frequentare gli istituti penitenziari con il permesso del 
magistrato di sorveglianza, su parere favorevole del direttore, contribuendo, in 
tal modo, a promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la 
società libera22. 
L’organizzazione di tali attività è curata da una commissione composta dal 
direttore dell’istituto, dagli educatori e dagli assistenti sociali, dai 
rappresentanti dei detenuti e degli internati, la quale ha peraltro il compito 
di mantenere i contatti con il mondo esterno utili al reinserimento sociale23.
L’art. 19, ord. penit. riguarda, invece, la formazione professionale, intesa 
come attività istruttiva parascolastica, che mira a favorire il reinserimento 
sociale del detenuto attraverso l’apprendimento delle tecniche per lo 
svolgimento di una attività produttiva. La disciplina penitenziaria tende, 
dunque, a favorire l’istruzione (anche professionale), non ricorrendo allo 
strumento dell’imposizione, ma prevedendo una serie di incentivi (economici, 
concessione di alcuni benefici) volti a stimolare il detenuto nel compimento di 
una scelta, tendenzialmente libera e responsabile, in ordine alla frequenza dei 
corsi.
L’impegno dell’amministrazione penitenziaria a sostenere gli interessi umani, 
culturali e professionali dei detenuti, non si traduce solo nel dovere di curare 
la formazione scolastica e professionale dei reclusi, ma è teso anche alla 
promozione di nuovi stimoli e interessi volti al miglioramento del substrato 
culturale del condannato. Ad esempio, nel corpo dell’art. 19, ord. penit., è 
compresa la previsione dell’accesso alle pubblicazioni contenute nella 
biblioteca, che deve essere istituita presso ciascun istituto. Nella scelta dei 
libri e dei periodici si deve, peraltro, realizzare una equilibrata 
rappresentazione del pluralismo culturale esistente nella società (art. 21, 2° 
comma, reg. esec.). Ad ogni modo, l’ordinamento penitenziario distingue 
l’istruzione dalle attività culturali in genere, le quali sono più 
specificatamente menzionate nell’art. 27, ord. penit., nel quale trova 
definitiva espressione la generale apertura verso tutte quelle attività che 
contribuiscono all’affermazione della personalità dei detenuti. Oltre ai 
benefici che possono essere concessi per la partecipazione a queste attività, 
importante sembra la previsione per cui “i programmi delle attività culturali, 
ricreative e sportive sono articolati in modo da favorire possibilità di 
espressioni differenziate” (art. 59, reg. esec.). Anche in ambito penitenziario, 
quindi, può e deve trovare espressione il pluralismo culturale e qualsiasi 
attività che contribuisca alla promozione dell’individuo e allo sviluppo della 
sua personalità. In questo senso particolare pregio rivestono tutte quelle 
attività che vedono una diretta partecipazione dei detenuti quali, ad esempio, 
il teatro, lo sport, la redazione di giornali interni, la musica, la pittura24.
Le nuove figure professionali
Nel secondo titolo della legge troviamo tutta una serie di disposizioni relative 
all’organizzazione penitenziaria, le quali intervengono in materia di istituti25, 
di giudici di sorveglianza26, 
di procedimento di sorveglianza27, 
di servizio sociale e assistenza28 
e infine di personale penitenziario29. 
Vengono dunque introdotte, al fine dell’osservazione scientifica e del 
reinserimento sociale del detenuto, delle figure professionali del tutto nuove 
all’interno dell’istituzione carceraria.
Ora, accanto agli agenti di custodia preposti alla custodia del detenuto e al 
mantenimento dell’ordine pubblico, compaiono gli educatori, portatori del 
preciso mandato del trattamento rieducativo, e gli assistenti sociali, curatori 
della nascente “area penale esterna”, che prende corpo con la previsione delle 
“misure alternative alla detenzione”.
Il gruppo di osservazione scientifica della personalità è costituito da un 
nucleo stabile di componenti professionali. Essi corrispondono, in definitiva, 
alle aree di indagine che interessano le esigenze che il soggetto presenta sotto 
il profilo medico-psicologico, affettivo, educativo e sociale. Tale nucleo è 
costituito da: il medico, lo specialista, l’educatore e l’assistente sociale, 
con il direttore dell’istituto, membro e presidente. Ad esso si aggiungono, con 
contributi diretti o mediati dai componenti stabili, tutti coloro che a vario 
titolo entrano in relazione con il soggetto30.
Tra i compiti che la normativa penitenziaria raggruppa sotto le competenze 
dell’area educativa troviamo: la cura delle attività di istruzione scolastica e 
professionale, di quelle lavorative, culturali, ricreative, sportive e in genere 
miranti al trattamento rieducativo dei condannati e degli internati; l’offerta 
agli imputati di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, 
culturali e professionali, e ciò anche attraverso la collaborazione della 
comunità esterna.
La figura professionale a cui la normativa riconosce un ruolo centrale 
all’interno dell’area è quella dell’educatore. A quest’operatore è affidata la 
segreteria tecnica del gruppo d’osservazione e trattamento, nonché una pluralità 
di compiti che attengono al trattamento rieducativo del recluso. Dell’area, 
oltre agli educatori, fanno parte anche altre figure professionali, operatori e 
volontari, la cui opera viene svolta all’interno delle cosiddette attività 
d’osservazione e trattamento. 
La figura dell’educatore ha saputo portare, all’interno della realtà chiusa del 
carcere, un elemento di novità, di diverso approccio culturale, un ponte tra il 
mondo carcerario e quello esterno, fino ad allora mediato solo attraverso la 
figura del cappellano. Attraverso l’educatore, il carcere diventa un luogo 
sempre più aperto e sempre più avviato a colmare quelle distanze con cui erano 
stati vissuti quei pochi metri di muro di cinta che separa il dentro dal fuori. 
L’educatore colma queste distanze e occupa uno spazio che enfaticamente il 
legislatore definisce “umanizzazione della pena”, quasi a voler riconoscere la 
disumanizzazione di un sistema che, fino a quel momento, aveva fatto prevalere 
la carcerazione sempre più come vendetta sociale e sempre meno come rieducazione31.
Le modifiche successive: dalla legge Gozzini al D.P.R. n. 230/2000
E’ soprattutto negli anni ’80 che si assiste, in Italia, ad un mutamento di 
spinta progressista e innovatrice nel campo della giustizia. Innanzitutto vi è 
una crescita dell’interesse e della difesa dei diritti umani, che spinge ad un 
nuovo rapporto carcere territorio. Una seconda grande spinta positiva è 
rappresentata dal volontariato. L’uomo è, in questo contesto, considerato un 
patrimonio essenziale, un bene prezioso da salvaguardare, una fonte di civiltà e 
progresso, un patrimonio di vita. Ma a fronte del tramonto di una vecchia 
mentalità sui detenuti è subentrato un vuoto culturale sulla loro realtà 
odierna. Le ricerche storiche e sociologiche sull’opinione pubblica mostrano il 
disinteresse e la tendenza a non pensare al mondo carcerario. La cancellazione 
del carcere può essere attribuita ad un atteggiamento di paura e di fastidio nei 
confronti del carcere stesso, che porta a delegare i problemi di giustizia a 
pattuglie di volontari, illuminati e legislatori32.
Ad ogni modo, la rivisitazione dell’intero ordinamento penitenziario risale al 
1985, quando il ministro Martinazzoli decide di non presentare un disegno di 
legge governativo, ma di ampliare il piccolo testo di Gozzini: ecco perché la 
legge 663/1986 va sotto il suo nome (legge Gozzini)33. 
Essa è ad un tempo causa ed effetto del clima diverso verificatosi nelle carceri 
italiane a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80. Assistiamo, in questo 
periodo, ad una serie di convegni organizzati dai detenuti con l’appoggio del 
Ministero, come ad esempio quello tenutosi a Rebibbia nel giugno ’84, in 
concomitanza con la rappresentazione dell’Antigone di Sofocle (attori, 
costumisti, scenografi tutti detenuti, regia e collaborazione della Rai, 
volontari)34. 
Ogni convegno è stato un’occasione d’incontro tra esterno e interno, che ha 
visto la partecipazione di Enti locali, parlamentari, sindacalisti, magistrati, 
operatori penitenziari, e anche un’occasione per dimostrare che il dettato 
costituzionale sulla rieducazione dei detenuti può essere un obiettivo realmente 
perseguibile. Questa legge ha avuto il merito di ampliare ed approfondire le 
questioni lasciate aperte dalla riforma, permettendo l’osmosi e la permeabilità 
tra prigione e mondo esterno, favorendo l’ampliamento delle possibilità per i 
condannati di usufruire di misure alternative alla detenzione35.
La legge Gozzini ha introdotto, nel ventaglio delle alternative, la detenzione 
domiciliare: con tale beneficio si è voluto ampliare l’opportunità delle misure 
alternative consentendo la prosecuzione, per quanto possibile, delle attività di 
cura, di assistenza familiare, di istruzione professionale, già in corso nella 
fase della custodia cautelare nella propria abitazione (arresti domiciliari) 
anche successivamente al passaggio in giudicato della sentenza, evitando così la 
carcerazione e le relative conseguenze negative. L’art. 47 ter è stato 
modificato dalla legge n. 165 del 27/05/1998 (cosiddetta legge Simeone-Saraceni), 
che ha ampliato la possibilità di usufruire di questo beneficio. La misura 
consiste nell’esecuzione della pena nella propria abitazione o in altro luogo di 
privata dimora, ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza e accoglienza36.
Sono stati introdotti, poi, i permessi premio, concessi a quei detenuti che non 
risultano di particolare pericolosità sociale. Essi hanno durata non superiore 
ogni volta ai quindici giorni, per consentire di curare interessi affettivi, 
culturali e di lavoro. La durata dei permessi non può comunque superare 
complessivamente i quarantacinque giorni in ciascun anno di espiazione, e 
possono essere concessi a chi ha condanne non superiori a tre anni, o a chi ha 
già scontato un quarto della pena. Infine la liberazione anticipata, introdotta 
anch’essa dalla legge Gozzini e applicabile a ciascun condannato, la quale 
consiste nello sconto di quarantacinque giorni per ogni semestre scontato con 
regolare condotta37.
Vediamo, dunque, come il trattamento rieducativo si sposti aldilà delle sbarre, 
dove si svolgono, con l’aiuto della comunità esterna, sempre maggiori interventi 
rispetto a quelli operati all’interno delle mura carcerarie. 
A partire dal 1990, però, rincorrendo un nuova emergenza, viene fatto un passo 
indietro. In seguito agli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino, vengono 
posti dei limiti (cfr. art. 4 bis, l. 356/92) alla possibilità di accedere a 
benefici premiali38.
Le modifiche più recenti apportate all’ordinamento penitenziario del ’75 
derivano dalla necessità di trovare una risposta a significativi problemi 
rimasti irrisolti, quali il sovraffollamento e l’insufficienza delle strutture, 
le condizioni sanitarie, la crescente conflittualità interna, il limitato 
ricorso all’area penale esterna. Problemi che concorrono ad aumentare il divario 
esistente tra legge scritta e sue concrete possibilità di attuazione sul terreno 
delle strutture, dell’organizzazione e del personale. 
L’esigenza di fronteggiare il fenomeno del sovraffollamento degli istituti di 
pena è alla base della legge 27 maggio 1998, n. 165 (c.d. legge Simeone), la 
quale, come abbiamo visto, amplia la possibilità di fruizione delle misure 
alternative, in particolar modo dell’affidamento in prova al servizio sociale 
per i condannati fino a tre anni di reclusione. Il problema del 
sovraffollamento, che ha comportato la frequente assenza delle principali norme 
di igiene, ha ispirato la legge n. 231 del 1999, la quale ha introdotto il 
principio dell’incompatibilità del regime carcerario per i malati di Aids e 
quelli affetti da altre gravi malattie, in ragione dei maggiori rischi di 
contagio all’interno delle strutture penitenziarie. Occorre richiamare, inoltre, 
anche il d.lgs. 22 giugno 1999, n. 230, che stabilisce principi, diritti e 
competenze in materia di sanità penitenziaria. I detenuti e gli internati hanno 
diritto, in base a tale legge, alla prevenzione, alla diagnosi, alla cura e alla 
riabilitazione. Alle detenute madri è poi rivolta la legge 8 marzo 2001, n. 40, 
che introduce la “detenzione domiciliare speciale” e l’“assistenza all’esterno 
dei figli minori”, nel tentativo di superare definitivamente la logica 
custodialistica del carcere39. 
Altro ambito interessato da recenti interventi normativi è quello del lavoro dei 
detenuti (elemento essenziale, se non principale, del trattamento rieducativo), 
per agevolare il quale è stata prevista la defiscalizzazione degli oneri 
contributivi a carico delle imprese dall’art. 3 della legge n. 193 del 200040. 
Ulteriori novità sono costituite dalla previsione dell’incremento degli organici 
dell’amministrazione penitenziaria e dell’adeguamento dei profili professionali 
di tutto il personale (d.lgs. 21 maggio 2000, n. 146), nonché dagli stanziamenti 
per l’attuazione di un programma di investimenti nell’edilizia penitenziaria 
(legge 23 dicembre 2000, n. 388). 
E’ necessario, inoltre, citare l’adozione del nuovo regolamento di esecuzione 
dell’ordinamento penitenziario (d.p.r. 30 giugno 2000, n. 230), che rappresenta 
la più importante realizzazione del movimento riformatore di questi anni41. 
Il nuovo regolamento di esecuzione si ispira espressamente alle “Regole minime 
per il trattamento dei detenuti” adottate dall’ONU nel 1955 e alle “Regole 
penitenziarie europee” del Consiglio d’Europa del 1987. Esso è molto importante 
poiché ribadisce la necessità, nonché il dovere, di umanizzare le condizioni di 
vita dei detenuti42. 
A tale proposito si dispone nell’art. 1, 1° e 2° comma, che “il trattamento 
degli imputati sottoposti a misure privative della libertà consiste nell'offerta 
di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e 
professionali. 
Il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, 
a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti 
personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una 
costruttiva partecipazione sociale.” 
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L’istituto penitenziario deve poi assicurare l’esistenza di luoghi di 
pernottamento e di locali comuni per le attività da svolgersi durante il giorno, 
le singole camere devono essere dotate di finestre che consentano il passaggio 
dell’aria e della luce, di acqua calda e bidet. Massima attenzione, inoltre, è 
riservata all’alimentazione, poiché si deve tener conto, oltre che delle 
esigenze dietetiche, anche delle diverse usanze culturali e delle prescrizioni 
religiose a causa della eterogenea popolazione detenuta. Viene successivamente 
ribadito che il programma di trattamento deve essere riferito al singolo 
individuo, cioè deve essere idoneo a fornire linee guida per il recupero sociale 
del singolo condannato44. 
Al problema dei detenuti stranieri, poi, fenomeno di minime dimensioni al tempo 
del primo regolamento, sono dedicate delle disposizioni apposite45. 
Altro momento fondamentale è quello dell’ingresso in istituto, in cui viene 
predisposto l’accertamento di eventuali maltrattamenti46. 
Viene data, inoltre, molta rilevanza agli incontri con i familiari, previsti in 
appositi locali o all’aperto. In generale, dunque, si ampliano, seppur 
parzialmente e non per tutti, i colloqui e le comunicazioni telefoniche con i 
congiunti47.
In tema di collaborazione tra carcere e società esterna si dispone, nell’art. 4, 
D.P.R. n. 230/2000, che “alle attività di trattamento svolte negli istituti e 
dai centri di servizio sociale partecipano tutti gli operatori penitenziari, 
secondo le rispettive competenze. Gli interventi di ciascun operatore 
professionale o volontario devono contribuire alla realizzazione di una positiva 
atmosfera di relazioni umane e svolgersi in una prospettiva di integrazione e 
collaborazione. A tal fine, gli istituti penitenziari e i centri di servizio 
sociale, dislocati in ciascun ambito regionale, costituiscono un complesso 
operativo unitario, i cui programmi sono organizzati e svolti con riferimento 
alle risorse della comunità locale; i direttori degli istituti e dei centri di 
servizio sociale indicono apposite e periodiche conferenze di servizio. Il 
Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ed i provveditori regionali 
adottano le opportune iniziative per promuovere il coordinamento operativo 
rispettivamente a livello nazionale e regionale.”48
Ampio spazio viene inoltre dato al volontariato, protagonista negli ultimi anni 
di numerose attività svolte con i detenuti. Il suddetto D.P.R. autorizza, 
infatti, tutti coloro che dimostrano interesse e sensibilità per la condizione 
umana dei sottoposti a misure privative della libertà, e che danno prova di 
concrete capacità nell’assistenza a persone in stato di bisogno49.
Incongruenze della riforma e boom penitenziario
Nei paragrafi precedenti abbiamo analizzato le principali norme introdotte dalla 
riforma del ’75, e successivamente abbiamo passato in rassegna le principali 
modifiche apportate in materia di ordinamento penitenziario, sottolineando come 
queste ultime tentino, in via di principio, di sanare quelle lacune rimaste 
irrisolte dalla legge originale (l. 354/75). La realtà dei fatti, purtroppo, 
risulta assai lontana da tali disposizioni, le quali oggi sembrano trovare, per 
una serie di motivi, difficoltà di attuazione.
Attualmente il carcere e lo stesso diritto penale stanno attraversando un 
periodo di crisi. Così il classico principio retributivo, che sancisce, come 
noto, la proporzionalità della pena alla gravità del reato (ovvero reati di 
uguale gravità dovrebbero essere puniti con sanzioni altrettanto gravi), sembra 
messo definitivamente in crisi dall’introduzione delle misure alternative alla 
detenzione50. 
Ora, infatti, la modulazione della durata della pena avviene non più e non solo 
sulla base della gravità del reato, bensì sulla base della condotta del detenuto 
in carcere e delle condizioni del suo ipotetico reinserimento, opportunamente 
monitorate da equipe di esperti. Le misure alternative, dunque, sul piano 
applicativo, non sembrano rispondere ad alcun criterio di razionalità e di 
certezza. Il fenomeno più evidente di tale incongruenza, da più parti rilevato, 
risulta dalla totale assenza di relazione tra le suddette misure e l’attuale 
andamento della popolazione detenuta. Dopo la riforma del ’75, infatti, che ha 
introdotto le primissime misure, la popolazione detenuta ha cominciato 
gradualmente a crescere fino al 1986, anno dell’approvazione della legge Gozzini, 
e tale tendenza ha continuato a persistere nel periodo immediatamente 
successivo. Neppure la recente legge Simeone-Saraceni, che pure ha esteso l’ottenibilità 
in astratto delle misure alternative, appare aver calmierato la crescita della 
popolazione detenuta. Inoltre non è affatto scontato che l’estensione di tali 
misure si traduca necessariamente in un effettivo aumento della loro concessione51. 
Ad ogni modo, in termini assoluti, l’area di applicazione delle misure tende a 
crescere, poiché, al di là delle fasi alterne nell’andamento delle concessioni, 
sempre maggiore è il numero di soggetti che risultano beneficiarne. Tale area, 
però, cresce parallelamente e in concomitanza con il crescere della popolazione 
reclusa, delineandosi, così, una paradossale crescita complessiva dei soggetti 
sottoposti a controllo penale all’interno e all’esterno del carcere. L’idea, 
quindi, che l’estensione dell’intervento penale segni una decisa tendenza nella 
prevedibile riduzione dei massimi di pena, all’insegna di una più contenuta 
retributività, appare del tutto infondata, inserendosi il fenomeno in una più 
ampia ridefinizione del sistema di controllo sociale52. 
In questo senso il carcere, anziché essere elemento di extrema ratio, 
sembra restare al centro della natura delle misure alternative: da un lato come 
costante minaccia a cui ricorrere in caso di violazione delle regole 
trattamentali o di recidiva; dall’altro come induzione all’adesione alle regole 
interne e alla sopportazione delle disciplina in vista della potenziale 
concessione dei benefici53. 
Ad un’ analisi più approfondita si può ipotizzare che il carcere sia un 
indicatore particolarmente significativo della crisi della società, del suo 
sistema di controllo, dei processi di destabilizzazione e di disgregazione 
sociale che l’attraversano, delle culture emergenziali che si diffondono54.
Esistono, inoltre, ulteriori incongruenze tra riforma e concreta attuazione 
delle norme riguardanti il sistema penitenziario, All’interno degli istituti, ad 
esempio, permangono meccanismi farraginosi e preclusivi della fruizione di 
diritti fondamentali per i detenuti, a partire da quelli che riguardano i 
controlli sanitari fino ad arrivare ai rapporti con l’esterno - colloqui, 
visite, telefonate -, i cui passaggi burocratici sono spesso gestiti in modo non 
univoco e poco razionale. Così, una volta terminata la formazione professionale, 
gli operatori si trovano spesso in un ambiente di lavoro limitato logisticamente, 
impenetrabile al rinnovamento e alla collaborazione, distante da quanto hanno 
precedentemente appreso. Ciò è riscontrabile nei metodi di lavoro utilizzati nei 
confronti di tossicodipendenti, omosessuali, transessuali, immigrati, 
giudicabili, giudicati in primo grado, definitivi, i quali sono in gran parte 
gestiti, a differenza di quanto si impara nei corsi, in modo indifferenziato 
anziché personalizzato. Si è del resto attraversata una fase di riassetto delle 
carriere in cui il personale è spesso stato inserito in livelli per i quali non 
era ancora preparato, determinando, così, instabilità organizzativa e scarsa 
interazione tra gli operatori del mondo penitenziario (di ambiti e ruoli 
professionali diversi), gli addetti alla sorveglianza e le figure più 
prettamente preposte al trattamento rieducativo quali educatori, assistenti 
sociali e psicologi. Non essendoci una cultura specialistica comune tra le 
diverse figure professionali, ognuno finisce per far riferimento a modelli 
esterni, acuendo in tal modo le difficoltà prima citate di collaborazione e 
determinando una generale perdita di senso e di incisività del proprio operare. 
Il senso di frustrazione che ne deriva può indurre gli addetti al trattamento a 
perdere fiducia nel proprio lavoro e nella possibilità di riabilitazione del 
detenuto, e di conseguenza ad accentuare un approccio di tipo puramente 
regolativo e burocratico. Così, ad esempio, per quanto concerne la polizia 
penitenziaria, non c’ è stata, negli ultimi anni, una formazione culturale e 
professionale adeguata a fornire parametri riqualificanti da utilizzare nel 
quadro delle nuove attività trattamentali previste dalla riforma. Tutto ciò si è 
tradotto in uno sconfinamento in atteggiamenti autoritari, talora violenti, i 
quali costituiscono ancora oggi una problema aperto55. 
Dato che il carcere, come abbiamo visto, offre continue e pericolose tentazioni 
di violazione dei diritti, risulta di fondamentale importanza il corretto 
funzionamento delle strutture, l’efficienza dei servizi e l’adeguata 
preparazione degli operatori. In sintesi, il quadro delle carceri italiane si 
presenta oggi in maniera profondamente disomogenea: pochi sono i regolamenti 
interni regolarmente approvati e vigenti negli istituti, molte e variegate le 
prassi, vi è carenza di personale di polizia, il sovraffollamento è ormai una 
caratteristica comune a tutti gli istituti, così come l’elevato numero di 
stranieri e tossicodipendenti, nonché l’elevato numero di atti di 
autolesionismo; vi è, inoltre, un mancato adeguamento degli istituti (spesso per 
mancanza di fondi) a quanto richiesto dal nuovo regolamento di esecuzione, 
problema, questo, che rende impossibile introdurre docce in cella, sbarre che 
consentano il passaggio di luce naturale, nidi per i figli delle detenute madri, 
cucine comuni ogni 200 persone, in sostanza tutte quelle strutture, di cui hanno 
pieno diritto i detenuti, previste dal regolamento d’esecuzione del 200056.
Tale situazione si inserisce in un più preoccupante contesto sociale che vede 
protagonista, negli ultimi anni, un boom penitenziario che non conosce 
precedenti. A partire dagli anni ’90 il numero di persone in stato di detenzione 
o in attesa di una probabile condanna è cresciuto rapidamente in quasi tutti i 
paesi nord-occidentali. Tutte le democrazie sviluppate procedono, ormai, alla 
costruzione di nuove carceri e incrementano le spese destinate alle forze di 
polizia e al personale carcerario adibito alla custodia. Le politiche penali che 
vedevano il carcere come strumento di reinserimento sociale stanno lasciando il 
campo a politiche che vedono la detenzione esclusivamente come strumento 
repressivo e incapacitante. Secondo la concezione emergente la pena deve servire 
da deterrente e la prevenzione speciale deve limitarsi all’incapacitazione 
temporanea. Non si chiede al sistema penale di reinserire socialmente il reo: 
gli si chiede solo di metterlo, almeno per un certo periodo di tempo, in 
condizioni di non nuocere. Tale fenomeno affonda le sue radici nelle numerose 
problematiche che i governi occidentali sono chiamati ad affrontare. Oggi, per 
fronteggiare le masse di migranti ed emarginati, si fa ricorso alle mere misure 
incapacitanti, al mero contenimento. Attualmente la società, data la possibilità 
illimitata di reclutare manodopera che le migrazioni offrono e data l’ossessione 
della scarsezza delle risorse utilizzabili per fini sociali, non sembra voler 
concedere una nuova possibilità di vita sociale a chi ha commesso un reato57.
Si può, inoltre, osservare un circolo vizioso che sembra aver accelerato con 
forza nell’ultimo decennio del secolo scorso: si osservano variazioni 
concomitanti piuttosto chiare tra aumento della popolazione detenuta e 
condannata, incremento della percezione sociale di insicurezza, inasprimento 
della domanda sociale di tipo punitivo (fortemente incoraggiata per via 
politica)58. 
Le politiche penali ruotano, infatti, intorno al tema, ormai diventato centrale, 
della sicurezza. La penologia attuariale insegna a selezionare soggetti a 
rischio di devianza, individuandoli come destinatari delle politiche di 
controllo penale. Così, migranti, tossici e minori diventano, come abbiamo 
detto, vittime di strumenti incapacitanti, poiché rappresentano nicchie di 
esclusione sociale in cui il cittadino non ama affatto identificarsi e da cui si 
sente fortemente minacciato. La parola d’ordine sicurezza interpreta, 
quindi, un sentimento diffuso, e gli fornisce, semplificandone la complessità 
sociale, una risposta simbolica59.
In sintesi, l’attuale emergenza sembra essere rappresentata dal diffondersi 
della microcriminalità, dall’immigrazione clandestina, dai reati di strada o 
dalla pedofilia: emergenza che in gran parte evoca problemi di carattere sociale 
e culturale di grande complessità, a cui il sistema penale risponde con i 
tradizionali rimedi, ossia attraverso una politica di espansione del sistema 
repressivo e del controllo penale60. 
Ormai la pena sembra svincolata da ogni ipotesi di tipo correzionalista, e si 
ricorre ad essa, invece, in maniera simbolica, invocandone sempre più la 
severità. D’altronde, come abbiamo visto, l’utilizzo delle alternative come 
simbolo di garanzia dei diritti fondamentali delle persone (vedi malati di Aids 
e detenute con figli minori), il privilegio accordato nei fatti e in prospettiva 
(attraverso l’uso del braccialetto elettronico) a misure maggiormente 
contenitive e di mero controllo (vedi la detenzione domiciliare), sembrano 
segnare il definitivo fallimento delle misure alternative e la loro riduzione a 
semplici strumenti di controllo sul territorio della crescente popolazione 
detenuta che non è possibile o non è più necessario contenere all’interno degli 
istituti di pena61.
 
Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 25/09/2005
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1 Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire., Einaudi, Torino 1993, 
pp. 218-228. Secondo Foucault, il Panopticon, ideato da Jeremy Bentham nella 
metà del XIX secolo, ha espresso nella forma più pura le differenze tra i vecchi 
ricoveri e le nuove prigioni. Panopticon era il nome che Bentham diede a un 
carcere ideale da lui progettato, ma mai interamente realizzato. Il Panopticon 
aveva una forma circolare, con delle celle tutte intorno alle mura perimetrali e 
con al centro una torre di controllo. Ogni cella era dotata di due finestre, una 
verso la torre di controllo, l’altra rivolta all’esterno. La finalità del 
progetto era di rendere i detenuti costantemente visibili alle guardie: le 
finestre della torre erano coperte da persiane alle veneziana, in modo che il 
personale del penitenziario potesse sorvegliare continuamente i carcerati, senza 
a sua volta esporsi alla loro vista. La pianta del Panopticon contribuì a 
diffondere il principio delle celle separate per singoli individui o piccoli 
gruppi di carcerati.
2 Ibidem., pp. 19-26.
3 M. Gozzini, L’ordinamento penitenziario dopo la legge 
663/1986. Problemi ancora aperti, in A. Lovati (a cura di), Carcere e 
territorio. I nuovi rapporti promossi dalla legge Gozzini e un’analisi del 
trattamento dei tossicodipendenti sottoposti a controllo penale, Franco Angeli, 
Milano 1988, pp. 27-44. Fino ad allora il lavoro in carcere - assai scarso - era 
quello cosiddetto di istituto (pulizia, cucina, lavanderia), che non occupava 
più del 25% dei detenuti.
4 M. Ruotolo, op. cit., pp. 26-28. Il principio della 
imparzialità e della parità di condizioni di vita, se implica il divieto di 
discriminazioni, non esclude, però, che a livello operativo possa realizzarsi 
una differenziazione nel trattamento penitenziario. Un primo elemento di 
differenziazione riguarda gli imputati in stato di detenzione il cui 
trattamento, in conformità alla previsione del 2° comma dell’art. 27 della 
Costituzione, “deve essere rigorosamente informato al principio che essi non 
sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva” (art. 1, 5° comma, ord. 
penit.). Altra importante differenziazione dovrebbe riguardare i detenuti 
minorenni, in conformità al principio costituzionale della protezione 
dell’infanzia e della gioventù (art. 31, 2° comma, Cost.) e alla luce della 
normativa internazionale.
5 M. Gozzini, L’ordinamento penitenziario dopo la legge 
663/1986. Problemi ancora aperti, in A. Lovati (a cura di), op. cit., pp. 27-44.
6 Cfr. legge n. 354/75, art. 1
7 M. Ruotolo, op. cit., p. 31
8 Cfr. legge n. 354/75, art. 2
9 Cfr. legge n. 354/75, art. 5
10 Cfr. legge n. 354/75, art. 8
11 Cfr. legge n. 354/75, art. 11
12 Cfr. legge n. 354/75, art. 12
13 Cfr. legge n. 354/75, art. 13
14 Cfr. legge n. 354/75, art. 15
15 Al riguardo, cfr. A. Lovati, Recenti modifiche 
dell’ordinamento penitenziario in relazione allo stato di alcool e 
tossicodipendenza, in A. Lovati (a cura di), op. cit., pp. 211-226. Secondo 
Lovati l’esistenza di forme alternative alla detenzione offre vantaggi 
eccezionali. In particolare tali misure mettono in primo piano la persona, 
rendono più umana la pena e il modo di viverla, stimolano e facilitano 
l’elaborazione di un trattamento per la persona, preparandola più efficacemente 
al reinserimento, permettono di conservare i rapporti con la famiglia e con la 
comunità di appartenenza.
16 M. Gozzini, L’ordinamento penitenziario dopo la legge 
663/1986. Problemi ancora aperti, in A. Lovati (a cura di), op. cit., pp. 27-44.
17 L. Borsani, Cssa e detenuti stranieri, in F. Berti, F. 
Malevoli (a cura di), Carcere e detenuti stranieri. Percorsi trattamentali e 
reinserimento, Franco Angeli, Milano 2003, pp.140-166.
18 Ibidem, pp. 140-166.
19 Cfr. legge n. 354/75, art. 20. Sul lavoro svolto all’esterno 
degli istituti penitenziari, cfr. legge n. 354/75, art. 21.
20 Cfr. legge n. 354/75, art. 15
21 M. Gozzini, L’ordinamento penitenziario dopo la legge 
663/1986. Problemi ancora aperti, in A. Lovati (a cura di), op. cit., pp. 27-44.
22 Cfr. legge n. 354/75, art. 17
23 Cfr. legge n. 354/75, art. 27
24 M. Ruotolo, op. cit., pp. 134-138. Una delle esperienze più 
significative, nel campo del teatro, è quella di Carte Blanche, gruppo teatrale 
fondato a Volterra nel 1987 da Armando Punzo e Annet Henneman. Nel 1988 questa 
compagnia ha iniziato un lavoro, all’interno del carcere di Volterra, che ha 
portato alla creazione di una vera e propria compagnia teatrale stabile di 
detenuti, la Compagnia della Fortezza. Sono stati realizzati numerosi 
spettacoli, rappresentati dentro e, in rare occasioni, persino fuori dalle mura 
carcerarie, ottenendo successo sia presso il pubblico che presso la critica e 
gli studiosi di teatro.
In un contesto che, come quello del carcere, annulla per le sue stesse 
caratteristiche l’individualità della persona, assumono un ruolo fondamentale 
tutte quelle attività che contribuiscono, come sottolineato nello stesso 
regolamento penitenziario, a sviluppare la personalità e la libera espressione 
dell’individuo. In questo senso l’esperienza teatrale di Volterra assume un 
ruolo assai rilevante all’interno del panorama carcerario italiano.
25 Cfr. legge n. 354/75, art. 59-67
26 Cfr. legge n. 354/75, art. 68-70-bis
27 Cfr. legge n. 354/75, art. 71-71-sexies
28 Cfr. legge n. 354/75, art. 72-78
29 Cfr. legge n. 354/75, art. 79-91
30 G. Calderaro, A. Meli, Planimetria dell’universo carcerario. 
Agenti di polizia penitenziaria, educatori, assistenti sociali, psicologi, 
medici amministrativi, tra competenze e processi comunicativi, in R. Mancuso (a 
cura di), op. cit., pp. 212-224. Il profilo operativo del gruppo incaricato di 
svolgere l’osservazione, più comunemente chiamato équipe, si rivela in modo 
abbastanza preciso dal 3° e 4° comma dell’art. 28 e dall’art. 29, reg. esec. 
Recita, infatti, il 3° comma dell’art. 28, reg. esec. che “l’osservazione è 
condotta da personale dipendente dall’amministrazione ed anche dai 
professionisti indicati dall’art. 80 della legge” (professionisti esperti in 
psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica), 
mentre l’art. 29 prevede che “la compilazione del programma di trattamento è 
effettuata da un gruppo presieduto dal direttore e composto dal personale e 
dagli esperti che hanno svolto attività di osservazione”.
31 Ibidem, pp. 212-224.
32 L’opinione è di M. Gozzini, L’ordinamento penitenziario dopo 
la legge 663/1986. Problemi ancora aperti, in A. Lovati (a cura di), op. cit., 
pp. 27-44.
33 Ibidem, pp. 27-44. In realtà, oltre a Gozzini, gli altri 
autori della legge furono tre giuristi: Giuliano Vassalli, che presiedeva la 
Commissione, Raimondo Ricci e Marcello Gallo, che era il relatore. 
34 Ibidem, pp. 27-44. A questo convegno ne sono seguiti, in 
quegli anni, molti altri, da Bergamo a Porto Azzurro (sui mass media), da 
Bellizzi Irpino a Sollicciano (sul lavoro).
35 Ibidem, pp. 27-44.
36 L. Borsani, Cssa e detenuti stranieri, in F. Berti, F. 
Malevoli (a cura di), op. cit., pp.140-166.
37 Cfr. C. Polignieri, E. Silvestro, Cenni di storia del 
diritto penitenziario e caratteristiche dell’ordinamento penitenziario italiano, 
data ultimo aggiornamento 15/06/2004, 
http://www.comune.torino.it/cultura/intercultura/index2.html
38 P. Gonnella, S. Marietti, Il viaggio della riforma, in C. 
Bertolazzi (a cura di), Una storia diversa. Carcere diritti lavoro, Coop 29 
Giugno, Roma 2004, pp. 45-49.
39 M. Ruotolo, op. cit., pp. 32-36.
40 Ibidem, pp. 32-36. Oltre a prevedere sgravi fiscali per le 
imprese che assumano lavoratori detenuti, la legge n. 193 del 2000 integra 
l’art. 20, ord. penit. stabilendo che “le amministrazioni penitenziarie, 
centrali e periferiche, stipulano apposite convenzioni con soggetti pubblici o 
privati o cooperative sociali interessati a fornire a detenuti o internati 
opportunità di lavoro. Le convenzioni disciplinano l’oggetto e le condizioni di 
svolgimento dell’attività lavorativa, la formazione e il trattamento 
retributivo, senza onere a carico della finanza pubblica” (art. 5). Infine, 
considera “persone svantaggiate”, ai fini della applicabilità delle agevolazioni 
previste dalla legge sulle cooperative sociali (n. 381 del 1991), “le persone 
detenute o internate negli istituti penitenziari” (art. 1).
41 Ibidem, pp. 32-36.
42 L. Bresciani, F. Ferradini, Mutamenti normativi, in S. 
Anastasia, P. Gonnella (a cura di), Inchiesta sulle carceri italiane, Carocci, 
Roma 2002, pp. 99-108.
43 Cfr. D.P.R. n. 230/2000, art.1
44 L. Bresciani, F. Ferradini, Mutamenti normativi, in S. 
Anastasia, P. Gonnella (a cura di), op. cit., pp. 99-108.
45 Ibidem, pp. 99-108. Al fine di garantire una comprensione 
tra l’amministrazione penitenziaria e gli stranieri si è ritenuto indispensabile 
la presenza di mediatori culturali anche per sperimentare interventi 
trattamentali nei paesi di origine.
46 Ibidem, pp. 99-108. Al riguardo si fa carico alla direzione 
penitenziaria di segnalare all’autorità giudiziaria competente le condizioni 
fisiche del nuovo arrivato che, dopo il suo ingresso in istituto, deve essere 
esaminato da un esperto dell’osservazione del trattamento.
47 Ibidem, pp. 99-108. 
48 Cfr. D.P.R. n. 230/2000, art.4
49 Cfr. D.P.R. n. 230/2000, art.120
50 G. Mosconi, La crisi postmoderna del diritto penale e i suoi 
effetti sull’istituzione penitenziaria, in S. Anastasia, M. Palma (a cura di), 
La bilancia e la misura, Franco Angeli, Milano 2001, pp. 37-65. Secondo Mosconi 
tale principio appare da sempre disapplicato, data, da un lato, la grande 
varietà di regimi carcerari, a seconda delle linee amministrative e delle 
caratteristiche strutturali delle diverse istituzioni; dall’altro la diversa 
afflittività della pena, in relazione al diverso status sociale del condannato. 
La proporzionalità della pena è andata ulteriormente in crisi, secondo l’autore, 
con il superamento dell’economia di mercato in cui la stessa si era definita. La 
postmodernizzazione dell’economia si può porre in relazione con un analogo 
processo in materia penale, per cui sulla proporzionalità e la retributività, 
che segnavano l’equilibrio dello scambio mercantile, sono ora le funzioni 
simboliche e pragmatiche a prevalere.
51 Ibidem, pp. 37-65. Mosconi nota come, all’indomani 
dell’approvazione della legge Gozzini, nonostante l’introduzione di modifiche 
normative atte ad ampliare, in astratto, la concedibilità dei vari benefici, la 
maggior discrezionalità attribuita ai giudici si sia tradotta in una contrazione 
generalizzata della concessione degli stessi e in un corrispondente aumento, sia 
relativo che assoluto, dei rigetti.
52 Ibidem, pp. 37-65. L’opinione è di Mosconi.
53 Dello stesso avviso è M. Ruotolo, Diritti dei detenuti e 
Costituzione, Giappichelli, Torino 2002, pp. 163-230.
54 G. Mosconi, La crisi postmoderna del diritto penale e i suoi 
effetti sull’istituzione penitenziaria, in S. Anastasia, M. Palma (a cura di), 
op. cit., pp. 37-65.
55 F. Barbieri, Handle with care: il personale penitenziario e 
la sua formazione, in S. Anastasia, P. Gonnella (a cura di), op. cit., pp. 
159-175. Le difficoltà non sono quindi solo di ordine organizzativo, le 
differenze di mentalità e il peso simbolico che il carcere mantiene, anche per 
gli operatori, impediscono un approccio omogeneo negli interventi negli 
istituti, dove si giocano una rete di relazioni che non impegnano solo il 
destino di chi è detenuto, ma anche gli equilibri, non solo professionali, del 
personale. L’adeguatezza dei supporti formativi si misura quindi sulla 
possibilità di dare una maggiore scientificità ai parametri con i quali si 
interviene e quindi a predisporre riferimenti comuni, condivisi tra le varie 
categorie di operatori, e a misurarli sugli interessi complessivi dei 
destinatari cui ogni intervento alla fine va rivolto, i detenuti.
56 P. Gonnella, Osservando: istantanee dalle carceri italiane, 
in S. Anastasia, P. Gonnella (a cura di), op. cit., pp. 179-190. Questi i 
principali problemi rilevati dall’Associazione Antigone durante l’inchiesta 
sulle carceri italiane. Poiché le garanzie e i diritti delle persone private 
della libertà personale non hanno nel nostro paese una autorità indipendente che 
ne verifichi il rispetto (la magistratura di sorveglianza sempre più spesso 
riduce il proprio lavoro a quello di giudice di esecuzione delle misure 
alternative e di determinazione in concreto della durata della pena), 
l’Osservatorio dell’associazione si è promosso quale organo diretto a verificare 
che gli standard di detenzione non siano al di sotto di quelli imposti dalla 
normativa interna e sopranazionale.
57 E. Santoro, Carcere e criminalizzazione dei migranti: una 
politica “da tre soldi”, in F. Berti, F. Malevoli, op. cit., pp. 40-67..
58 A. Martelli, Uno sguardo dal carcere: l’integrazione 
paradossale, l’integrazione negata, le politiche di livello locale, in F. Berti, 
F. Malevoli, op. cit., pp. 189-204. In particolare, per ciò che riguarda la 
realtà carceraria, l’autore nota come all’aumento della popolazione detenuta 
corrisponda un ampliamento delle popolazioni-bersaglio, termine che indica le 
categorie sociali più esposte al rischio penitenziario, del quale si sa che 
colpisce di preferenza i giovani, gli immigrati, i meno privilegiati. 
59 S. Anastasia, Introduzione, in S. Anastasia, P. Gonnella (a 
cura di), op. cit., pp. 13-30.
60 S. Anastasia, M. Palma, Introduzione, in S. Anastasia, M. 
Palma (a cura di), op. cit., pp. 7-17. L’opinione riportata è degli autori. A 
loro avviso la richiesta repressiva trova risposta nei provvedimenti di riordino 
delle carriere di polizia e delle forze dell’ordine, che hanno visto scatenarsi 
preoccupanti contese corporative tra i loro sindacati e vertici, nonché negli 
indirizzi ministeriali e negli orientamenti degli operatori del sistema penale e 
repressivo, che hanno portato non solo il carcere, ma l’intero apparato di 
controllo penale ai suoi massimi storici.
61 Ibidem., pp. 7-17. L’opinione riportata è degli autori.